domenica 31 dicembre 2023

Gran parte dei letterati dalmati scriveva solo in italiano (da "La Dalmazia e l'arte italiana" di Alessandro Dudan)

Abbiamo già parlato di Simeone Gliubich, il vescovo croato che favorì in tutti i modi l'elemento slavo in Dalmazia. Tuttavia, possiamo dire che costui si contraddisse da solo. Infatti egli esamina nel suo libro ( "Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia"), che va fino al 1850, circa 550 dalmati illustri nelle scienze, nelle lettere, nelle arti, nelle armi e nella Chiesa cattolica. Sebbene il libro sia in parecchi riguardi molto arzigogolato, nullameno ne risulta che di 500 scrittori dalmati ben 362 scrissero soltanto in italiano e in latino, che 50 scrissero, oltrechè in italiano e in latino, pure qualche cosuccia insignificante in slavo, e che solo 58 scrissero esclusivamente in slavo.

Inoltre, gli archivi di Venezia conservano i rapporti dei provveditori veneziani al loro governo, dai quali risulta che alla fine del XV sec. la Dalmazia contava appena 60.000 abitanti. Se si considera che le città erano latine e che, per esempio, Spalato sola nel 1244, secondo narra Tomaso Arcid., aveva 500 masiere (casupole nel sobborgo), bruciate dai croati, e, secondo Mica Madio, poteva mandare 1200 suoi cittadini armati contro il conte croato a Clissa, si comprenderà che dei 60.000 dalmati pochi potevano essere gli slavi. Forti colpi alle cittadinanze italiane furono dati dalle pe­stilenze e dai terremoti devastatori (terribile quello di Ragusa nel 1667). 

I vuoti si riempivano di slavi, che s'italianizzavano. Specialmente grandi furono le immigrazioni, favorite da Venezia, di contadini slavi, fug­genti dinanzi ai turchi (soprattutto XVII secolo) e, dopo il "nuovo" e il "novissimo" acquisto a spese dei turchi, la Dalmazia veneziana aveva, si può dire, triplicato la sua popolazione. Durante il dominio au­striaco continuarono le immigrazioni dalle province turche. Soltanto così si arrivò alle odierne (del 1920... sic) proporzioni numeriche dei dalmati parlanti le due lingue.

Slovenia 1941-1948-1952. Anche noi siamo morti per la patria

Una prima edizione di questa poderosa ricerca storica, piena di testimonianze, lettere, fotografie, riproduzioni di documenti, dichiarazioni e articoli di giornale degli anni ‘90 è apparsa a Lubiana nel 1998, opera dei soli primi due autori. Perme, nato a Pecah nel 1926, è un imprenditore pensionato e Zitnik, nato a Grosuplje nel 1940, è stato un dipendente statale.

Dopo il 1998 gli autori hanno cominciato a ricevere scritti e documenti di altre persone coinvolte. Hanno raccolto le deliberazioni di vari consigli comunali sloveni sul tema della segnalazione dei luoghi dei massacri titini, assieme a missive ministeriali, dei tribunali sloveni o di archivi militari di Berlino. Sono arrivate lettere persino dall’Argentina, Australia, Canada da parte di esuli sloveni (p. 14). Un altro emigrato, tale Anton Pavlic, ha scritto dalla Nuova Zelanda riguardo al sepolcro di massa di Brezice, vicino a Dobovo, per oltre 10 mila persone, trasportati coi treni e denudati, tra i quali in maggioranza domobranci sloveni ed anche di belagardisti, eliminati nell’ottobre 1945 (pp. 712-716).
Franc Perme è fondatore, a Lubiana, sin dal 6 febbraio 1991, dell’Associazione per la Sistemazione dei Sepolcri Tenuti Nascosti. Sotto la sua direzione l’associazione ha fatto costruire tre cappelle, ha fatto collocare 18 insegne con croci, crocefissi e 58 insegne commemorative su lastra di marmo nelle parrocchie, sino al 2000. Molti di tali segni della memoria sono stati profanati, asportati o rovinati il giorno dopo dell’inaugurazione, perché c’è ancora tanto odio da parte dei discendenti dei miliziani di Tito, dato per scontato che i protagonisti della guerra partigiana sono ormai scomparsi, oppure sono molto anziani e malati. 
È tutto un piantare croci e posizionare lapidi, volendo ricordare “tutti i combattenti” (p. 19) e ritrovarsele profanate, rubate, asportate, imbrattate. Vedi la Cappella profanata a lanci di vernice di pag. 200 e, per le croci rubate, si vedano le pagine seguenti. Ritengo sia la Cappella di Stari Hrastnik, lungo la strada sul Kal; dietro alla Cappella vi è il cimitero dei domobranci sloveni.
Tra gli altri autori, Franc Nucic, nato a Podgorica nel 1929, è un giudice in pensione, invalido di guerra, autore di libri sugli eccidi comunisti. Janez Crnej, nato a Celje nel 1935, è un veterinario in pensione; nel 1990 è stato eletto alla Camera dei deputati della Repubblica Slovena. Zdenko Zavadlav, nato a Sotanje nel 1924, è pubblicista; da giovane fu capo dell’OZNA a Maribor, ma nel 1948 fu incriminato dalle autorità jugoslave come agente informatore e incarcerato fino al 1954, poi lavorò per l’Agenzia turistica alberghiera fino al 1976, anno della quiescenza. Croci, cappelle e lapidi servono a ricordare l’uccisione perpetrata da parte dei partigiani contro i domobranci sloveni e croati (esercito regolare, alleato dei nazisti) dal 1941 fino agli anni del dopo guerra. Alcune migliaia di domobranci, al termine del conflitto, secondo gli accordi, furono disarmati dagli inglesi e consegnati ai partigiani di Tito, che li passarono per le armi. Gli autori del volume scrivono di 12 mila domobranci sloveni, 18 mila croati, oltre a seimila civili eliminati nelle foibe o in fosse comuni dalla fine di maggio 1945 in poi (p. 159).
Va accennato inoltre che nell’elenco ufficiale delle foibe della Repubblica di Slovenia, consultabile in Internet, si nota, al n. 401, la Foiba di Golobivnica (Grobišče jama Golobivnica), con la puntuale indicazione della nazionalità delle vittime precipitate: slovena ed italiana.
Ci sono molte mappe dei sepolcri (ad esempio a p. 611).
Nel libro ci sono poi numerosi articoli dai giornali sloveni, come ad esempio «Delo» (p. 726), «L’Eco di Grosuplje» (p. 724), «Slovenec» (p. 734). C’è pure la stampa internazionale, come il tedesco «Frankfurter Allgemeine Zeitung», di Francoforte (p. 11-14 e p. 676). In conclusione quanti domobranci ed altri anticomunisti croati, suore e bambini incusi, sono stati uccisi dai titini in Slovenia? La cifra pubblicata nel volume è impressionante. Assomma ad un totale di 222.500 persone. Si pensi che le perdite totali dal punto di vista demografico e di guerra in Jugoslavia sono pari a 2 milioni e 22 mila individui (come si evince dalla tabella 6 di pagina 456). Certo, in questo totale ci sono anche le persone emigrate (o scappate), pari a 625 mila, nel periodo che va dal 1939 al 1948, dei quali 44 mila sono rimasti all’estero. I dati si riferiscono alle province jugoslave, senza i territori annessi.
Qualcuno si chiederà come mai 222,5 mila soldati anticomunisti croati, i loro religiosi e i loro congiunti siano finiti uccisi tutti in Slovenia nelle foibe, nelle cave di sabbia, o nei trinceroni anticarro (costruiti dalla Organizzazione TODT, per frenare l’avanzata dilagante del nemico). Il fatto è che la ritirata dei nazisti e dei loro alleati, come erano appunto i domobranci, comportava anche la risalita verso nord e verso il confine austriaco, che era Terzo Reich.
Alla fine della guerra si ritrovarono tutti imbottigliati nel piccolo territorio della Slovenia. Tito e l’OZNA volevano fare presto ad eliminare tutti gli oppositori e i loro familiari. Non ci sarebbe stato posto per dei campi di concentramento e non sarebbero stati tutti nelle prigioni. Dunque parliamo di vittime, di morti ammazzati. Ecco il risultato, allora, riprodotto nella tabella seguente, intitolata dai cinque autori “Domobranci croati e civili assassinati in Slovenia dal 23 maggio 1945” (p. 457):

Dal crocevia della strada Dravograd fino al confine croato 145.000
A Kočevski rog 41.000
Sul montuoso Zasavski 24.000
Nella campagna Breziski – Mostec 6.000
Nel bosco dei Krakov – 11 sepolcri 5.000
Governativi croati, bambini e monache a Lancovo 1.300
A Crni Grob – ed altri governativi assassinati a Lancovo 200
Totale assassinati in Slovenia 222.500

Quanta Italia c’è nel libro?
Ce n’è abbastanza. Tanto per cominciare ci sono molti militari, dato che l’Italia nel 1941 invade, con la Germania, il Regno di Jugoslavia. La Slovenia scompare essendo suddivisa tra l’annessione italiana della cosiddetta provincia di Lubiana e l’altra parte orientale annessa addirittura al Terzo Reich.
Allora c’è il generale Mario Robotti, comandante delle autorità italiane di Lubiana occupata ed annessa, intenzionato ad aprire “campi di concentramento per l’internamento delle persone sospettate, poiché a Lubiana ve ne erano detenute già 200 e ci si aspettava che il numero avrebbe raggiunto i 1.000” (p. 129).
Poi c’è anche un po’ di Friuli. È fatto cenno al Campo di concentramento di Gonars, in provincia di Udine, per detenere sospetti sloveni e croati (p. 128). Qui finiscono molti ufficiali sloveni, con un “aiutino” dato ai militari italiani da parte della Osvobodilna Fronta (OF), ovvero il Fronte di Liberazione del Popolo Sloveno. Infatti i primi partigiani, sapendo che molti degli ufficiali sloveni erano monarchici e non comunisti, li precettarono ad entrare nell’OF con delle cartoline aperte, cosicché l’esercito italiano venne a sapere i loro indirizzi e li prelevò tutti senza tanti problemi.
Poi sono menzionate le trattative di Tapogliano del 15 giugno 1944. Artefice di tale iniziativa è il prefetto di Gorizia, conte Marino Pace, che prese contatti coi capi partigiani per azioni di non aggressione (pp. 350-353).
Per ringraziare l’OF dei vari favori fatti all’esercito sabaudo imperiale, nel 1943 il generale Guido Cerutti, comandante della divisione “Isonzo” a Novo Mesto “aveva mandato tre vagoni di armamenti, munizioni e divise militari italiane per l’Esercito di Liberazione del Popolo” (p. 144).
C’è anche una specie di eroe nel 1945, quando gli inglesi cedono nelle mani dei titini i domobranci disarmati. È il dottor Valentino Mersola, direttore del Campo di concentramento dei civili. Il 31 maggio 1945 protestò con il maggiore canadese Barr, ufficiale incaricato di consegnare i civili ai titini, perché “gli inglesi mandavano a morte sicura una gran massa di gente” (p. 175). Le proteste di Mersola valsero il rinvio della restituzione dei civili, così egli “salvò da morte sicura seimila sloveni” (p. 177).
Ci sono, infine, gli italiani infoibati a Huda Jama – Lasko, pozzo di Barbana, assieme a sloveni e tedeschi; 2000 uccisi. A Canale d’Isonzo, sotto Hlastec, Dolic Mislinja, assieme a degli ungheresi; 100 ammazzati. Nel fossato anticarro sotto la salita di Mislinja, assieme ad altri ungheresi e ignoti; oltre 500 vittime. Nella foiba del bosco di Tarnova, sul Litorale, tutti italiani; 500 eliminati (p. 784).

Nicolò Raguseo

Nicolò Raguseo (Cattaro ?, 1463 circa – Ragusa, 1517), dalmata di nascita, è stato uno dei più importanti pittori rinascimentali della Repubblica di Ragusa.

Fino agli inizi del XX secolo, pochissimo si sapeva della vita di Nicolò Raguseo: di lui si conosceva unicamente la firma su due quadri, apposta nelle forme Nicolo Raguseo e Nicolaus Rhagusinus. Tramite l'analisi comparata, si era riusciti ad identificare altre opere dovute alla mano dello stesso artista, ma nulla più.

Nel settembre del 1476 il giovane Nicolò risulta apprendista del maestro raguseo Pietro Ognjanovich, che gli promette in cambio vitto, alloggio, ammaestramenti e - alla fine del praticantato - una somma di 1000 iperperi, un mantello e gli strumenti del mestiere.

Qualcosa fece però ritornare i due artisti sui loro passi, tanto che il 6 gennaio 1477 il contratto venne annullato di comune accordo: il giovane Nicolò partì quindi per l'Italia, ritornando a Ragusa solo nel 1491.

Si è ipotizzato che nel suo lungo periodo italiano egli abbia lavorato con i maestri della scuola di Murano, che ebbe nei Vivarini i suoi massimi rappresentanti. Fu influenzato anche dall'opera dei fratelli Carlo e Vittore Crivelli, oltre che dal Carpaccio. Sulla base dell'analisi delle sue successive opere ragusee, si ritiene che molto probabilmente avesse anche studiato gli affreschi del Perugino e del Pinturicchio a Roma.

Dopo il ritorno a Ragusa, Niccolò lavorò sia col padre che separatamente realizzando un discreto numero di opere, delle quali però solo quattro sono pervenute fino a noi.

Nicolò Raguseo morì verso la fine del 1517, mentre stava lavorando ad un polittico per la cattedrale di Ragusa. Dal suo testamento ricaviamo che fosse un uomo di una certa ricchezza, tanto che lasciò 30 ducati d'oro e una grande raccolta di medaglie. Non si sposò mai, forse perché per tutta la vita rimase sempre molto legato al padre, che gli sopravvisse.

Da un singolare evento della sua vita si deduce una personalità gioviale: nel corso delle feste per il carnevale del 1509 passò tre mesi in prigione per aver cantato canzoni sconce, provocando una gazzarra.

Opere:

Trittico per la cappella della famiglia Bonda, nella Chiesa dei Domenicani. È il primo quadro rinascimentale di scuola tipicamente veneziana di cui si ha notizia a Ragusa. Lavorato circa nel 1500, è caratterizzato da una forzata simmetria compositiva: quattro figure - due per parte: san Biagio e sant'Agostino a sinistra, san Paolo e san Tommaso d'Aquino a destra - nei pannelli laterali, fanno da corona alla Vergine in trono col Bambin Gesù al centro, il tutto su fondo oro.

Annunciazione, ex voto dell'armatore e capitano dalmata dell'Isola di Mezzo Marco de Blasio Colendich, nella Chiesa dei Domenicani.

Sacra conversazione per la cappella della famiglia Giorgi, sempre nella chiesa dei Domenicani. Quest'opera e la precedente furono terminate nel 1513, e sono spesso considerate le sue creazioni più felici, pienamente rinascimentali nell'ispirazione.

Madonna e santi, polittico per la chiesa di Santa Maria alle Dance (una località fuori dalle mura cittadine di Ragusa). Di grande impatto visivo, riprende nei comparti laterali la tecnica del fondo oro, che unitamente alla ritualità dei gesti dei personaggi fa notare un ritorno all'iconografia tipica della pittura gotica.

Opere attribuite alla bottega di Nicolò:

Trittico per la chiesa di Santa Maria di Spilica (Isola di Mezzo). L'opera venne commissionata a Nicolò mentre stava lavorando alla Sacra conversazione per la famiglia Giorgi. Dall'analisi tecnico-stilistica non si percepisce la mano del maestro, di conseguenza si ritiene che egli lasciasse il compito agli artisti della sua bottega, tanto che il quadro venne molto criticato.

Biagio di Giorgio da Traù

Biagio di Giorgio da Traù, (Traù, XIV secolo – Zara, 1449), è stato uno dei più importanti pittori del XIV-XV secolo della Dalmazia.

Allo stato attuale, ben poco si sa della vita di Biagio di Giorgio, il cui nome è stato individuato per la prima volta con certezza solo negli anni '40 del XX secolo, sul retro di un polittico della chiesa di Bua, il capoluogo di una piccola isola della Dalmazia.

Furono quindi individuate altre tracce dell'artista in diversi luoghi della regione, dando un'identità - per esempio - al Magister Blasius pictor incaricato nel 1412 di decorare la volta dell'altare maggiore della chiesa di San Francesco a Spalato e nuovamente citato in un altro documento spalatino del 1436. Lo stesso Blasius risultò poi da un elenco notarile di proprietà immobiliari a Zara, fondamentale per stabilire il luogo di nascita dell'artista - Traù - e il luogo e l'anno di morte: Zara 1449. All'interno dello stesso documento, si cita il testamento di Biagio, registrato a Zara nell'aprile del 1448: i nomi degli esecutori testamentari e dei testimoni presenti alla redazione dell'atto dimostrano l'umile estrazione sociale dell'artista, ma anche il suo rapporto con l'aristocrazia di Zara, Ragusa e Traù.

Si scoprì in seguito che Biagio di Giorgio aveva fatto parte della Confraternita dello Spirito Santo di Traù, miniandone la relativa mariegola. Alla stessa confraternita Biagio lasciò alcune opere, così come una certa somma per la fabbrica delle mura di Traù, per l'ospedale e per la chiesa: simili lasciti fece anche per Zara, chiedendo di essere ivi sepolto all'interno della chiesa di San Francesco, in abito francescano.

Opere:

La formazione artistica di Biagio sembra avvenuta, dopo Traù, a Venezia e - si suppone - anche presso qualche artista marchigiano. Dal 1421 al 1427 risulta aver avuto bottega a Ragusa, abitando in una casa del comune. Nel 1429 è menzionato in documenti di Traù, mentre nel 1431 è a Curzola, ove dipinge un polittico per la Confraternita di Ognissanti.

Attualmente a Biagio di Giorgio sono assegnate le seguenti opere:

Tre polittici a Traù, uno a Curzola, Bua e Sebenico

Due Crocifissi a Spalato e a Stagno

La Madonna del Roseto a Ragusa (chiesa di San Giorgio)

Una Madonna col Bambino di casa Cippico a Traù

Una Madonna col Bambino oggi al museo di Sebenico

La Madonna del Castello di Zara

Le miniature della mariegola della Confraternita dello Spirito Santo di Traù

Storicamente si riconosce l'influenza nello stile di Biagio del Gotico fiorito (o Tardo gotico), permanendo purtuttavia in lui una certa reminiscenza dell'arte bizantina.

Fra le scuole pittoriche e gli autori che l'hanno influenzato, si sono fatti i nomi del veneziano Zanino di Pietro, ma soprattutto di Jacobello del Fiore, che dall'analisi delle opere di Biagio risulta sicuramente conosciuto da quest'ultimo. Un altro autore che pare aver influenzato Biagio di Giorgio è Gentile da Fabriano.

Resta peraltro lunga la strada degli studiosi per l'inquadramento a tutto tondo di quest'autore, così come dell'intera pittura dalmata a cavallo fra i secoli XIV e XV.

Bartolomeo Biasoletto

Bartolomeo Biasoletto (Dignano d'Istria, 24 aprile 1793 – Trieste, 17 gennaio 1859) è stato un chimico, botanico e naturalista italiano.

Frequentò la scuola a Dignano, Veglia e Vienna. Lavorò come farmacista a Dignano, Fiume, Trieste e nella città austriaca del nord Wels. Dopo la morte del proprietario, compra a Trieste la farmacia triestina Orso Nero, che divenne il centro delle sue attività di ricerca in scienze naturali. All'inizio si occupava anche di zoologia e di mineralogia, ma poi si dedicò totalmente alla botanica dopo l'incontro con il botanico tedesco di Regensburg, avvenuto a Trieste.

Collaborò con una serie d'importanti scienziati e botanici tedeschi, inglesi, istriani e dalmati con i quali scambiava le scoperte e le piante. Esplorando il mondo vegetale percorse l'Istria, la Furlania, il Quarnero, la Dalmazia e la Carniola. Con M. de Tommasini ha fatto da guida al re sassone Federico Augusto II, nel corso delle sue visite nell'Adriatico orientale, nel 1838 e 1845. A Trieste ha avviato la fondazione di una società farmaceutica, e nel 1825 ha istituito un giardino botanico. Partecipò nella lotta contro il colera, che nel 1984 dilaniava la città, di cui furono vittime sua moglie e sua figlia che morirono in seguito alle conseguenze del morbo. Il suo lavoro ha contribuito in maniera rilevante ad una migliore comprensione della vita vegetale, in particolare la zona Dinarica, e successivamente il suo lavoro fu oggetto di un'intensa attività di ricerca. In segno di riconoscimento fu eletto membro di una serie di società e istituzioni - Dell'Accademia botanica di Regensburg, dell'Accademia di orticultura a Vienna e altre. I botanici hanno chiamato con il suo nome numerose specie e generi vegetali (Trifolium biasoletti, Artemisia biasolettiana, Juniperus biasoletti e altri dr.), ma considerando che i nomi non sono stati accertati in modo esatto, nessuno di questi è persistito. Ha pubblicato nelle riviste Flora ratisbonensis, Isis e Linnaea e nella raccolta degli Atti della I riunione degli Scienziati italiani. Opere: Relazione del viaggio fatto nella primavera del 1838 dalla Maesta del Re Federico Augusto di Sassonia nell'Istria, Dalmazia e Montenegro (1841), Escursioni botaniche sul Monte Nevoso (1846). Il suo lavoro è stato introdotto in numerose opere floreali di altri autori.

Istria sconosciuta

La cosa migliore del fotografare è di non dover spiegare le cose con le parole.
(Elliott Erwitt)



Lanischie.
Nel Medioevo il comune contadino apparteneva alla Signoria di Raspo. Viene nominato per la prima volta nel 1358 con il nome deformato di Harlani, e nel 1394 passa sotto il dominio di Venezia. La chiesa parrocchiale di S. Canzia, Canziana e Canzianile è stata costruita nel 1927 sopra a quella più antica del 1609, ricostruita su progetto dell'architetto Giovanni Berné, come spiega la scritta posta sopra il portale della chiesa. Consacrata nel 1935 dal vescovo Fogan è stata restaurata nel 1956.

Ci sono tre altari di un certo interesse ed uno semplice. In mezzo a due statue marmoree, c'è un grande Crocifisso del XIV/XV sec. proviniente dalla chiesa di S. Giusto a Trieste di altezza naturale del 1928, e una pala opera di Decleva del 1904.

Il campanile (19 m) addossato sul lato sinistro della facciata, è coperto da uno strato di grezzo intonaco ed è praticamente spoglio, a parte delle iscrizioni in corsi regolari di calcere. Una rappresenta una maschera, le altre ricordano la costruzione della chiesa nel 1609 e riportano il nome del pievano don Francesco e quello del gastaldo Gaspare Busdon.

Plavia.
La borgata fino al 1700 era chiamata, su tutti i documenti, atti e registri, con il nome di Plaula. Il nome Plavia deriva probabilmente dalla strada romana via Flavia.

Paugnano.
Il nome latino di questa località è Pomilianum, qualcuno suggerì Pagus Jani, lo storico Pietro Kandler indicò il nome romano Pomianum.
Gli slavi qui comparvero nei primi secoli del medioevo. Si insediarono nelle campagne e la convivenza con l'elemento italiano rappresentato dall'episcopato, dai maggiorenti veneti e dalle famiglie feudali continuò per secoli favorendo lentamente l'integrazione. Adesso la popolazione, nella sua maggioranza, è di immigrazione bosniaca.

San Quirico. 
Nel 1028, allorché l'imperatore Corrado II il Salico donò il paese al patriarca di Aquileia, questo fu nominato col nome di San Siro, toponimo che si ritrova poi anche in un atto del 1540. 
Nel XIV secolo venne stanziata nella campagna circostante della popolazione slava che tramutò il nome da San Sirico a Socerga che rimase il nome più usato.
In sloveno il nome San Quirico (Sv Kvirik) è ancora presente ma si rivolge agli omonimi monte e chiesa nelle vicinanze.

Settore. 
Il nome dell'insediamento è stato cambiato da Settore - Cetore (forma slovena) a Vinica nel 1957. Il nome Vinica fu cambiato dai nazionalisti sloveni in riferimento al villaggio natale del poeta sloveno Oton Župančič, nato a Vinica. Il nome originale venne ripristinato nel 1988.

Malio,
villaggio di Isola d'Istria.
La chiesa locale è dedicata a Nostra Signora del Monte Carmelo ed è stata costruita nel 1932, nel periodo italiano.

Maresego,
anticamente chiamato Corte di Maresego ed anche Marriego. La derivazione del nome dell'antico predio romano è incerta: forse dal nome personale romano "Marius" o forse da "Marensicus" o "Mare secum".

Sant'Antonio (Capodistria). 
Il nome del paese “Sant'Antonio”, che dopo la seconda guerra mondiale prese il nome di Pridvor (letteralmente “presso la corte”), è stato ripreso e trasformato in Sv. Anton.

Santa Lucia. 
Nel 1948 in Slovenia venne promulgata una legge per eliminare qualsiasi riferimento religioso nelle denominazioni ufficiali di località, piazze, strade ed edifici. Santa Lucia divenne quindi ufficialmente solo Lucia nella forma italiana e Lucija nella forma slovena. Ancora oggi il nome originale non è stato ripristinato.

Sasseto.
 Fu chiamata anche Xaxid, Xaxa e Xaxet e Villa dei Sassi mentre l'attuale Sasseto è l'antico nome romano, Saxetum. Fu possesso di nobili famiglie capodistriane fin dal 1400; infatti faceva parte del distretto di Capodistria, durante la dominazione veneta. Gli Sloveni lo chiamarono Zazid che significa dietro il muro. 
Nel Medioevo fu un villaggio fortificato e nel 1195 un gruppo di coloni slavi vennero sistemati in questo sito. Nel XVII secolo fu conquistato due volte dai Veneziani e poi restituito all'Austria.

Puzzole (Capodistria).
Comprende le frazioni di Crisichie e Plagnave. 
Plagnave è composta da un gruppo di vecchie case di campagna e si trova in basso, a mezza costa tra Puzzole ed il fondo valle. Il nome probabilmente non deriva da "planu" in quanto lo sloveno planiava significa "pianura" che qui non esiste. Puzzole invece deriva da "puteus" come diceva il Naldini: "qui non è facile incontrare l'acqua nello scavare i pozzi"; potrebbe derivare anche da "puzzola".

I villaggi di Puzzole e Plagnave, feudi della famiglia Verzi, erano sottoposti sia allo zuppano che al parroco di Costabona; ora è frazione di Monte di Capodistria.

A Puzzole la chiesa dedicata a santa Maria del Carmine ha sulla facciata un campanile a vela, è parzialmente intonacata ed è probabilmente del secolo XVI. Sul portale della chiesa, una scritta latina riporta che la chiesa è stata restaurata nel 1715, essendo "gastaldo" Giacomo Bonazza e che il pievano in quel tempo era Filippo Sergas.

Villa Manzini.
Il toponimo Villa Manzini deriva dall'antica famiglia albonese dei Manzin, a suo tempo proprietari terrieri di Villanova di Verteneglio, tanto che ancora oggi viene localmente chiamata in sloveno Manzinovac. Villa Manzini passò, in seguito alla famiglia Tacco.

Zabavia.
È anche chiamato Sabavia e Xabavia nei vecchi libri. Nel 1528 fu feudo della famiglia Facina, successivamente fu proprietà della ricca famiglia Gavardo, e nel 1534 fu anche in parte proprietà dei conti Verzi.

Costabona.
Il toponimo Castrum Bonae testimonia la romanità del sito, probabilmente una fortificazione romana in cui, secondo un'antica tradizione, era eretto un tempio della dea della salute, la Dea Bona, dal quale si estese il nome al paese; anche dopo l'avvento del Cristianesimo, nei primi secoli d.C. vi giungevano pellegrini in cerca di guarigione.

Covedo.
Già abitata da popolazione celtiche col nome di Hubed, la zona fu nota in epoca romana come Castrum Cubitum.

Bertocchi.
Il paese prende il nome dai Bertòch, una numerosa famiglia locale.

Apriano,
detta anche Vapriano, è una frazione della città di Abbazia, nella regione litoraneo-montana, ma fortemente legato geograficamente e storicamente all'Istria. Il nome latino è Veprinacium (in croato Veprinac).

Gason.
Gasòn è voce veneta derivante da Casone.
Questo sito fu abitato fin dai tempi dei Romani; qui infatti si ritrovarono molti cocci ed una tegola con il bollo "P.Itur Sab(ini)" conservata nel municipio di Monte di Capodistria; fu trovato anche un peso romano di calcare a forma di sfera che serba ancora tracce del manico di ferro di cui era munito.

Prelocca o Pieve di Lonche.
L'abitato è un importante luogo di scoperta archeologica ricco di reperti del periodo romanico, ma soprattutto di reperti risalenti agli inizi del medioevo.



Valleggia
con Isola d'Istria sullo sfondo.
Il nome sloveno Jagodje è stato inventato nel 1959 nel secondo periodo di slavizzazione intensiva dell'Istria.

Villanova.
Fu popolata fin dai tempi dell'antica Roma. Nel 1358 entrò a far parte della Repubblica di Venezia sotto la quale rimase per cinque secoli.
Durante il ventennio fascista, ebbe luogo la bonifica della Valle del Quieto e fu costruita la prima fontana.

Erpelle-Cosina.
Il comune fu istituito nel 1923, nel periodo di appartenenza al Regno d'Italia.
Il comune era inquadrato nel mandamento di Capodistria.

San Pietro dell'Amata (o della Matta).
Fu luogo abitato in epoca romana, fatto testimoniato dal ritrovamento di ceramiche di tale epoca sui colli Sella e S. Spirito.
Nel medioevo S. Pietro dell'Amata (S. Petri de la Macta) era chiamato Villa S. Pietro (Vicus S. Petri) e faceva parte del distretto di Pirano ed era associato in unità civile ed ecclesiastica con Castel S. Pietro, l'attuale Carcàse.
Mata o Matta è il nome arcaico attribuito in questa zona dell'Istria alla fattoria.

Villa Decani.
È di origine più recente: sorse soltanto nel 1480, quando il Senato veneziano decretò il diritto a stabilirvisi a Giovanni Ducaino, uno dei signori di San Servolo, proveniente da Scutari, nell'attuale Albania.
Nel 1279 il territorio di Villa Decani, insieme a quello della vicina Capodistria, venne annesso alla Repubblica di Venezia (tale situazione venne poi confermata dal Trattato di Treviso del 1291) e divenne di proprietà della famiglia De Cano, alla quale appartenne fino alla fine del Quattrocento.
In seguito alle pestilenze del 1348 e del 1361, nella bassa valle del Risano, si insediarono le prime comunità slave.
Col Trattato di Schönbrunn del 1809 entrò a far parte delle Province Illiriche per entrare poi per la prima volta in mano austriaca col Congresso di Vienna nel 1815 nel Regno d'Illiria come Villa Decani; passò in seguito sotto il profilo amministrativo al Litorale austriaco nel 1849 come comune autonomo con la denominazione di Decani.

Crevatini.
Il toponimo deriva dal cognome di una famiglia ivi numerosa Crevatini, appunto.
La pietra delle cave locali venne usata per la costruzione del porto di Trieste.

Ospo.
La strada che attraversa la valle dell'Ospo e che conduce a Lonche fu costruita dai Romani.
Ospo rimase sempre in mano ai veneti al confine con San Servolo in mano asburgica.
Passò in seguito sotto il profilo amministrativo al Litorale austriaco nel 1849 come frazione del comune di S. Dorligo della Valle.

Albaro Vescovà.
Il toponimo sloveno Škofije è la forma slavizzata (dallo sloveno Škof, vescovo) di toponimi d'origine medievale quali Mondelvèscu (monte del vescovo) e Vescovà (vescovato).


Cristoglie.
La località fu donata dall'imperatore Corrado II al patriarca di Aquileia. Nel XII secolo Cristoglie passò alla famiglia tedesca dei Neuhaus che lo mantenne sino al 1535, anno in cui il villaggio entrò a far parte dei domini della Repubblica di Venezia.

Corte d'Isola.
Il nome dell'insediamento fu cambiato da Korte a Dvori nad Izolo nel 1957. Il nome fu cambiato sulla base della legge del 1948 sui nomi degli insediamenti e sulle designazioni delle piazze, delle strade e degli edifici come parte degli sforzi del governo comunista del dopoguerra per rimuovere gli elementi italiani dai toponimi. Il nome Korte fu ripristinato nel 1988.

Carcase.
Già abitata in periodo preistorico (è stato rinvenuto sopra Carcàse la sede di un castelliere), fu poi luogo abitato in epoca romana, fatto testimoniato dal ritrovamento di una tegola d'epoca romana col bollo P.Ituri Sab(ini) nel 1876.
Dal medioevo la località fu conosciuta come Castel S. Pietro, Visinà o Vicino San Pietro, derivante da Vicinatus, e S. Pietro Vical (quest'ultimo fino al XIX secolo); Il nome Vicino o Visinà, come fu poi chiamato nel XV secolo, le derivò dalla sua vicinanza a San Pietro dell'Amata, con il quale formò un'unica entità feudale (sia civile, sia ecclesiastica).

Figarola.
Il suo nome deriva molto probabilmente dalla pianta del Fico (in istro-veneto figo). Il nome Figarola è già ritrovabile in carte veneziane del 1784.
La località fu possedimento della famiglia Reifemberg, vassalli dei Patriarchi d’Aquileia, ai quali il feudo fu donato nel 1028 dall'imperatore Corrado II il Salico.
Nel 1420 divenne possedimento veneziano.
In un documento del 1488 risulta iscritto come Figaruola e posseduto da un capodistriano di nome Francesco de Vida, la di cui famiglia ne restò in possesso fino al XVII secolo.

Villa Treviso.
Viene menzionato per la prima volta nel 1177 quando il papa Alessandro III confermò ai vescovi di Parenzo la proprietà del feudo. È probabile che i Vescovi di Parenzo abbiano ottenuto il feudo dai Patriarchi di Aquileia.
Fino al 1248 era sotto la giurisdizione di Montona e a quel tempo era ancora di proprietà dei Patriarchi di Aquileia. Nel 1248 il feudo passò a Casterga.
In un documento del 1499 l'abitato era chiamato Tervis.

Mario Visintini, l'eroe di Parenzo

Così scriveva il Corriere della Sera il 22 febbraio 1941, dopo aver appreso della morte, nei pressi del villaggio di Nefasit, in Eritrea, di Mario Visintini (Parenzo, 26 aprile 1913), Capitano Pilota della Regia Aeronautica, Asso dell’Arma Azzurra con all’attivo sedici abbattimenti nel corso del secondo conflitto mondiale più uno durante la Guerra di Spagna:

Nessuno può dire precisamente quello che avvenne. Fu probabilmente all’improvviso che la dura, angolosa, imperturbabile montagna si parò dinanzi all’Eroe. La sua purissima anima generosa volò in quel cielo che egli aveva infinite volte solcato in otto mesi di guerra”.

Decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare, cui se ne aggiunsero anche una d’Argento ed una di Bronzo, era fratello di Licio Visintini, Tenente di Vascello della Regia Marina, operatore della Decima Flottiglia MAS caduto nelle acque di Gibilterra l’8 dicembre 1942 durante il tentativo, poi rivelatosi mortale, di attaccare con due Siluri a Lenta Corsa, i celebri “maiali”, in coppia con il Sottocapo Palombaro Giovanni Magro, la Nave da Battaglia HMS Nelson.

L’11 febbraio 1941, il Capitano Visintini decollava per la sua ultima missione: non una missione di guerra, non l’ennesimo combattimento aereo contro la caccia britannica che quotidianamente metteva a dura prova le forze italiane stanziate in Africa Orientale. Ma per una missione di ricerca e soccorso, dopo che due suoi gregari erano stati costretti ad atterrare in pieno deserto, fuori dalle piste e dalle rotabili normalmente percorse a causa del cattivo tempo.

Il suo valore, Mario Visintini lo dimostrò fin dai primi mesi del conflitto. Con il grado di Tenente, nell’ottobre 1940 veniva decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare: 

Abile ed audace pilota, già ripetutamente distintosi, dava nuove prove del suo ardimento ed ammirevole aggressività nell’attacco a volo radente di un munito aeroporto nemico causando la distruzione di undici apparecchi nemici, depositi di carburante, munizioni ed automezzi. Cielo di Ghedaref, Sudan Anglo-Egiziano, 16 ottobre 1940”.

Questa, era stata preceduta da una Medaglia d’Argento conferita “sul campo”, per i combattimenti sostenuti il primo mese di guerra, nei cieli di Massaua tra il 12 giugno e il 4 luglio, e per gli abbattimenti che ne facevano un Asso dell’Aeronautica: 

Abilissimo pilota da caccia dimostrava, in molti combattimenti aerei, grande calma, indomito valore e sprezzo del pericolo, attaccando più volte da solo formazioni nemiche superiori per numero e per mezzi, impedendo loro di arrecare danni alle nostre basi. In occasione di due incursioni contro i nostri impianti, abbatteva due apparecchi da bombardamento nemici. Cielo di Gura e di Massaua, 12 giugno-4 luglio 1940”.

Lo stesso 11 febbraio 1941, tornando dall’ennesima missione di guerra (durante la permanenza in Africa Orientale prese parte a più di cinquanta combattimenti aerei), rivendicò l’abbattimento di un Caccia Hawker Hurricane sopra Cheren. L’ultimo.

E pensare che due giorni prima, il 9 febbraio, Mario Visintini, che prestava servizio presso la 412a Squadriglia Autonoma, aveva condotto un’ardita incursione contro una base delle forze del Commonwealth nell’Agordat, incendiando e mettendo fuori uso numerosi velivoli nemici.

Azione condotta mirabilmente, che venne narrata sempre dal Corriere della Sera, il 15 febbraio 1941: 

“I cinque Falchi picchiano e a pochi metri dal suolo aprono un fuoco micidiale. Gli apparecchi nemici per quanto occultati, sono stanati, mitragliati. I cinque caccia si sono divisi il compito e le zone di distruzione: sono impennare, cabrate, virate, rovesciate senza un attimo di sosta; sono esercitazioni acrobatiche sopra un vulcano in piena eruzione. Di li a poco la reazione antiaerea nemica è in pieno sviluppo. Gli Inglesi sanno che quella micidiale valanga deve essere arrestata altrimenti i danni diverrebbero incalcolabili. Ci sono nel campo apparecchi appena giunti: Hurricane, che sotto la grandine dei colpi si abbattono al suolo come cani colpiti a morte. I cinque caccia si lanciano tra le raffiche nemiche ed escono illesi: il loro stesso slancio li protegge. E seguitano a sparare, moltiplicando i prodigi acrobatici. Le prime vampe si levano dal suolo: gli apparecchi inglesi bruciano. Sono quindici i roghi. Non uno degli apparecchi inglesi si è salvato dal ciclone distruttore. I Falchi ritornano a librarsi in aria, si tuffano nel cielo ormai chiaro, ripassano sopra i campi a contare gli apparecchi distrutti. Ora la reazione contraerea si fa violenta, l’impotenza rende maggiormente rabbioso il nemico che non dispone al momento neppure di un apparecchio da lanciare contro i veltri italiani”.

Per la missione condotta sull’Agordat, il Sergente Maggiore Pilota Aroldo Soffritti, gregario del Capitano Visintini, riceveva la Medaglia d’Argento al Valor Militare: 

Dopo ventidue giorni di ininterrotti asprissimi combattimenti aerei, esausto ma non domato nelle sue energie fisiche e fede incrollabile nella vittoria, si offriva volontario per affrontare forze nemiche rilevanti dislocate in basi potentemente difese. Con commovente indomito eroismo, attaccava l’avversario distruggendo undici apparecchi nemici, superando la violenta e disperata difesa contraerea, e l’attacco della caccia. Superba espressione di eroismo italico. Cielo di Agordat, 9 febbraio 1941”.

Due giorni, l’Asso Mario Visintini, Capitano Pilota della Regia Aeronautica, per il cattivo tempo e la scarsa visibilità, si schiantava con il suo Caccia Fiat CR42 Falco sulle pendici del Monte Bizen.

La massima onorificenza al Valor Militare chiudeva così, troppo presto, l’epopea di questo straordinario pilota in terra africana: 

Superbo figlio d’Italia, eroico, instancabile, indomito, su tutti i cieli dell’impero stroncava la tracotanza dell’azione aerea nemica in cinquanta combattimenti vittoriosi durante i quali abbatteva sedici avversari e partecipava alla distruzione di trentadue aerei, nell’attacco contro munitissime basi nemiche. In cielo ed in terra era lo sgomento dell’avversario, il simbolo della vittoria dell’Italia eroica protesa alla conquista del suo posto nel mondo. Cielo dell’Eritrea e dell’Amara. Cielo del Sudan anglo-egiziano, 11 giugno 1940-11 febbraio 1941”.

Il linciaggio di Maresego e la falsificazione storica a posteriori

Capodistria è una città storicamente italianissima, in cui sino alla seconda guerra mondiale gli slavi furono quasi totalmente assenti nel centro urbano e presenti soltanto come esigua minoranza nel contado. Le orde dei partigiani di Josip Broz procedettero però alla fine del conflitto mondiale e negli anni successivi ad una violenta e sanguinaria pulizia etnica contro gli italiani, riducendo la comunità ad un gruppo sparuto e spaurito di superstiti discriminati ed osteggiati.

Fra pochi giorni in questa città, in stato di occupazione da parte di stranieri da oltre 70 anni, si festeggerà pubblicamente il brutale assassinio di tre ragazzi. Il loro linciaggio avvenuto il 15 maggio 1921 con botte, sassi, bastonate, colpi di falce e pistolettate viene spacciato dalla vulgata politica locale come una “rivolta antifascista”, la cosiddetta “rivolta di Maresego”.

L’episodio è un esempio da manuale di come una vicenda storica conosciuta e ricostruibile con esattezza in tutte le sue dinamiche fondamentali viene alterata e capovolta da una propaganda ideologica.

Dovevano svolgersi nel 1921 elezioni nazionali in Italia e fra i vari raggruppamenti si era formata la coalizione detta del Blocco Nazionale, a cui partecipavano il Partito Popolare Italiano, il Partito di Ricostruzione Nazionale, l’Associazione Nazionalista Italiana, il Partito Nazionale Riformatore, i Fasci di Combattimento. Non si trattava quindi di una coalizione “fascista” in senso proprio, perché il partito fascista seppure presente era soltanto uno fra i molti.

Le elezioni in Venezia Giulia si tennero in un contesto di violenza politica, nel quale si distinguevano i nazionalisti slavi ed i comunisti, due categorie che in quella regione spesso coincidevano. Ambedue si resero responsabili ripetutamente di aggressioni ai danni dei loro avversari politici, servendosi in questo di gruppi paramilitari organizzati ed armati, avendo a disposizione ingenti arsenali con fucili, pistole, bombe a mano. Il terrorismo slavo, che insanguinò con omicidi ed attentati la Venezia Giulia per molti anni, si era già rivelato negli incidenti del 13 luglio 1920 a Trieste. Ad un comizio organizzato per protestare contro l’assassinio di marinai italiani a Spalato, dove svolgevano un’operazione di assistenza umanitaria alla popolazione, un estremista slavo pugnalò a morte un italiano di soli 19 anni, il cuoco Giovanni Ninì. Una folla furente cercò allora di assaltare il Narodni Dom, la cosiddetta casa della cultura dei nazionalisti slavi che già sotto il dominio asburgico si era rivelata un covo di estremisti violenti. Dalle finestre dell’edificio furono lanciate bombe a mano ed esplosi colpi di pistola, cosicché l’ufficiale italiano che comandava il reparto incaricato di proteggere il Narodni Dom dalla popolazione indignata cadde mortalmente ucciso. Seguì quindi una sparatoria contro il nido dei terroristi, che provocò un incendio alla sedicente “Casa della cultura”. Ma questo fu soltanto il più noto degli eventi di sangue provocati da facinorosi appoggiati dalla vicina Jugoslavia, che nutriva ambizioni imperialistiche verso la Venezia Giulia e persino il Friuli.

A Maresego il 15 maggio del 1921 un gruppetto di 11 giovanissimi del Blocco nazionale, ivi recatosi senza alcun intento di fare del male ma soltanto per affiggere manifesti elettorali, fu assalito da una massa di violenti d’estrema sinistra, che gli spararono addosso fucilate e gli scagliarono contro una fitta sassaiola. Vistosi attorniati da un’orda di malintenzionati che cercavano di ucciderli, i giovani gettarono un petardo su di un cespuglio ed esplosero alcuni colpi di pistola in aria per cercare di spaventare la folla, poi si diedero alla fuga inseguiti. Tre di loro, Giuseppe Basadonna, Giuliano Rizzatto, Francesco Giachin, furono raggiunti e brutalmente ammazzati: Basadonna, un sedicenne si era nascosto, ma fu scovato, trascinato all’aperto ed ucciso; Giacchin fu trucidato a sassate; Rizzato, già rimasto ferito alla testa, fu braccato per centinaia di metri mentre tentava di scappare ed ammazzato con alcuni colpi di fucile sparati a bruciapelo. Tassini, che era già rimasto ferito al capo, al collo ed al petto da una scarica di pallini, ricevette nella fuga un colpo di pistola, poi una pesante sassata che lo fece crollare a terra. Gli assalitori lo calpestarono, rompendogli costole, lo lapidarono, infine se ne andarono credendolo morte. Tassini invece sopravvisse e fu il principale testimone d’accusa al processo, anche se rimase invalido per tutta la vita. Contro gli assassini, che erano sia italiani, sia slavi, si tenne successivamente un regolare processo.

Questi, in estrema sintesi, i fatti di Maresego. Come si vede, non si trattò di una “rivolta antifascista” ovvero di una risposta difensiva ad immaginarie “violenze fasciste”. Un minuscolo gruppetto di attivisti del Blocco nazionale, composto da vari partiti, fu assalito e non assalitore, aggredito unicamente perché si era recato in un sobborgo abitato per lo più da estremisti di sinistra e per affiggere manifesti. I giovanissimi militanti erano armati, precauzione consueta nel clima bollente della campagna elettorale del 1921, ma evitarono intenzionalmente di servirsi delle armi per ferire i loro aggressori e cercarono solo di spaventarli. Al contrario, costoro agirono per uccidere ed ammazzarono senza alcuna esigenza tre ragazzi e storpiarono a vita un quarto, lasciandolo vivo solo perché sembrava ormai deceduto.

A posteriori, nel secondo dopoguerra, i nazionalisti slavi e comunisti assieme cercarono di giustificare il sanguinoso linciaggio di Maresego imbastendo su di esso una retorica mistificatoria e stravolgendo completamente gli eventi. Fu uno dei modi con cui furono creati dei “miti fondativi” al fine specifico di legittimare la conquista, la pulizia etnica e l’annessione di Capodistria alla Jugoslavia ed il suo successivo passaggio alla neonata Slovenia.


Sui fatti di Maresego esiste l'ottima analisi di Valentina Petaros nel suo saggio "1918-1921. Fuoco sotto le elezioni".





Il fatale colpo di Stato in Jugoslavia il 27 marzo 1941 (Unione degli Istriani)

Intanto iniziamo col ricordare che il Regno di Jugoslavia, costituitosi alla fine del 1918 con il nome di Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, dal 1929 si reggeva su una dittatura del re Alessandro il quale, pensando di poter diminuire gli insanabili contrasti etnici e religiosi del paese, aveva abolito la costituzione ed accentrato ogni potere su di sè, creando una nuova e fantasiosa divisione amministrativa del territorio - basata sui nomi dei fiumi e non più sulle regioni storiche - che aveva esasperato ulteriormente il clima di conflittualità tra Croati e Serbi in particolare, i due gruppi più numerosi e importanti del Paese.

Dal 1933 il malcontento nelle regioni dalla Croazia si era trasformato in quotidiani disordini civili che il regime contrastò con una serie di omicidi, tentati omicidi e arresti di figure chiave dell'opposizione croata, incluso il leader del Partito contadino croato (Hrvatska seljačka stranka, HSS), Vladko Maček. 

Quando Alessandro venne assassinato a Marsiglia nel 1934 da un bulgaro affiliato al movimento croato ustascia, a governare il Paese allo sbando venne suo cugino, il principe Paolo, il quale si pose a capo di una Reggenza triumvirata i cui membri erano il senatore Radenko Stanković e il governatore della Sava Banovina, Ivo Perović. La Reggenza costituita da un Consiglio di oltre venti membri, governava per conto del figlio undicenne di Alessandro, il principe Pietro, ma il membro importante era il principe Paolo, il quale mantenne la dittatura, anche se cambiarono sensibilmente i rapporti con gli Stati vicini, la maggior parte dei quali aveva disegni irredentisti e di espansione revanscista sul suo fragile territorio. 

Per garantire quella difficile armonia con i Paesi contermini, la Jugoslavia aveva sottoscritto, sin dall’inizio, diversi accordi, spesso contraddittori tra loro: dal 1921, Belgrado aveva negoziato la Piccola Intesa con Romania e Cecoslovacchia di fronte agli appetiti ungheresi sul suo territorio e, dopo un decennio di trattati bilaterali, aveva formalizzato gli accordi soltanto nel 1933. Nel 1934 fu sottoscritta con Romania, Grecia e Turchia l’Intesa Balcanica, volta a contrastare le aspirazioni bulgare.

La nomina del serbo Milan Stojadinović a Capo di Gabinetto della Reggenza aveva ad un certo punto consentito di migliorare i rapporti indispensabili, anche dal punto di vista economico e commerciale, con la Germania e con l’Italia (accordi che prevedevano, nelle intese segrete siglate con Galeazzo Ciano, l’invasione congiunta dell’Albania, altra questione illuminante che gli storici non precisano mai!), la tensione etnico-religiosa tra Serbi da una parte e Croati e Sloveni dall’altra trovò una sorta di equilibrio. 

Quando questi venne rimosso, arrestato e consegnato ad una legazione britannica in Grecia per essere detenuto alle Isole Mauritius fino al termine del conflitto mondiale, al suo posto venne nominato, nel febbraio 1939, Dragiša Cvetković, nel successivo mese di agosto, le diatribe serbo-croate si attenuarono ulteriormente attraverso un nuovo anche se difficile progetto di federalizzazione della Jugoslavia, che aveva portato alla creazione della Banovina della Croazia, grazie ad un accordo raggiunto con il leader del partito dei contadini croati (che nel 1938 aveva raggiunto il 44% dei consensi) Vladko Maček.

Cvetković, così come il suo predecessore Stojadinović, aveva ben compreso come la Jugoslavia, in particolare dopo l’Anschluss che aveva portato la Germania nazista al confine settentrionale delle Caravanche e dopo l’invasione dell’Albania e della Grecia, e soprattutto con lo scoppio della guerra nel settembre 1939, non poteva evitare, in nessun modo, di instaurare una alleanza con Hitler. 

Dopo l’ingresso nell’Asse di Ungheria e Romania (1940), e con le pressioni della Germania affinché anche la Jugoslavia vi aderisse, con clausole del tutto particolari e privilegiate (faceva comodo a tutti una Jugoslavia neutrale nello scacchiere balcanico), toccò al principe Paolo che aveva incontrato Hitler a Berchtesgaden, in Baviera, due volte in poche settimane il 4 ed il 17 marzo, convocare il il 19 marzo il Consiglio della Corona per discutere i termini del Patto e in che modo si dovesse firmarlo. 

I membri del Consiglio erano in grande maggioranza disposti ad accettarlo, il Patto, ma solo a condizione (accolta dal Führer) che la Germania permettesse che le sue concessioni fossero rese pubbliche: 
- il riconoscimento del rispetto della sovranità jugoslava e dell'integrità territoriale;
- la garanzia che Berlino non avrebbe fatto alcuna richiesta a Belgrado di passaggio o trasferimento di truppe durante durante la guerra. 

Tra le clausole segrete concordate, era previsto anche un compenso territoriale a seguito della prevista vittoria sulla Grecia, con l’espansione a sud, verso la Macedonia ellenica, fino alla città di Salonicco.

Senza tralasciare il fatto che tutti i membri della Reggenza, già dopo il primo incontro del 4 marzo con Hitler, avevano all’unanimità autorizzato il Principe Paolo a proseguire le trattative, nella riunione decisiva il Consiglio della Corona, composto, lo vogliamo ricordare agli “smemorati”, da ministri Serbi, Croati e Sloveni, deliberò con 15 voti a favore e 3 voti contrari, la sera del 19 marzo, che la Jugoslavia diventasse uno stato membro dell’Asse.

Fu così, come abbiamo visto nei giorni scorsi, che Dragiša Cvetković si recò a Vienna e firmò il 25 marzo l’alleanza con la Germania.

Naturalmente i servizi segreti britannici erano ben al corrente di tutto ciò che accadeva in Jugoslavia ed avevano già collaborato alla preparazione di un colpo di stato, che venne messo a punto molto prima della firma del Patto Tripartito. 

La notizia della firma a Vienna dell’alleanza mise subito in moto le reazioni a catena programmate, con la sobillazione dei primi manifestanti che si radunarono per le strade di Belgrado gridando "meglio la tomba che schiavo, meglio la guerra del patto" (bolje grob nego rob, bolje rat nego pakt).

Il colpo di stato, pianificato nei dettagli dal generale Dušan Simović venne lanciato alle ore 2:15 del 27 marzo e coinvolse, per ragioni di sicurezza (legati ai dissapori etnici tra gli ufficiali dello Stato maggiore), esclusivamente ufficiali fidati della aviazione. 

Sotto la supervisione di Borivoje Mirković, con sede presso la base di Zemun, gli ufficiali assunsero il controllo degli edifici e dei luoghi sensibili della capitale Belgrado in poche ore, provvedendo all’occupazione dei ponti sulla Sava tra Zemun e Belgrado (attuata dal colonnello Dragutin Dimić), dell'amministrazione comunale, della direzione della polizia e della stazione radio di Belgrado (sotto il comando del colonnello Stjepan Burazović), dei ministeri e della sede dello Stato maggiore (compiuta dal maggior Živan Knežević), della residenza reale (a cura del colonnello Stojan Zdravković), dell'ufficio postale principale di Belgrado (svolta dal tenente colonnello Miodrag Lozić), e delle caserme.

Vennero interrotte alle ore 3.18 tutte le comunicazioni tra Belgrado e il resto del paese, carri armati e artiglieria furono schierati su tutte le strade principali di Belgrado.

Alle ore 14.00 tutti i luoghi strategici del Regno erano già nelle mani delle truppe fedeli ai leader del golpe.

Al momento del putsch, il principe Paolo era a Zagabria in viaggio per una vacanza programmata a Brdo, nella attuale Slovenia. Il vice primo ministro e leader croato Maček, informato di ciò che accadeva a Belgrado, incontrò il principe Paolo alla stazione ferroviaria della capitale croata per discutere la situazione. Si è quindi tenuto un incontro presso la residenza di Ivan Šubašić, Governatore del Banato della Croazia, cui prese parte anche il comandante dell'esercito a Zagabria, August Marić. 

Maček, durante la concitata riunione, esortò il principe Paolo a opporsi al golpe, mentre Marić promise il sostegno delle unità dell'esercito suggerendo che il principe Paolo rimanesse a Zagabria, con la possibilità di mobilitare unità dell'esercito nella Banovina a suo sostegno. Il principe Paolo però rifiutò, temendo per la sorte della consorte, la principessa Olga e quella dei figli, che erano rimasti a Belgrado. 

Accompagnato da Šubašić, raggiunse quindi la capitale in treno la stessa sera e fu ricevuto da Simović, che lo condusse al ministero della guerra dove Paolo cedette il potere, abolendo immediatamente la Reggenza. 

Avendo preso accordi con il console britannico a Zagabria, il principe e la sua famiglia partirono quella sera stessa per la Grecia, dopodiché si recarono prima in Kenya e successivamente in esilio in Sudafrica.

Il palazzo reale, circondato dai manifestanti, venne occupato dal generale Simović e dagli altri leader del golpe, i quali diffusero un fasullo messaggio radio che impersonava la voce del Principe Pietro, definito "proclama al popolo", invitando la popolazione a “sostenere il re”. 

Peccato che il re fosse ancora minorenne e quindi non in grado di avere legittimamente la corona. Alla soluzione di questo problema i golpisti erano in realtà già pronti, cambiando la data di nascita e facendolo diventare maggiorenne.

Come dirà lo stesso Pietro successivamente, egli apprese soltanto dalla radio di essere “diventato” maggiorenne e di essere il nuovo re di Jugoslavia!

L’incoronazione, avvenuta il 28 marzo in presenza del Patriarca ortodosso Gavrilo II, segnava in realtà “l’inizio della fine della monarchia”, un “errore madornale” come lo stesso Pietro successivamente riconoscerà.

Così come farà lo stesso Simović, che giudicherà molti anni dopo come “imbroglio” il colpo di stato, di cui fu “uno dei padri e vittima allo stesso tempo”, e che criticherà come “atto miope”.

Dopo 10 giorni, infatti, la Jugoslavia - che si era messa apertamente dalla parte dei nemici del patto dell’asse, tradito soltanto due giorni dopo averlo firmato, ed il cui nuovo governo non era stato riconosciuto dalla maggior parte degli Stati belligeranti - venne attaccata e smembrata, senza dichiarazione di guerra (e non poteva essere che così, secondo le convenzioni internazionali in vigore, poiché una dichiarazione di guerra non poteva essere redatta e consegnata a dei rivoltosi che avevano rovesciato l’unico Governo finora legalmente riconosciuto).

Foto: Belgrado, 27 marzo 1941. Manifestazioni di piazza a seguito del colpo di stato.



8 Novembre 1918: Pisino è Italia ("Pisino - una città un millennio (983-1983)", di Nerina Feresini)

La Resistenza del Piave fece rifiorire le speranze. Si arrivò alla fine dell'ottobre 1918 quando il potente esercito imperiale era ormai in sfacelo. Il 29 ottobre giunse la notizia della disfatta austriaca a Vittorio Veneto. Cominciarono a ritornare i soldati senza mostrine e con le divise in disordine. Nelle case di Pisino c'era un gran fermento. Nelle scuole le lezioni avvenivano in modo molto irregolare.

C'era comunque in tutti una preoccupazione, bisognava non perdere tempo, era necessario far sentire le proprie legittime aspirazioni per evitare che i croati astutamente giocassero le carte che possedevano. Si stava osservando quello che succedeva a Trieste e si attendevano notizie, perchè si comprendeva che le sorti dell'Istria avrebbero seguito quelle del capoluogo giuliano. Si pensò subito a preparare bandiere tricolori. La prima che apparve fu quella esposta il 29 ottobre per due ore da Andrea Pellaschiar su una finestra della casa Sandri. Il podestà slavo Kurelic vigilava.

I croati ritenevano fondate le loro proteste perchè l'ammiraglio Horty aveva consegnato a Pola tutta la flotta in mano a un loro comitato costituito quando era giunta la notizia della sconfitta dell'Austria. Le autorità austriache si sentivano ormai esautorate e quindi si era ingaggiata una gara tra la popolazione italiana e gli elementi croati, che aspiravano ad impossessarsi dell'Istria.

I cittadini si mobilitarono spontaneamente spinti dalla necessità di mostrare chiaramente la propria italianità. Bisognava coprire le case di tricolori. Mancava la tela adatta, ma si riuscì ugualmente nell'intento: il gabinetto di chimica del Ginnasio fornì il colore rosso e quello verde, e le lenzuola offerte spontaneamente dalla popolazione furono immerse nella tintura bollente in grandi caldaie collocate nel cortile del teatro. La sede del circolo "Democratica" dove erano state trasportate una decina di macchine da cucire, fu allora trasformata in una fabbrica di bandiere. Signore e signorine univano le strisce di tela e ne uscivano coccarde, nastri e tricolori di tutte le misure. Gli uomini preparavano le aste ricavandole da rami e fusti d’albero.

I gendarmi ormai non avevano più il coraggio d'intervenire. Il professor Valeriano Monti incaricò la signora Ivancovich di preparare una grande bandiera con lo stemma sabaudo dandole come modello una piccola bandiera scolorita, conservata con cura per tanti anni e sottratta alle perquisizioni dei gendarmi. Di sera si organizzavano cori e la banda preparava il suo programma di inni patriottici. Sotto la guida del maestro Niederkorn, giovani e anziani con una bandiera in mano marciavano in fila cantando attorno alla sala del Circolo per essere pronti ad andare incontro ai soldati italiani. All'uscita si incontravano con gli slavi nella casa del popolo posta di fronte; erano pure essi occupati in preparativi. Si scambiavano frasi di scherno: "Con le vostre bandiere puliremo i vetri della casa del popolo" gridavano i croati. Gli Italiani rispondevano: "E con le vostre lucideremo le scarpe dei bersaglieri". L'atmosfera si faceva sempre più tesa e per le strade avvenivano degli scontri. I Pisinoti gridavano: "Andè a casa vostra, tornè a Lubiana!".

Il 1 Novembre ci fu una gara a chi arrivava per primo ad issare sul campanile la bandiera italiana o quella croata. Doveva simboleggiare il possesso della città, ma il podestà Kurelic mal sopportò di vedere il tricolore alto nel cielo e dopo due ore diede l'ordine di farlo ritirare.

L'Austria era ormai crollata e i suoi simboli non avevano nessuna ragione di esistere. Il 2 novembre vennero raccolte le insegne con le aquile bicipiti e i ritratti dell'Imperatore dagli uffici e dagli appalti di tabacco. Quelle di legno furono bruciate in piazza, quelle di ferro furono fatte accatastare nella barella dei morti e una gran folla plaudente le accompagnò fino alla Foiba per scaraventarle nell'abisso. I gendarmi avevano perduto ogni autorità e per mantenere l'ordine pubblico, nello stesso giorno, si costituì la Guardia Nazionale con elementi italiani e croati, che si distinguevano dai colori della coccarda che portavano all'occhiello.

Il 2 novembre i Pisinoti presero l'iniziativa di formare anche un Comitato presieduto dall'avvocato Costantini e costituito dai cittadini più in vista. Infieriva purtroppo la spagnola, che portò molti lutti, ma neanche questo malanno non rallentò né smorzò l’entusiasmo.

Il 3 novembre giunse la notizia dello sbarco dei bersaglieri a Trieste. Si temeva un colpo di mano dei croati e il giorno 4 si recò a Trieste una delegazione capeggiata dall’avvocato Costantini per parlare con il Generale Petitti di Roreto e sollecitare l’invio di truppo. La risposta arrivò per telefono: la sorte di Pisino era assicurata, sarebbero arrivati i bersaglieri.

I cittadini dovettero attendere quattro lunghissimi giorni. Finalmente giunse l’8 novembre. Il cielo era grigio e cadeva una fitta pioggia. Verso le 11 del mattino l’avvocato Costantini corse in Piazza della Legna gridando: “I vien, I vien!”. 

Dalle finestre del pianterreno del Circolo, per far più presto, saltarono in istrada, fra i primi, Giuseppe Coverlizza, Giuseppe Uicich, Ettore Almani e Ferruccio Camus; con un’enorme bandiera di 24 metri quadrati di superficie ed un’asta grossa come un palo del telegrafo si diressero verso il campanile. Servendosi di un paranco la sollevarono fino alla cella campanaria e lasciarono sventolare il tricolore, mentre Ferruccio Camus con 21 colpi di campana dava l’annuncio alla città che la Redenzione era imminente. Pisino allora si imbandierò tutta immediatamente. Anche sul Municipio dove risiedeva dal 1886 un podestà croato, fu issato il tricolore. L’arrivo dei Bersaglieri era stato comunicato per le 13.30 e due volte i Pisinoti accorsero inutilmente ad incontrarli.

Ma verso le 15 i cittadini tutti con coccarde, bandiere e fiori si avviarono con la banda in testa alla stazione ferroviaria. Quando arrivò il convoglio il sole apparve tra le nubi e l’unica campana suonava a festa. I Bersaglieri, che forse non si aspettavano tanto entusiasmo, furono letteralmente tirati giù dal treno dai cittadini, che sembravano impazziti dalla gioia. La compagnia comandata dal Capitano Cucco e da due altri ufficiali faticò a schierarsi sotto la pensilina.

L’avv. Costantini con un memorabile discorso porse il saluto a nome della cittadinanza e la signorina Maria Baccarcich offrì un mazzo di fiori al comandante. Il capitano annunciò di prendere possesso della città a nome del Re d’Italia. Usciti sul piazzale trovarono un plotone di 20 soldati bosniaci superstiti del presidio austriaco di stanza a Pisino che presentò le armi. L’ufficiale consegnò la sciabola al Capitano Cucco e ricevette l’ordine di ritirarsi in caserma in attesa di disposizioni. Si formò il corteo, preceduto da Giuseppe Coverlizzi, Ettore Almani fasciato di tricolore e Giuseppe Uicich con una grande bandiera. Seguiva la banda, poi il Capitano Cucco con la spada sguainata e dietro i Bersaglieri e i cittadini che cantavano, inneggiavano piangevano: un entusiasmo incontenibile.

Per la Lunga ed il Viale raggiunsero il centro, attraversarono il Corso, arrivarono sotto le mura del Castello, e ritornarono nella Piazza della Legna. 

Sulla casa di Ettore Uicich, l’eroe caduto sul Calvario, sventolava la bandiera scolorita che egli aveva nascosto prima di partire per il fronte. I Bersaglieri erano circondati dai Pisinoti che avevano strappato dai loro cappelli tutte le piume e si erano fatti regalare le stellette. Poi i soldati si sparpagliarono nelle case. Il maresciallo Carnevale accompagnato da Ettore Almani incollò sui muri delle case il manifesto che annunciava la presa di possesso di Pisino da parte dei soldati italiani.