domenica 31 dicembre 2023

Slovenia 1941-1948-1952. Anche noi siamo morti per la patria

Una prima edizione di questa poderosa ricerca storica, piena di testimonianze, lettere, fotografie, riproduzioni di documenti, dichiarazioni e articoli di giornale degli anni ‘90 è apparsa a Lubiana nel 1998, opera dei soli primi due autori. Perme, nato a Pecah nel 1926, è un imprenditore pensionato e Zitnik, nato a Grosuplje nel 1940, è stato un dipendente statale.

Dopo il 1998 gli autori hanno cominciato a ricevere scritti e documenti di altre persone coinvolte. Hanno raccolto le deliberazioni di vari consigli comunali sloveni sul tema della segnalazione dei luoghi dei massacri titini, assieme a missive ministeriali, dei tribunali sloveni o di archivi militari di Berlino. Sono arrivate lettere persino dall’Argentina, Australia, Canada da parte di esuli sloveni (p. 14). Un altro emigrato, tale Anton Pavlic, ha scritto dalla Nuova Zelanda riguardo al sepolcro di massa di Brezice, vicino a Dobovo, per oltre 10 mila persone, trasportati coi treni e denudati, tra i quali in maggioranza domobranci sloveni ed anche di belagardisti, eliminati nell’ottobre 1945 (pp. 712-716).
Franc Perme è fondatore, a Lubiana, sin dal 6 febbraio 1991, dell’Associazione per la Sistemazione dei Sepolcri Tenuti Nascosti. Sotto la sua direzione l’associazione ha fatto costruire tre cappelle, ha fatto collocare 18 insegne con croci, crocefissi e 58 insegne commemorative su lastra di marmo nelle parrocchie, sino al 2000. Molti di tali segni della memoria sono stati profanati, asportati o rovinati il giorno dopo dell’inaugurazione, perché c’è ancora tanto odio da parte dei discendenti dei miliziani di Tito, dato per scontato che i protagonisti della guerra partigiana sono ormai scomparsi, oppure sono molto anziani e malati. 
È tutto un piantare croci e posizionare lapidi, volendo ricordare “tutti i combattenti” (p. 19) e ritrovarsele profanate, rubate, asportate, imbrattate. Vedi la Cappella profanata a lanci di vernice di pag. 200 e, per le croci rubate, si vedano le pagine seguenti. Ritengo sia la Cappella di Stari Hrastnik, lungo la strada sul Kal; dietro alla Cappella vi è il cimitero dei domobranci sloveni.
Tra gli altri autori, Franc Nucic, nato a Podgorica nel 1929, è un giudice in pensione, invalido di guerra, autore di libri sugli eccidi comunisti. Janez Crnej, nato a Celje nel 1935, è un veterinario in pensione; nel 1990 è stato eletto alla Camera dei deputati della Repubblica Slovena. Zdenko Zavadlav, nato a Sotanje nel 1924, è pubblicista; da giovane fu capo dell’OZNA a Maribor, ma nel 1948 fu incriminato dalle autorità jugoslave come agente informatore e incarcerato fino al 1954, poi lavorò per l’Agenzia turistica alberghiera fino al 1976, anno della quiescenza. Croci, cappelle e lapidi servono a ricordare l’uccisione perpetrata da parte dei partigiani contro i domobranci sloveni e croati (esercito regolare, alleato dei nazisti) dal 1941 fino agli anni del dopo guerra. Alcune migliaia di domobranci, al termine del conflitto, secondo gli accordi, furono disarmati dagli inglesi e consegnati ai partigiani di Tito, che li passarono per le armi. Gli autori del volume scrivono di 12 mila domobranci sloveni, 18 mila croati, oltre a seimila civili eliminati nelle foibe o in fosse comuni dalla fine di maggio 1945 in poi (p. 159).
Va accennato inoltre che nell’elenco ufficiale delle foibe della Repubblica di Slovenia, consultabile in Internet, si nota, al n. 401, la Foiba di Golobivnica (Grobišče jama Golobivnica), con la puntuale indicazione della nazionalità delle vittime precipitate: slovena ed italiana.
Ci sono molte mappe dei sepolcri (ad esempio a p. 611).
Nel libro ci sono poi numerosi articoli dai giornali sloveni, come ad esempio «Delo» (p. 726), «L’Eco di Grosuplje» (p. 724), «Slovenec» (p. 734). C’è pure la stampa internazionale, come il tedesco «Frankfurter Allgemeine Zeitung», di Francoforte (p. 11-14 e p. 676). In conclusione quanti domobranci ed altri anticomunisti croati, suore e bambini incusi, sono stati uccisi dai titini in Slovenia? La cifra pubblicata nel volume è impressionante. Assomma ad un totale di 222.500 persone. Si pensi che le perdite totali dal punto di vista demografico e di guerra in Jugoslavia sono pari a 2 milioni e 22 mila individui (come si evince dalla tabella 6 di pagina 456). Certo, in questo totale ci sono anche le persone emigrate (o scappate), pari a 625 mila, nel periodo che va dal 1939 al 1948, dei quali 44 mila sono rimasti all’estero. I dati si riferiscono alle province jugoslave, senza i territori annessi.
Qualcuno si chiederà come mai 222,5 mila soldati anticomunisti croati, i loro religiosi e i loro congiunti siano finiti uccisi tutti in Slovenia nelle foibe, nelle cave di sabbia, o nei trinceroni anticarro (costruiti dalla Organizzazione TODT, per frenare l’avanzata dilagante del nemico). Il fatto è che la ritirata dei nazisti e dei loro alleati, come erano appunto i domobranci, comportava anche la risalita verso nord e verso il confine austriaco, che era Terzo Reich.
Alla fine della guerra si ritrovarono tutti imbottigliati nel piccolo territorio della Slovenia. Tito e l’OZNA volevano fare presto ad eliminare tutti gli oppositori e i loro familiari. Non ci sarebbe stato posto per dei campi di concentramento e non sarebbero stati tutti nelle prigioni. Dunque parliamo di vittime, di morti ammazzati. Ecco il risultato, allora, riprodotto nella tabella seguente, intitolata dai cinque autori “Domobranci croati e civili assassinati in Slovenia dal 23 maggio 1945” (p. 457):

Dal crocevia della strada Dravograd fino al confine croato 145.000
A Kočevski rog 41.000
Sul montuoso Zasavski 24.000
Nella campagna Breziski – Mostec 6.000
Nel bosco dei Krakov – 11 sepolcri 5.000
Governativi croati, bambini e monache a Lancovo 1.300
A Crni Grob – ed altri governativi assassinati a Lancovo 200
Totale assassinati in Slovenia 222.500

Quanta Italia c’è nel libro?
Ce n’è abbastanza. Tanto per cominciare ci sono molti militari, dato che l’Italia nel 1941 invade, con la Germania, il Regno di Jugoslavia. La Slovenia scompare essendo suddivisa tra l’annessione italiana della cosiddetta provincia di Lubiana e l’altra parte orientale annessa addirittura al Terzo Reich.
Allora c’è il generale Mario Robotti, comandante delle autorità italiane di Lubiana occupata ed annessa, intenzionato ad aprire “campi di concentramento per l’internamento delle persone sospettate, poiché a Lubiana ve ne erano detenute già 200 e ci si aspettava che il numero avrebbe raggiunto i 1.000” (p. 129).
Poi c’è anche un po’ di Friuli. È fatto cenno al Campo di concentramento di Gonars, in provincia di Udine, per detenere sospetti sloveni e croati (p. 128). Qui finiscono molti ufficiali sloveni, con un “aiutino” dato ai militari italiani da parte della Osvobodilna Fronta (OF), ovvero il Fronte di Liberazione del Popolo Sloveno. Infatti i primi partigiani, sapendo che molti degli ufficiali sloveni erano monarchici e non comunisti, li precettarono ad entrare nell’OF con delle cartoline aperte, cosicché l’esercito italiano venne a sapere i loro indirizzi e li prelevò tutti senza tanti problemi.
Poi sono menzionate le trattative di Tapogliano del 15 giugno 1944. Artefice di tale iniziativa è il prefetto di Gorizia, conte Marino Pace, che prese contatti coi capi partigiani per azioni di non aggressione (pp. 350-353).
Per ringraziare l’OF dei vari favori fatti all’esercito sabaudo imperiale, nel 1943 il generale Guido Cerutti, comandante della divisione “Isonzo” a Novo Mesto “aveva mandato tre vagoni di armamenti, munizioni e divise militari italiane per l’Esercito di Liberazione del Popolo” (p. 144).
C’è anche una specie di eroe nel 1945, quando gli inglesi cedono nelle mani dei titini i domobranci disarmati. È il dottor Valentino Mersola, direttore del Campo di concentramento dei civili. Il 31 maggio 1945 protestò con il maggiore canadese Barr, ufficiale incaricato di consegnare i civili ai titini, perché “gli inglesi mandavano a morte sicura una gran massa di gente” (p. 175). Le proteste di Mersola valsero il rinvio della restituzione dei civili, così egli “salvò da morte sicura seimila sloveni” (p. 177).
Ci sono, infine, gli italiani infoibati a Huda Jama – Lasko, pozzo di Barbana, assieme a sloveni e tedeschi; 2000 uccisi. A Canale d’Isonzo, sotto Hlastec, Dolic Mislinja, assieme a degli ungheresi; 100 ammazzati. Nel fossato anticarro sotto la salita di Mislinja, assieme ad altri ungheresi e ignoti; oltre 500 vittime. Nella foiba del bosco di Tarnova, sul Litorale, tutti italiani; 500 eliminati (p. 784).

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