giovedì 30 novembre 2023

Il lume dei ricordi

Nel caos di questi tempi tristi e decadenti, caos creato ad arte, perché nella confusione e nella zizzania è molto più facile comandare e raggiungere certi fini, fra le mete niente affatto secondarie perseguite dalla regia o dalle regie che da decenni sovrintendono all'andamento della politica e dell'economia, c'è anche quella di dividere l'Italia. Dividere, come capisce anche un bambino, significa indebolire, significa sostanzialmente togliere di mezzo una compagine che fino a pochi anni fa era la quinta potenza mondiale del pianeta, e la cui vitalità economica, anche dopo la sconfitta del '45, sbalordì lo stesso Kissinger - segretario di stato americano durante le presidenze Nixon e Ford -, il quale testualmente dichiarò che mai avrebbe immaginato l'Italia si sarebbe rialzata in tal modo da una disfatta come quella subita nel secondo conflitto mondiale. Allo stesso modo si espresse l'imperatore Francesco Giuseppe all'indomani della conclusione del Risorgimento, quando, quasi preconizzando la sconfitta austriaca del 1918, definì l'Italia una nazione risorta a impensata floridezza, una nascente potenza che costituiva per l'Austria una spina nel fianco e una minaccia permanente.

Per chi conosce a fondo la storia della nostra nazione, ciò non costituisce una novità: noi ci siamo sempre rialzati, infatti, da ogni tipo di sciagura, anche se hanno sempre cercato di tarparci le ali, conquistarci, invaderci, sgraffignare la roba nostra, impadronirsi delle nostre ricchezze, impedirci di emergere, avanzare diritti inesistenti sui nostri territori, etc., e spesso ci sono riusciti, ma senza mai arrivare alla definitiva conclusione, come dimostra il fatto che siamo ancora qui “vivi e implacabili”, per usare un'espressione Dannunziana. Che questa smania di umiliarci e schiacciarci sia dovuta al fatto di essere noi teoricamente i discendenti dei Romani, è molto probabile, anzi è provato da numerosi fatti che non starò a elencare, e attorno a cui perfino Shakespeare scrisse una notevole tragedia, significativa anche se poco conosciuta: il Tito Andronìco. La tragedia che parla di Roma e dei suoi discendenti. La “tragedia della vendetta”, come fu chiamata, per la terribile vendetta di sangue che il Padre Romano, a sorpresa, segretamente ha congegnato contro i nemici esterni e interni della nazione che lo credono uscito di scena e non più in grado di nuocere, e ne vengono invece malamente travolti e annientati alla fine dei tempi, dalle cui rovine rinasce l'Impero.

Pur riconoscendo l'ammirazione e l'amicizia sincera manifestata nei secoli da tanti stranieri che si sono dimostrati amanti e cultori dell'Italia e della sua civiltà e hanno fatto del bene al nostro Paese, purtroppo la realtà generale è questa: l'Italia ha sempre costituito un bersaglio, una mira, una spina nel fianco e comunque un pericolo per la geopolitica. È questa la ragione sostanziale del notevole ritardo con cui si compì il suo Risorgimento: nonché dell'immensa fatica e del sangue che costò. Purtroppo oggi siamo costretti a convivere nostro malgrado con una truppa di persone che crede e vuol credere che il Risorgimento sia stato opera di pochi, e questi pochi l'abbiano realizzato male, peggio, commettendo delitti e massacri indicibili nel mezzogiorno d'Italia, refrattario e anzi avverso all'Unità della nazione. Faccio solo due piccoli esempi. Uno dei menestrelli attuali delle bellezze del Regno delle due Sicilie, destinatario pure di un premio giornalistico, dichiarò in un'intervista che il meridione diede alla causa italiana 44 volontari (sic!!). Facendo un balzo di centinaia di chilometri, tra lo sparuto gruppuscolo di triestini indipendentisti, nostalgici dell'Austria e filoslavi che attualmente galleggia a pelo delle acque anti-italiane, è ormai una regola dire che l'irredentismo Triestino riguardò solo poche migliaia di persone, la restante parte della città (240.000 persone) essendone completamente estranea. Ciò è smentito da una serie di fatti eclatanti (primo fra tutti le oceaniche accoglienze all'esercito italiano nel 1918), fatti tra i quali basterebbe annoverare questo: in occasione della tragica morte dell'imperatrice Elisabetta (la celebre Sisi) nel 1898, la notizia fu accolta nella città di Trieste nella pressoché totale indifferenza, suscitando le ire delle autorità austriache. Viceversa, quando morì il Re Vittorio Emanuele II vent'anni prima, nel 1878, la città si vestì a lutto, i negozi chiusero, una gran folla partecipò alla Messa di suffragio, seguendo poi il console d'Italia commendator Bruno fin davanti alla sede del consolato ove inscenò una manifestazione patriottica che finì col solito intervento della Polizia (uno dei tanti) .

Dunque: Risorgimento è una parola solenne e sacra finita in bocca a gente dozzinale che si autodefinisce storica e di storico non ha nulla, a meno di non voler degradare la Storia, che è una Scienza, a livello di gossip, di passaparola, di letture superficiali e inconsistenti, e, addirittura, di plateali bugie.

Poiché la divisione dell'Italia non è andata a segno quando si pensava che la Lega Nord ci sarebbe riuscita nei lontani anni ottanta, ecco che le basse forze della discordia sono tornate all'attacco, stavolta armate di nostalgie neoborboniche, asburgiche e papaline, sbandierando assurdi primati, genocidi inesistenti, spoliazioni mai avvenute, e non importa se mentono sapendo di mentire poiché il loro scopo non è quello di cercare la presunta verità storica, ma semplicemente di spargere inimicizia, sospetto, avversione e malumore in una nazione che, pur riemersa materialmente dalla sconfitta del '45, dal punto di vista spirituale è da allora priva di una vera guida, lasciata a sé stessa e ai suoi instabili umori, che sappiamo quali sono attualmente, alle prese con una crisi economica che non ha mai fine e con disgrazie che si succedono una dopo l'altra, magari richiamate dalle stupidaggini, dagli spropositi e dalle follie cui assistiamo ogni giorno, muti e impotenti spettatori di fronte agli argini infranti dell'intelligenza e del buon senso.

Le calunnie sul Risorgimento costituiscono uno dei punti, e il più cruciale, ove si addensano e si arruffano le aggressioni contro l'identità nazionale. Mettendo in forse l'unità della nazione, mettendo in dubbio la sua stessa legittimità, irridendo e gettando fango sul processo che ha portato a quel traguardo, sminuendolo e inquinandolo di bugie, dicendo che Garibaldi era un sanguinario e Cialdini un macellaio, ecco che i satrapi furbi dell'antiRisorgimento eccitano un certo popolino, ansioso di sentirsi assolvere dalle colpe del presente scaricando sul passato le frustrazioni, le delusioni, le rabbie e le insoddisfazioni la cui causa non ha niente a che vedere con coloro che fecero il Risorgimento. Tra l'altro, se Cialdini fosse stato un macellaio, non avrebbe certo impedito che il fanatico generale borbonico Fergola che aveva resistito otto mesi nella cittadella di Messina con i suoi, fosse linciato dalla folla dei messinesi infuriati.

Volendo stilare la squallida classifica dei venditori di fumo antirisorgimentale, ve ne sono alcuni che hanno raggiunto un'impensata notorietà, non certo per meriti storici, ma perché i media ne hanno creato un caso, e si sa che il parco buoi è ciò che consente di prosperare a tutto il meccanismo propagandistico-pubblicitario che fa capo alla televisione e ai principali quotidiani, dove, dietro la facciata ufficiale dell'Unità d'Italia, celebrata più a parole che a fatti, alligna indisturbata una ben più corposa congrega di detrattori, infangatori e mentitori. Di più, in quest'epoca infelice, l'ignoranza è il valore maggiormente condiviso, assieme alla volgarità, alla finzione, alla superficialità e al sensazionalismo, e di conseguenza le pindariche bordate dell'artiglieria antirisorgimentale vanno a segno con sorprendente facilità.

Costituisce dunque un fenomeno sociologico - altro non saprei come definirlo - il fatto che un tal numero di gente creda alle balle del primo venuto, eppure è così: nel terzo millennio, nell'era dei telescopi orbitali a infrarossi che indagano le profondità dello spazio, una miriade di gente in Italia ha creduto a bocca aperta (senza discutere, senza svolgere indagini, senza documentarsi, senza leggere, senza chiedere a qualcuno che magari ne sa di più, senza nemmeno porsi un interrogativo e un dubbio personale), ha creduto semplicemente, sull'onda dell'emotività e quindi dell'irrazionalità, a cose a cui evidentemente voleva credere e aveva bisogno di credere per autoassolversi, consolarsi e dar sfogo alle proprie personali frustrazioni. Così abbiamo appreso da una sorta di negromante-indovino, il quale è certamente dotato di poteri paranormali e chiaroveggenti che gli consentono di scandagliare la complessa trama del Risorgimento, e invece mancano a professori, storici e ricercatori che vi hanno dedicato anni e anni di studio, abbiamo appreso che i “piemontesi”, nazisti ante-litteram, tanto per cominciare invasero il meridione contro la sua volontà, e, volendo a tutti i costi unire l'Italia onde appropriarsi dei soldi e dell'oro meridionale, massacrarono, deportarono, rapinarono, stuprarono, facendo digerire a forza, a furia di schioppettate e cannonate, la loro brutale conquista a un popolo tranquillo e pacifico che non voleva saperne, e che dunque si ritrovò qual vittima sacrificale di una tale mastodontica violenza, che cagionò nientepopodimeno un milione di vittime (poco più poco meno, fate voi....).

Ma non si pensi che io, in quest'articolo, intenda confutare una per una codeste balordaggini, perché l'ho fatto già in tanti altri miei articoli e continuerò a farlo, di volta in volta affrontando con la dovuta razionalità i punti ai quali i vari infangatori si aggrappano, anche perché ho la presunzione di credere che chi mi legge sia a un livello culturale e intellettuale ben diverso. No, io voglio richiamare ancora una volta l'attenzione e la vigilanza su questi oracoli dell'antiRisorgimento - in specie quelli aureolati dalla fama, ridenti sotto i riflettori -, quelli che dicono che sanno e hanno scoperto cose indicibili nascoste dai perfidi piemontesi, invitando a osservare la loro fisiognomica e, soprattutto, il preoccupante fenomeno di abbacinamento delle folle (una volta si chiamava abuso della credulità popolare e costituiva un reato) di cui sono causa volontaria e premeditata: un fenomeno che genera sgomento e soprattutto induce al pessimismo circa l'avvenire della nostra nazione. Un pessimismo giustificato, che spiega, tra l'altro, come mai in Italia, invece di un partito nazionalista-sovranista come in tutti gli altri paesi d'Europa, vi sia solo una montagna di chiacchiere inconcludenti e di personaggi che non sarebbero in grado di guidare una squadra di pallavolo, figuriamoci una nazione.

In questo quadro desolante, il paragone con coloro che fecero il Risorgimento e combatterono la Grande Guerra mette purtroppo in luce un esercito d'incapaci, d'incompetenti e d'indolenti, non sufficientemente controbilanciati da coloro che invece sanno fare il proprio lavoro e hanno voglia di fare, cioè gli italiani grazie ai quali la nazione va avanti. Ma per fare andare avanti una nazione non basta la materia, ci vuole anche lo spirito. Il giorno del ricordo - fissato dalla legge n. 92 del 30 marzo 2004, al 10 febbraio di ogni anno - dovrebbe essere una delle occasioni in cui viene fuori l'anima concorde di una nazione. Il giorno del ricordo dovrebbe essere, appunto, il giorno dello spirito, in cui ci si sofferma a pensare e si porge grato omaggio ai connazionali che hanno dato la vita per questa nazione o comunque hanno pagato a caro prezzo il proprio essere italiani. Il giorno del ricordo dovrebbe essere insomma un giorno dedicato alla Patria, assieme al 4 novembre, data della Vittoria nella Grande Guerra contro l'impero asburgico, che da molti anni ormai non si festeggia più e comunque è stata mascherata da una diversa espressione che nasconde il vero significato di quella solenne ricorrenza, e al 17 marzo, data della proclamazione del Regno d'Italia, che si è festeggiato - chissà perché - una sola volta. Cose da matti, verrebbe da dire, in una nazione normale. Ma l'Italia non è un paese normale: è un paese malato, abitato in una certa percentuale da gente che pesca nel torbido, che rema contro, che irride alla propria stessa identità, una sorta di canzonatori disfattisti, di maniaci della sconfitta, di sciacalli che si compiacciono delle disfatte e ci girano costantemente attorno, di individui obliqui che prediligono sempre qualche altro paese e popolo, o, peggio, rimpiangono la trista epoca pre-unitaria, o, peggio ancora, sono tarlati dal sordido proposito di dividere in qualche modo la nazione, non importa se a Trieste o in Alto Adige o in Sicilia o dovunque fosse. Questi seminatori di zizzania che allignano e prosperano nei vari sottoboschi, spuntano come i funghi ora qui ora là, e starci dietro è quasi impossibile, perché, pur accomunati da un medesimo sciagurato velleitarismo distruttivo, mescolato a pulsioni psicologiche fatte di rancore, invidia e ignoranza, prendono direzioni e assumono colorazioni diverse. E proprio il giorno del ricordo offre lo spunto per riflettere su questa realtà con cui dobbiamo fare i conti e alla quale bisogna tener testa, perché, nella debolezza e nel lassismo del governo che pensa ad altro, da essa sorge un grave pericolo: quello di ribaltare i fatti, di ammorzare il lume dei ricordi, non solo il ricordo degli Istriani, Fiumani e Dalmati, ma tutto l'incalcolabile patrimonio di ricordi che costituisce il bagaglio storico insostituibile dell'Italia. Esso non è stato tramandato nella giusta maniera, non è stato conservato con quella gelosia e quella cura che sarebbero state necessarie, non è stato protetto e difeso abbastanza, non è stato abbastanza studiato e spiegato, se oggi assistiamo a simili aggressioni. O forse l'Italia del dopoguerra, con il suo complesso di colpa antifascista, è la principale responsabile di questa grave lacuna. Proprio riguardo al giorno del ricordo e alle contestazioni a cui è fatto segno (il che lo accomuna al Risorgimento e alla Grande Guerra, del pari bersagli fissi dei contestatori di professione), le responsabilità di questa repubblica non sono piccole. Il colpevole silenzio steso sulle drammatiche vicende dei connazionali dell'Adriatico orientale di cui molti italiani ignoravano perfino l'esistenza, è stato troppo lungo e troppo pesante perché basti una commemorazione annuale a diradarlo. In altre parole il giorno del ricordo, di per sé giustissimo, non basta a colmare la grande lacuna, non basta a tener acceso il lume dei ricordi, non basta a compensare moralmente tante sofferenze. Inoltre, la storia di quelle regioni che a noi appaiono lontane e ormai perse irrimediabilmente, non è chiara nemmeno oggi, anzi risulta ulteriormente intricata e confusa da tesi contrapposte che si urtano tra loro, e, non di rado, invece di chiarire, complicano ancor più la questione, cosicché, accanto ai “negazionisti” e “riduzionisti”, si è affermata una posizione mediana ufficiale, sostenuta dal Governo, secondo cui, pur riconoscendo pieno valore storico al dramma degli Istriani, Fiumani e Dalmati, si tende a controbilanciare questo dramma con i gravi torti di cui l'Italia si sarebbe resa responsabile verso gli slavi: i quali gravi torti commessi dagli italiani, in particolare dai fascisti durante l'occupazione della Jugoslavia, uniti a quelli commessi dal Regno d'Italia quando, dopo la Vittoria del 1918, occupò territori abitati anche da gente slava, autorizzerebbero a dedurne una specie di “patta”, cioè una situazione di parità in cui i torti commessi da una parte e dall'altra, messi sul piatto della bilancia, infine si equivarrebbero. Da qui le iniziative conciliatrici dell'ex Presidente Napolitano, le celebrazioni di una ritrovata amicizia con sloveni e croati, la deposizione di corone da ambo le parti, l'istituzione di una commissione bilaterale di storici che, con animo sereno, ristabilisca la verità delle due parti in conflitto, la concessione delle doppie scritte nelle pressoché inesistenti provincie di Trieste e Gorizia che possano fare il paio con quelle di Slovenia e Croazia, al fine d'inaugurare finalmente una nuova era di collaborazione e di pace nel quadro di questa meravigliosa Europa.

Può darsi. Può darsi che sia giusto e che sia vero. Oppure no. Potrebbe trattarsi semplicemente di una soluzione di comodo, comoda soprattutto per la Slovenia e la Croazia odierne, le quali hanno ricevuto i maggiori vantaggi, anche in termini d'immagine, da questa facile parificazione delle colpe e pacificazione più apparente che reale. Le doppie scritte nelle esili provincie di Trieste e Gorizia costituiscono infatti un indubbio colpo messo a segno da una minoranza slovena d'importazione, agguerrita, tracotante e fagocitata dalle formazioni di sinistra che gli italiani allegramente continuano a mandare nelle amministrazioni locali, dando così la stura alle esaltate forme di esterofilìa che le contraddistinguono, di cui quella a favore degli slavi è una delle più eccitate ed eccitabili, smaniosi come sono, questi comunisti falliti, di prendere le parti dello straniero di turno, in tal caso dei poveri slavi perseguitati e vessati dal Fascismo e, perfino, dal Regno d'Italia uscito vincitore dalla Guerra nel 1918 e quindi nel suo pieno diritto di dar seguito a quella Vittoria annettendo i territori ex austriaci, i quali poi altro non erano che i territori appartenuti stabilmente alla Serenissima fin dal XV° secolo, ragion per cui potremmo dire che l'Italia si riprese semplicemente il maltolto, e anzi non lo riprese neanche tutto. E anche i territori che non appartenevano alla Serenissima come Trieste, Gorizia e Fiume, e perfino Ragusa di Dalmazia, avevano comunque conservato l'italianità, il che è la riprova che essa era forte e radicata indipendentemente dalla Serenissima e dal suo pur potente influsso: era presente a prescindere da Venezia, e dunque preesistente. Non solo, ma permeata di forti elementi di Romanità, i quali risultavano del tutto estranei e anzi invisi agli slavi immessi in terre che non erano loro e a cui non potevano sentirsi tradizionalmente legati dal legame con Roma che invece riguardava tutti i legittimi abitanti dell'Adriatico Orientale, passati poi sotto Bisanzio, la seconda Roma. Fra le innumerevoli aggressioni subite dagli italiani per mano slava, infatti, non di rado si annoverano vandalismi nei confronti dei reperti Romani, veri e propri segnacoli identitari dei legittimi abitanti di quelle terre, come accadde quando il prete sloveno don Urban Golmajer distrusse tutte le lapidi Romane degli scavi antichi di Rozzo (un paesino nel centro dell'Istria), destando l'indignazione di Theodor Mommsen, lo storico tedesco autore della famosa Storia di Roma in cinque volumi.

Fu pertanto durante il periodo della dominazione austriaca, iniziato nel 1797, a parte la breve parentesi francese, che gli slavi di cui si parla, cioè quelli reclamanti a gran voce il possesso delle terre italiane, furono immessi nei confini delle terre irredente, e il fatto che originariamente fossero giunti in quelle contrade a seguito delle ultime invasioni barbariche del VII° e VIII° secolo, non significa assolutamente nulla, perché altrimenti l'Italia non sarebbe più Italia e non esisterebbero più italiani, bensì solo Goti, Eruli, Unni, Longobardi, etc. Gli slavi giunsero sì in antica data in quelle contrade, ma non riuscirono a conquistarle affatto, tanto più che non possedevano neanche la decima parte della forza militare dei Goti e dei Franchi né la loro levatura e le loro ambizioni di diventare Romani o, meglio, di sostituirsi ai Romani. In ogni modo, si tratta di vicende sepolte nella notte dei tempi che non possono fare da piedistallo per alcuna rivendicazione in tempi moderni, anche perché non sono collegate tra loro con continuità. In altre parole, gli slavi reclamanti il possesso dell'Istria e della Dalmazia nel XIX° secolo non hanno niente a che vedere con gli slavi che giunsero dodici secoli prima, sennò tutto l'Adriatico orientale, a partire addirittura dalla Carniola, sarebbe stato da un bel pezzo compattamente slavo e il problema delle “terre irredente italiane” non si sarebbe mai posto, così come non si pose per le terre che, dal V° secolo in poi, furono effettivamente conquistate dai barbari che vi fondarono un loro stabile e duraturo Regno (come i Franchi nella Gallia, per esempio). Ci fu un regno di Croazia nel Basso Medio Evo che arrivò a lambire Zara, ma esso era così irrisorio, effimero e territorialmente esiguo che le cronache storiche relative alle lunghe e importanti guerre combattute da Venezia nei secoli, non lo citano neanche come comprimario, figuriamoci come protagonista, cosicché non è possibile attribuirgli a posteriori l'importanza che non aveva, praticamente pari a zero. Molte delle sue importanti guerre, Venezia le combatté invece contro l'Austria, che facilmente sottomise il Regno di Croazia già sottomesso all'Ungheria, ma giammai riuscì a sottomettere Venezia, con cui dovette scendere a patti e compromessi, non di rado umilianti, fissando confini e rispettive zone d'influenza che i Veneziani puntigliosamente fissavano con lunghe ed estenuanti trattative. Al contrario, gli slavi come Stato non costituivano nessun problema per la Serenissima (tantomeno un problema militare) semplicemente perché non c'erano, ed essa poté dedicarsi alla propria espansione in terraferma e sul mare senza che nessun “esercito slavo inesistente” venisse a contrastarla (l'inarrestabile espansione di Venezia fu fermata solo da una potente coalizione europea capeggiata dal Papa ai primi del '500), espansione che contemplava il possesso di tutto il confine nord-orientale dall'Isonzo fino a Cattaro, sottomettendovi le popolazioni, quali che fossero, slave o non slave.

A questo proposito, alcuni storici, per non parlare della gente comune che identifica Venezia con le commedie di Goldoni e le maschere del Carnevale, sembrano dimenticare che la leggendaria città lagunare non fu soltanto una grande potenza commerciale, ma anche una potenza militare di primaria grandezza che nel combattere le guerre non andava per il sottile e picchiava sodo quando si trattava di acquisire territori e sottomettere popolazioni che poi regolarmente integrava, alla maniera Romana. Non a caso gli slavi nati e cresciuti sotto Venezia divennero fedelissimi sudditi del Doge, divennero gli slavi-veneti che parlavano il veneto da mar, volevano morire per la Serenissima e sognavano il suo ritorno quando questa decadde sotto la spinta delle nuove idee portate dai francesi. Dunque, non potevano certo esser loro a reclamare, solo pochi anni dopo, l'unione dell'Istria e della Dalmazia a Zagabria, scacciandone gli italiani, ossia i Veneti stessi. Di conseguenza costituisce un mito della storiografia jugoslava la continuità della presenza slava in quei territori passati a Bisanzio dopo la caduta di Roma, territori nei quali subentrò la potenza di Venezia che li contese all'Austria, al Regno d'Ungheria, ai pirati slavi (i narentani prima, e gli uscocchi poi) che furono annientati, ai Saraceni e ai Turchi che furono respinti, non certo al Regno di Croazia, il quale non vi ebbe che una parte irrilevante. Al contrario, l'illustre funzione di guardiana, protettrice e benefattrice, fu l'aureola che circondò Venezia in tutte quelle terre adriatiche che richiesero spesso il suo aiuto e vissero felicemente per secoli sotto la sua egida. Nei testi scolastici jugoslavi, invece, Venezia viene presentata come l'occupante illegittimo delle terre adriatiche abitate continuativamente dagli slavi fin dal VII° secolo! Un occupante che portò in quelle terre gli italiani che non c'erano, inserendoli arbitrariamente tra gli slavi a far loro da padroni. Ebbene tutto ciò è completamente falso, ma il bello è che in molti ci credono, anche al di fuori della Jugoslavia e delle sue leggende, e allora dovrebbero spiegare dov'erano questi slavi che abitavano quelle terre fin dal VII° secolo, prima che ci arrivassero i Veneziani invasori, i quali rappresentavano il continuum con Bisanzio e non certo un punto di rottura con la Storia precedente, e comunque non trovarono nessun regno degli slavi, bensì invece trovarono gli abitanti autoctoni (mescolati alle etnìe più varie) i quali non si reputavano affatto slavi e tantomeno croati, e designavano se stessi semplicemente con riferimento alle rispettive città di appartenenza (Zara, Spalato, Sebenico, etc.), esattamente come avveniva nell'Italia Comunale. Perfino i Ragusei, che si mantennero indipendenti da Venezia (anche se sempre in contatto con essa), non si reputavano slavi, pur conoscendo la lingua dei vicini serbi. Le zone dalmate dell'interno, ben poco popolate, erano abitate dai morlacchi e dai cici, che non si reputavano affatto slavi, ma addirittura discendenti degli antichi Illiri. Non dico che non vi fosse neanche uno slavo, ma certo non in misura sufficiente da poter dire che quelle terre erano slave. Anche nel ripopolamento delle contrade svuotate dalla peste o da altre calamità, Venezia fece affluire etnìe miste (anche dall'Italia), e non solo slave, e non certo a casaccio: si trattava in genere di famiglie selezionate tra gente la più varia, che aveva voglia di lavorare, integrarsi, obbedire alla legge e seguire la santa religione, cattolica o ortodossa. Ciò avvenne per esempio a Parenzo, una cittadina costiera dell'Istria occidentale, ripopolata fra il '500 e il '600. Ma non risulta che Parenzo si sia mai proclamata slava. Anzi: addirittura adesso c'è il 12% di italiani.

A riprova che quelle terre furono italiane, esse vissero l'età Comunale e il Rinascimento, con intensissimi rapporti e scambi con la madrepatria. Vissero e condivisero poi il Risorgimento fin dai suoi albori, cioè dalla Carboneria e società segrete minori affini a questa. Dov'erano dunque i fantomatici slavi e croati che avrebbero abitato senza interruzione quei luoghi fin dai remoti tempi delle invasioni barbariche? Semplicemente non c'erano. D'altra parte la stessa architettura lo attesta senza ombra di dubbio: essa è un'architettura chiaramente italiana. E infatti col termine “croati”, usato pochissimo in tutto l'Adriatico orientale, s'intendevano i croati dell'interno, sottomessi all'Ungheria e poi all'Austria, i quali avevano una lingua, molto simile al serbo, che non veniva usata nella vita pubblica. Il primo discorso in croato davanti al Parlamento risale al 1843. Dunque non si capisce che ruolo i croati potessero avere in Istria, Fiume e Dalmazia. Il loro ruolo venne costruito artificiosamente nel XIX° secolo, sorgendo dal panslavismo e dalle proprie stesse mire fagocitate dall'Austria, a cui tornò di estremo giovamento suscitare la croatizzazione (e in misura minore la slovenizzazione) per togliere di mezzo gli ingombranti italiani da tutta la fascia territoriale che dall'Isonzo scendeva fino a Cattaro, estremo lembo meridionale della Dalmazia.

Dalla caduta della Serenissima (1797) alla proclamazione del Regno d'Italia (1861) trascorsero alcuni decenni che furono sufficienti all'Austria per causare all'odiata nazione italiana rinascente, che costituiva una minaccia al suo dominio, quei danni irreparabili che vanno sotto il nome di sostituzione etnica, cui qualcuno ha aggiunto il termine terrorismo di Stato, con riferimento alle aggressioni continue, violente e non violente (si può dire giornaliere), comprensive anche di brogli elettorali, falsificazioni di censimenti e cambio forzato dei nomi e dei cognomi, cui gli italiani del confine orientale furono sottoposti per spingerli ad andarsene o slavizzarsi. All'ombra della sua potenza politica e militare, l'Austria poté agire del tutto indisturbata, e toglierla definitivamente di mezzo è stata un'impresa titanica e l'atto più salutare e meritorio di tutto il Risorgimento italiano.

Come sappiamo, prima che l'Italia in lotta per la sua riunificazione potesse tornare a riaffacciarsi in quelle desiate contrade Romane, Bizantine e Veneziane, ci vollero guerre e insurrezioni (le 101 battaglie che hanno fatto l'Unità d'Italia di cui parla lo storico Andrea Frediani nel suo libro omonimo), fino al finale e più terribile confronto con l'impero asburgico: la guerra '15-'18. Fu grazie a quella Vittoria che il Regno d'Italia entrò nell'Adriatico orientale per riprendersi ciò che era suo e vendicare Venezia, punto di riferimento nevralgico di tutto il Risorgimento. Dopo decenni di persecuzioni, processi, cannoneggiamenti di città, arresti, interrogatori, torture, rapine, saccheggi, confische di beni, deportazioni, fughe ed espatri volontari e coatti di decine e decine di migliaia di italiani nei “felici” territori occupati dagli austriaci coadiuvati dai loro vassalli croati, sloveni e anche serbi, la Vittoria gloriosa del 4 novembre 1918 spalancò finalmente ai connazionali di Trieste, di Gorizia, dell'Istria, di Fiume e di Dalmazia le porte dell'agognata riunione alla madrepatria. Ma non era ancora finita. Altro sangue, altre sofferenze, altri soprusi e altre infamie si preparavano. Gli alleati stessi con cui l'Italia aveva combattuto la Grande Guerra, entrandovi in un momento in cui le sorti dell'Intesa erano tutt'altro che favorevoli, si misero contro di noi e presero le parti degli jugoslavi al fine di escluderci dall'Adriatico orientale e dai Balcani. Mille altre violenze, angherie, vessazioni si compirono, fino alla tragedia finale delle foibe e dell'esodo. E ancora continuano, perché ci sono voluti ben 60 anni di lotte (!) per aprire, nel 2012, un piccolo asilo italiano a Zara, e una truppaglia di esagitati tuttora nega, ridimensiona e irride alle foibe e all'esodo degli Istriani, Fiumani e Dalmati, chiamando in causa il solito Fascismo e addirittura il Regno d'Italia, accusati di aver compiuto una “bonifica etnica” a danno degli slavi abitanti nei territori annessi all'Italia dopo il 1918, con l'impedire loro l'uso della lingua e cambiar loro forzatamente i cognomi. A queste facili accuse continuamente proferite dagli slavofili di casa nostra e dai loro amici d'oltre confine, potremmo rispondere semplicemente col detto “chi la fa l'aspetti”, ma ancor meglio entrando nel merito di quei provvedimenti, il che nuocerebbe proprio agli accusatori, le cui urla contro l'imperialismo italiano-fascista non hanno scatenato quell'ambaradan che si proponevano. Infatti, la legge n. 114 del 28 marzo 1991 per la restituzione dei cognomi italianizzati dal fascismo ha destato tiepide reazioni da parte dei pretesi danneggiati, e dunque si è risolta in una bolla di sapone. Nè poteva essere altrimenti, dal momento che spesso si trattò di un'italianizzazione volontaria più che forzata, e in molti casi non si realizzò affatto, com'è stato più volte spiegato anche dal defunto professor Tomaz, esule istriano, animatore di tanti dibattiti e conferenze storiche sull'Istria e la Dalmazia. Il quale conservò tranquillamente il suo cognome “straniero”.

E concludiamo appellandoci perlomeno alla logica: cosa c'entra comunque il Fascismo con tutto ciò che abbiamo narrato fin qui? Dov'era il Fascismo su cui si riversano le colpe e le responsabilità delle violenze slave che per decenni impunemente si consumarono contro di noi decenni prima che il Fascismo nascesse? Esso è assunto disonestamente come alibi perché oggi torna comodo parificare, conciliare e pacificare le due parti in conflitto con “animo equo e sereno”, secondo i ben noti intendimenti dei nostri governanti attuali. Ma la verità, come abbiamo spiegato, è un'altra.

Non lasciamoci dunque fuorviare e intimidire da questi spaventapasseri che agitano il Fascismo come colpevole quando migliaia di croati e sloveni fuggirono anch'essi assieme agli esodati italiani e altrettanti cercarono di farlo ma non riuscirono perché furono sterminati prima dai titini. E pronunciamo i limpidi nomi italiani di Istria, Fiume e Dalmazia più spesso che possiamo. Impariamo i nomi italiani delle centinaia di paesi e città di quei luoghi così cari che devono vivere e rivivere per sempre nei nostri cuori, e ripetiamoli come in una preghiera, graziandoli di una fantastica resurrezione. Ciò ci consola e ci fa sognare, è di buon auspicio, e par quasi che faccia risorgere i cari fratelli dalle cupe voragini in cui è stata inghiottita la loro vita sacrificata alla Patria. Non lasciamo che i buchi neri della Storia la rapiscano, non lasciamo che nelle foibe sia inghiottito anche lo spirito oltre al corpo dei nostri sfortunati connazionali.

Il Risorgimento non finì con la presa di Roma, ma continuò ancora per molto tempo nelle terre irredente, nel cuore fedele e appassionato di quelle genti che per anni sperarono in uno sbarco di Garibaldi. Egli era sbarcato in Sicilia: perché non poteva sbarcare anche in Istria e Dalmazia? Dai cupi antri delle foibe, perciò, e da mille altri luoghi di sofferenza ingiusta e inumana, esce il grido dei nostri morti che ci dicono che il Risorgimento continua ancora.

Dalmazia, la regione lontana (M. Cipriano)

Cittadini!

Oggi tutta Italia manifesta per l'annessione dell'intera Dalmazia alla Madre Patria.

Imbandierate le vostre case!

Accorrete alle ore 15 a piazza Venezia per partecipare al corteo che si recherà alle Terme di Diocleziano.

Intervenite stasera alle ore 21 al Comizio all'Augusteo.

29 dicembre 1918.

Era, questo, uno dei tanti manifesti che in varie città d'Italia -in questo caso a Roma- chiamavano a raccolta gli Italiani per reclamare l'annessione dell'intera Dalmazia, cioè da Zara fino a Cattaro: una regione che oggi ai più non dice nulla, ma a quell'epoca, all'indomani della Grande Guerra, nel 1918, e fin dalla vigilia, nel 1915, quando tutta l'Italia era attraversata dall'impeto irredentista e interventista, soprattutto giovanile ma non solo, costituiva un punto d'onore delle rivendicazioni nazionali lasciate insolute dal Risorgimento.

Proprio a ridosso della Grande Guerra ci fu una presa di coscienza a livello nazionale dell'italianità di una regione che era sempre rimasta ai margini del pensiero collettivo. Il bilancio di varie decine di migliaia di dalmati deportati dagli austriaci allo scoppio delle ostilità con l'Italia, aveva dato la misura del pericolo che essi rappresentavano e avevano sempre rappresentato per l'Austria. Un libro non basterebbe e enumerare le angherie e persecuzioni a cui furono fatti segno dai croati e dai serbi all'indomani della nostra Vittoria, come testimoniato dal libro dell'ufficiale della Regia Marina Giulio Menini (Passione adriatica- Ricordi di Dalmazia 1918- 1920), che narrò -peraltro limitandosi, in ottemperanza a ordini superiori- ciò di cui lui stesso era stato spettatore quando la sua nave ancorata a Spalato fu per molti mesi il punto di riferimento e, spesso, il rifugio degli italiani che giornalmente erano aggrediti dai croati e dai serbi, i quali deridevano impunemente sui loro giornali la nostra vittoria, spavaldi come si sentivano dell'appoggio dei nostri alleati -in primis la Francia-, interessati a escluderci dai Balcani e dall'Adriatico orientale. Non a caso il triestino Attilio Tamaro fin dal 1917 aveva scritto: "la Francia è gelosa di noi, e teme un'Italia grande e forte." Non basta certo un articolo, per quanto lungo, per parlare della Dalmazia, per spiegarla sotto il profilo storico e in particolare relativamente alle rivendicazioni italiane che svariati studiosi di parte, tra i molti in circolazione soprattutto nel nostro paese, ascrivono acidamente al Fascismo. In realtà il Fascismo comparve sulla scena piuttosto tardi, quando già le rivendicazioni italiane erano state ampiamente espresse e dibattute da autorevoli personaggi che vissero ben prima della comparsa dei fascisti. Si pensi a Vincenzo Gioberti che, nella sua celebre opera Del primato morale e civile degli Italiani, dichiarò con passione che la Dalmazia rientrava nei confini nazionali italiani, o a Cesare Balbo, altro grande intellettuale piemontese del Risorgimento, il quale affermò la medesima cosa. Anche Carlo Cattaneo, che pur apparteneva alla piccola cerchia dei federalisti, nelle sue lettere al generale francese Brenier, scritte nel 1848 durante le grandi insurrezioni italiane e la la guerra d'indipendenza, affermò che: "Alla repubblica di Venezia vedremo unirsi il Tirolo, l'Istria e la Dalmazia...." Ma ovviamente fa più comodo disfarsi della "questione dalmata" confinandola nei sogni di grandezza e nelle presunte smargiassate fasciste, le quali, in realtà, non fecero che riprendere un filo già precedentemente svolto, ottenendo peraltro ben scarsi risultati, se si guarda al piccolo governatorato di Dalmazia, che fu quel poco che il regime Fascista riusci a ottenere, nonostante i suoi altisonanti proclami, nel 1941, quando ormai la presenza dell'ingombrante alleato tedesco e la clamorosa incapacità di Mussolini di esaudire i voti dell'Irredentismo, si palesò in tutta la sua evidenza. Anzi, proprio riguardo alle terre irredente, il Fascismo si dimostrò perfettamente impotente, causa i tatticismi prudenziali del Duce e le sfortunate vicende belliche, a ottenere un qualsiasi risultato concreto anche relativamente a regioni per le quali avrebbe potuto ottenerlo usando meno della metà degli sforzi che usò per conquistare l'Etiopia. In particolare il minuscolo governatorato di Dalmazia appariva ridicolo confrontato con l'enorme territorio regalato stoltamente dall'Asse all'ustascia filonazista Pavelic che tutt'attorno lo schiacciava, e all'intera Serbia divenuta tedesca. Di conseguenza i detrattori antifascisti potranno fare a meno di accusare il Fascismo di mene irredentiste, quando invece esso va accusato piuttosto del contrario, cioè di non aver cavato esattamente un ragno dal buco in questo campo, tanto che occupò inutilmente la Corsica nel novembre 1942, in un momento negativo della guerra, mentre avrebbe dovuto occuparla almeno tre anni prima, quando la situazione psicologica degli abitanti era ben diversa. Senza dire della mancata occupazione dell'arcipelago di Malta, un territorio di soli 300 chilometri quadrati che era il primo da rioccupare, togliendolo all'Inghilterra, per evidenti motivi strategico- militari oltre che irredentisti. Ma è meglio non arenarsi nelle critiche al Fascismo, un terreno adusato e abusato ove tutti si sono sbizzarriti, portando avanti una saga pluridecennale d'improperi e maledizioni, e, da parte opposta, un coro di assoluzioni tout-court, da cui, per rispetto della Storia, è d'uopo estraniarsi.

E dunque: fra le terre irredente che il Risorgimento non riuscì a recuperare alla madrepatria, la Dalmazia occupa una posizione speciale, perché rispetto ad essa si dibattè, anche in seno al Risorgimento, oltre alla primaria questione del come riconquistarla, anche quella se fosse o meno italiana, e se dunque l'Italia avesse buona ragione nel pretenderla. Sembra impossibile che una siffatta questione si ponesse rispetto a un territorio la cui popolazione era stata fedelissima a Venezia e pianse amaramente la sua caduta, ma è proprio qui che si palesa un punto storico cruciale rispetto al quale, io, dando per parte mia risposta affermativa all'italianità della Dalmazia come la diedero in passato molti di coloro che se ne occuparono, mi propongo con questo articolo di accentrare l'attenzione su alcuni aspetti che, da soli, possano illuminare il problema, evitando di fare la solita lunghissima panoramica storica che in alcuni casi parte addirittura dalla preistoria, generando confusione e accumuli di notizie troppo lontane nel tempo e dunque superflue. Viceversa, focalizzando l'attenzione e l'analisi sugli aspetti recenti, si potrà più facilmente riflettere sull'italianità della Dalmazia, questa regione lontana e per ciò stesso, proprio a causa di questa sua "emarginazione geografica", condannata a una certificazione particolarmente severa e puntigliosa, come se l'italianità, questione prettamente spirituale, dipendesse dalla maggiore o minore distanza in chilometri, e un dalmata potesse essere considerato meno italiano degli altri. Purtroppo, però, è stata anzitutto questa ubicazione periferica, questa "lontananza", a giocare un ruolo negativo nella psicologia degli italiani che, divisi per secoli, erano di fatto rimpiccioliti nel loro provincialismo, e a cui la Dalmazia doveva far l'effetto di un imprecisato luogo più esotico che familiare, dove c'era si qualche italiano, ma tutto sommato italiana non era e non poteva essere perchè "troppo lontana". Chiusi nelle loro ristrettezze, nei loro municipalismi e microcosmi ammantati di falsa autosufficienza, vieppiù vessati e soffocati per 150 anni dagli spagnoli, fieri odiatori di Venezia, essi non erano inclini a vedere un'Italia allargata addirittura fino all'opposta sponda dell'Adriatico. Successivamente, con il subentrare degli austriaci agli spagnoli, e la caduta di Venezia nel 1797, la situazione peggiorò, e la barriera si fece ancora più coriacea, la Dalmazia essendo finita nelle grinfie dell'impero asburgico, sappiamo con quale dolore dei dalmati e quali indebite appropriazioni da parte dell'Austria. Con il breve intermezzo del Regno Italico di Napoleone (1806-1813) che non lasciò traccia e comunque ascrisse la Dalmazia all'Italia, quest'amena regione cadde sotto il dominio di Vienna che finalmente poteva gustare, oltre il piacere ineffabile di vedere il fiero Leone che più volte l'aveva contrastata e umiliata, atterrato ed esangue, anche quello di mettere finalmente le mani sui suoi ricchi e prosperi domini territoriali che giungevano fino alle bocche di Cattaro, cioè ai confini col Montenegro (cui oggi le Bocche di Cattaro appartengono), comprendendo più di 800 fra isole, isolette e scogli: un boccone così ghiotto che mai l'Austria avrebbe sognato di ottenere con forze proprie, ma le fu definitivamente regalato sopra un piatto d'argento dal Congresso di Vienna nel 1815. A nulla valsero gli appelli dei Veneti per scongiurare quest'annessione, che tra l'altro contravveniva ai dettami stessi del Congresso di Vienna, in base ai quali, dopo la meteora napoleonica, le situazioni territoriali dovevano ritornare allo statu quo ante. Ma chiaramente l'Austria poteva fare in quella sede il bello e il cattivo tempo, imponendo i suoi diktat. La questione se la Dalmazia fosse o non fosse italiana non si sarebbe perciò mai dibattuta in seno al Risorgimento se la sua emarginazione geografica, cioè la sua "lontananza", non avesse ingenerato nello stesso Mazzini l'erronea persuasione che, nonostante la sua lunga appartenenza alla Serenissima, quell'infelice regione non era veramente italiana e dunque l'Italia non aveva diritto di rivendicarla. Fu questo un errore non piccolo, aggravato dal pio convincimento che la nazionalità italiana dovesse "platonicamente" affermarsi d'amore e d'accordo con le altre nazionalità emergenti, tra cui quella slava, quantomai avida e conflittuale, la quale ben altre mire aveva in testa che la fratellanza con gli Italiani, cui fin dall'inizio studiava anzi di sottrarre le prospere e amene terre adriatiche, vagheggiandole come proprie. Nel suo saggio del 1866 "Missione italiana-Vita internazionale", Mazzini scrisse che l'Istria era italiana e la Dalmazia italo-slava, commettendo il fatale errore in cui in molti incorrevano basandosi sui censimenti austriaci, i quali, oltre a essere mendaci in quanto notevolmente approssimati per difetto a svantaggio degli italiani, omettevano di spiegare perché gli italiani diminuivano a vista d'occhio col passare degli anni, e più ancora tralasciavano di evidenziare l'incongruenza: infatti, se la Dalmazia era italo-slava, per forza dovevano esserlo anche l'Istria, Fiume, Trieste e Gorizia, ubicate sulla medesima direttrice geografica, e se invece l'Istria, Fiume, Trieste e Gorizia erano a maggioranza italiana, c'era qualcosa che non quadrava, e dunque la maggioranza slava della Dalmazia appariva sospetta. Che un uomo come Mazzini, così solerte e deciso nell'ascrivere alla Patria luoghi di cui si poteva parimenti contestare l'italianità in quanto etnicamente misti (come Saint Moritz, la Corsica, il Tirolo, etc.) scivolasse in questo errore, suona strano: ma era un fatto che egli, con il suo sistema del compasso puntato su Parma, richiedeva alle terre da rivendicarsi come italiane nei confini di terraferma una sorta di gravitazione centripeta, e la Dalmazia sfuggiva a questa gravitazione in ragione della sua eccentricità geografica. Da qui il suo escluderla dal novero delle terre italiane anzitutto per ragioni pratiche, insieme al favoleggiare di un sodalizio italo-slavo in funzione antiaustriaca, la cui idea occupò la mente del grande patriota genovese per un certo tempo, anche se si trattava di un progetto politico del tutto inattuabile, e che suona ancor più stonato e inverosimile in quanto smentito da fatti eclatanti che egli non poteva non conoscere: basti pensare alle atrocità commesse dagli slavi assieme agli austriaci durante il Risorgimento, ampiamente denunciate da innumerevoli patrioti (per esempio descritte nel "canto dei croati" del patriota veronese Cesare Betteloni), e ai disordini e incidenti, proprio negli ex territori di San Marco, tra popolazione civile e truppe croate (nonché slovene, serbe e perfino bosniache) mandate a bella posta dall'Austria a mantenere l'ordine, e inserite nei ranghi della polizia anche nel Lombardo-Veneto. Non a caso, gli slavi di cui l'Austria si serviva in funzione anti-italiana erano a tal punto consci della propria utilità a Vienna che, nel 1848, in pieno Risorgimento, l'assemblea nazionale di Zagabria arrivò a chiedere l'annessione dell'Istria e della Dalmazia al suo ininfluente regnucolo, ben sapendo che il solo chiederlo avrebbe portato l'Austria, impegnata in un'ardua lotta contro l'Italia, a favorirli ancor più in quelle terre a scapito dei malfidi italiani. Fu una mossa astuta, in vista di un eventuale domani, quando, trionfando le nazionalità, gli slavi avrebbero presentato all'opinione pubblica internazionale il fatto compiuto della loro maggioranza numerica in quelle terre, vantandole come proprie. Cosa che avvenne in particolare per la Dalmazia.

In tutto questo, l'atteggiamento di Mazzini appare quasi inconcepibile: ma egli giocoforza viveva in esilio, influenzato dall'assidua frequentazione coi fuoriusciti di varie nazionalità, soprattutto polacchi e tedeschi, e, sull'onda dell'enfasi idealistica indotta da questi, aveva fondato la Giovine Europa, che in realtà con la Giovine Italia c'entrava poco, ma che era sintomo di quanto egli idealizzasse i rapporti internazionali, proiettando su di essi la stessa concordanza e amicizia esistente nei rapporti interpersonali fra esuli, mentre la realtà era ben diversa, e i fatti lo dimostrano. Dimostrano che gli slavi, in sintonia con gli austriaci, attivamente cooperarono ad angariare e opprimere gli Italiani fin dai tempi del Risorgimento, compiendo atrocità, violenze e soperchierie di ogni genere con gusto e ferocia particolari, per quel senso acre e maligno d'invidia, rivalsa e rivalità che non poteva ragionevolmente ispirare nessun tipo di accordo con essi, tantomeno in funzione antiaustriaca. Se le violenze di codesti sopraffattori avvenivano nel Lombardo- Veneto, sotto gli occhi di tutti, figuriamoci cosa avveniva in Dalmazia, la regione lontana, ove gli occhi dei connazionali non erano direttamente presenti, al punto che anche Cavour rinunciò a rivendicarla per lo stesso motivo: al grande statista piemontese non era difficile prevedere cosa sarebbe successo in sede europea se avesse osato chiedere quella regione. Con l'acume che gli era proprio, egli affermò infatti che "l'annessione dell'Istria e del Tirolo sarebbe stata l'opera di un'altra generazione", tacendo di proposito sulla Dalmazia, giả data per persa.

Il governo di Torino, attenendosi a questa linea, evitò di reclamare la Dalmazia, e quando cercò di farlo, spinto dall'onda interventista-irredentista della Grande Guerra, non fu abbastanza risoluto, senza contare che, dal 1866 in poi, la negativa conclusione della 3a guerra d'indipendenza aveva prostrato lo spirito dei Dalmati ancor più di quello dei Triestini e degli Istriani. Mentre Trieste e l'Istria speravano ancora, la Dalmazia vide sempre più allontanarsi la possibilità reale di riunirsi all'Italia. Fu in questo frangente che si perpetuò quella sorta di arroccamento difensivo dei Dalmati, chiamato impropriamente autonomismo, eretto contro l'avanzata montante degli slavi che, favoriti dall'Austria, aumentavano continuamente di numero, cacciando gli italiani da ogni dove.

A chi sostiene che questi slavi erano sempre esistiti in Dalmazia, e si erano ridestati parallelamente al ridestarsi del Risorgimento italiano, scoperchiando tutto in un colpo le proprie origini biologiche, è d'uopo replicare citando gli accreditati studi di Giuseppe Praga (1893-1958), uno dei massimi storici della Dalmazia di tutti i tempi, secondo il quale, alla caduta di Venezia, la Dalmazia faceva 288.000 abitanti, fedeli sudditi di San Marco. Una parte di loro era di origini slave vicine o lontane, o d'altre etnie, e parlava in famiglia dialetti strani? Non ha importanza alcuna, dal momento che la Dalmazia Veneta era multietnica, ma con una lingua ufficiale che era il veneto da mar, e il fatto che un certo numero di slavi in privato parlasse un proprio dialetto non conta nulla, tanto più la Storia ci dice che proprio loro costituivano un'etnia particolarmente fedele e grata alla Serenissima.

Come poté dunque succedere che, nel giro di pochi decenni, questi 288.000 fidi sudditi di San Marco calassero drasticamente di numero fino a diventare una minoranza in tutta la Dalmazia? O, peggio, che si croatizzassero? Ci fu certamente chi, a un dato punto, si slavizzò per opportunismo e convenienza, dato il contesto fortemente ostile all'Italia creatosi in una regione divenuta austriaca, ma fu un'eccezione, perché era sempre accaduto il contrario: che fossero gli slavi a italianizzarsi, secondo quel normale processo storico a tutti noto che, fra due civiltà, attrae verso quella dominante o comunque preferibile. Il patriota irredentista Roberto Ghiglianovich (1863-1930) -poi fuggito in Italia e condannato a morte in contumacia dall'Austria per alto tradimento, è un tipico esempio di questo accorparsi degli slavi all'italianità: come ben attesta il suo cognome, la sua famiglia era di origini slave, e, rifugiatasi in Dalmazia per sfuggire ai Turchi, si era inserita pienamente nella Dalmazia Veneta, abbracciando la cultura italiana, anche se in famiglia sapevano parlare il serbo-croato. Lui stesso racconta che il padre gli aveva insegnato che l'italianità della Dalmazia non era una questione di lingua e di etnia, bensì di sentimento.

Purtroppo, il peccato originale che inficiò la questione dalmata nel Risorgimento non riguardò solo Mazzini e Cavour, ma, fatta eccezione per Garibaldi che progettò invano sbarchi liberatori sulle coste dalmate, riguardò anche altri patrioti, come Niccolò Tommaseo, dalmata lui stesso, i quali scivolarono nell'ambiguità dell'amicizia italo-slava e dell'unione delle due etnie in funzione anti-austriaca. In particolare il Tommaseo, influenzato dalla sua visione cristiana dell'esistenza, era portato a edulcorare i rapporti umani, minimizzando gli attriti se non nascondendoli addirittura, e dunque considerava gli sgomitanti dalmati-slavi del suo tempo per quello che non erano, né più né meno di quel che faceva Mazzini, con la differenza che il Tommaseo proveniva da quella regione e la conosceva, mentre Mazzini poteva facilmente non conoscerla e quindi illudersi che fosse sempre stata abitata da una gran maggioranza di slavi, i quali secondo lui andavano aiutati nella difesa della propria identità assieme agli italiani, in vista di una comune insorgenza contro gli austriaci, che, naturalmente, giammai si verificò.

Questa solenne cantonata, generata dal lato più romantico del Risorgimento, arrecò un danno enorme alla causa nazionale perché oscurò la realtà, non volendo accettare il fatto che si aveva a che fare con tracotanti immigrati slavi anti-italiani immessi dall'Austria, i quali non avevano niente a che vedere con gli slavi-venetizzati antecedenti, fedeli sudditi di Venezia. Farli affluire in Dalmazia -e non solo in Dalmazia- a ondate di migliaia alla volta, era un gioco da ragazzi in un periodo in cui per "traslocare" bastava un carrettino o una sporta: per le popolazioni croate, spesso poverissime, avvicinarsi all'Italia e passare le Alpi Dinariche guidate dai loro preti fanatici per raggiungere i fiorenti centri di Dalmazia e delle altre terre irredente ove sistemarsi sotto la protezione e col beneplacito dell'Austria, costituiva un miraggio. Ma sembra proprio che il Tommaseo non volesse a bella posta tener conto di questi amari fatti e della dicotomia fra le due categorie di slavi, di cui solo la seconda poteva ascriversi alla Dalmazia, mentre la prima era d'importazione recente, e dunque impiantatavi dal governo austriaco con lo scopo di controbilanciare ed estromettere via via gli ingombranti e infidi Italiani, riottosi a piegarsi al suo dominio. Ma testardamente il Tommaseo volle far passare per buona la tesi che tutti gli slavi antichi e recenti, dimoranti in Dalmazia e per il solo fatto che dimorassero in Dalmazia, si sentissero dalmati, mentre così non era, tant'è che quelli d'importazione austriaca non tardarono a manifestare i propri veri intendimenti, che consistevano nell'annettere la Dalmazia alla Croazia, e dunque, pretendendo assurdamente che questa fosse sempre stata croata, annullarla in quella sua specifica identità multietnica che il Tommaseo e altri con lui intendevano ingenuamente preservare nella fantomatica "autonomia" di un fantomatico federalismo italiano che il Risorgimento non ebbe mai l'intenzione di costituire.

L'occupazione violenta da parte dei croati, nel 1848, della città di Fiume che era a maggioranza italiana, smonta definitivamente l'altarino delle loro oneste intenzioni, come volevasi dimostrare. E infatti a rigor di logica, se i croati erano la maggioranza in Dalmazia, avrebbero dovuto reclamare solo quella: e invece essi volevano tutto, anche l'Istria, Fiume, Gorizia, Trieste e perfino Udine. E guarda caso proprio da allora nella città di Fiume essi cominciarono ad aumentare sorprendentemente di numero in tutti gli anni seguenti. E gli storici croati sostengono che erano li fin dall'VIII secolo dopo Cristo!

Come capisce anche un bambino, il governo austriaco non solo tollerava e favoriva tutto ciò, ma lo organizzava. Nei suoi piani la sostituzione etnica doveva avvenire in tutte le terre irredente italiane, e infatti dall'esame analitico del censimento fatto dal Regno d'Italia nel 1921 (cioè all'indomani della Grande Guerra, quando rientrammo in possesso di quei territori), la pulizia etnica traspare chiaramente proprio laddove troviamo centri abitati da pochissime decine di italiani, il che ha un senso solo in quanto dà l'idea della "decimazione" operata in danno dei medesimi. Per fare un esempio, il fatto che a Opacchiasella, una piccola contrada sita quasi sul mare a due passi da Gorizia e a un tiro di schioppo da Gradisca, Cervignano e Cormons, luoghi ad alta densità patriottica risorgimentale, vi fossero 7 italiani a fronte di 2117 slavi, indica che quelli erano i 7 italiani rimasti, chissà come, a seguito di una pulizia etnica prossima o remota: e, a meno di non voler credere scioccamente che quei 2117 slavi fossero lì dai tempi delle invasioni barbariche o dei Conti di Gorizia, come stoltamente asserito da qualcuno, va da sé che invece essi erano lì dai tempi dell'occupazione austriaca. Che poi l'eliminazione degli italiani sia avvenuta in un colpo solo poco prima, com'è probabile in quel caso (poichè nel 1848, durante la la guerra d'indipendenza, il generale austriaco Nugent passò l'Isonzo spazzando via i patrioti ribelli che pullulavano in quelle zone), o che sia avvenuta in tempi remoti o futuri con altri mille tipi di sopraffazioni, il risultato non cambia. E ancora: nel paesino di Matteria, che dista da Capodistria una trentina di chilometri verso l'interno, il censimento del 1921 registrava 23 italiani contro 5.058 slavi, mentre a Grisignana, un paesino distante da Capodistria gli stessi chilometri ugualmente verso l'interno, registrava 3.586 italiani contro 406 slavi. A Sanvincenti, ubicata al centro dell'Istria meridionale, 2566 italiani e 539 slavi. A Canfanaro, nell'Istria centrale, 3.638 italiani e 173 slavi: come mai, se, stando a quel che dicono gli storici di parte slava, gli slavi erano lì da mille anni?

C'è dunque una sola spiegazione a codeste discrepanze, e cioè che l'Austria adottò due strumenti per liquidare gli italiani: non solo quello che ben conosciamo dalla copiosa documentazione che possediamo sul Risorgimento, e cioè le cannonate, gli arresti, i processi, i giudizi statari, le esecuzioni capitali e le deportazioni, ma soprattutto quello che non conosciamo, molto più efficace del primo, cioè la sostituzione etnica. La differenza tra la Dalmazia e gli altri territori fu semplicemente che in Dalmazia la sostituzione si compi producendo un ribaltamento netto e globale dei rapporti etnici (a esclusione di Zara), mentre negli altri territori rimase incompiuta e infatti i rapporti etnici si presentavano a macchia di leopardo, come gli esempi sospetti di cui sopra dimostrano, ove paesini distanti solo pochi km l'uno dall'altro avevano proporzioni etniche molto differenti, o dove c'erano migliaia d'italiani laddove avrebbero dovuto esserci migliaia di slavi: e siccome non è possibile che l'Austria rimpinguasse il territorio di italiani, è chiaro che invece lo rimpinguava o cercava di rimpinguarlo di slavi per scrollarsi di dosso gli italiani.

Fin da principio, dunque, la conoscenza della storia di Dalmazia fu inquinata dall'errore e dal travisamento dei fatti, nonostante essa partecipasse al Risorgimento esattamente come le altre regioni, e vi penetrassero sia la Carboneria sia altre sette affini, in particolare collegate alla vicina Grecia, che pure lottava per la propria indipendenza. Fin da principio trapelò incertezza e timidezza nel pretenderla apertamente, tanto che in gran parte dei documenti ufficiali del Risorgimento si parla sempre di Trieste e dell'Istria, e non della Dalmazia, la quale, se in alcuni casi può darsi per sottintesa, in molti altri è trattata come non ci fosse. Di conseguenza, più d'un italiano cominciò a pensare che se ne poteva fare a meno, e che questo poter fare a meno della Dalmazia fosse giustificato dal fatto che in fondo era abitata da slavi più che da italiani, nonchè da genti non ben definite (per esempio i morlacchi e i cici), meticce e rimescolate, di varia origine, balcanica e non balcanica (albanesi, greci, bulgari, serbi, bosniaci, macedoni, ebrei, etc.). A nessuno venne spiegato in modo chiaro come stavano le cose, probabilmente perché non era facile capirlo, e dunque s'incorreva nell'errore di voler dare alla Dalmazia una veste etnica univoca, quando essa fu invece una regione di continui rimpinguamenti, instabile e dinamica sotto il profilo etnico, cosicchè non poteva esser quello il criterio da seguire per attribuirla o meno all'Italia. E tantomeno per attribuirla alla Croazia, che con la Dalmazia non c'entrava assolutamente nulla.

La sua posizione geografica particolare, dispiegata lungo gran parte del versante orientale dell'Adriatico, di fronte all'Italia continentale propriamente detta, e che era stata per secoli il baluardo Veneziano contro i Turchi, eterni nemici di Venezia che tante volte li aveva respinti, l'aveva resa un rifugio e altresì un posto ambito anche per i commerci, mentre il benessere delle sue cittadine marittime, unito alla fertilità delle campagne e all'amenità dei luoghi, aveva attirato un flusso costante di abitatori sempre nuovi (anche dall'Italia medesima), nessuno dei quali portava zizzania e contrapposizioni, automaticamente inserendosi nella pacifica convivenza sotto il Leone di San Marco, sotto l'egida della lingua latina, italiana, e del veneto da mar, che era la lingua ufficiale della Serenissima abitualmente parlata da tutti, tanto che rimase anche dopo l'occupazione austriaca, non solo, ma, essendo una lingua ampiamente compresa nel Mediterraneo, per forza di cose restò nella marineria austriaca (che, com'è noto, si appropriò di quella Veneziana) anche quando l'italiano di derivazione toscana, affermatosi in campo letterario, stava sempre più avanzando. Sotto questo aspetto, la Dalmazia è stata la regione più aperta e inclusiva d'Italia, una porta spalancata all'ingresso di varie genti limitrofe, che, unendosi via via alle preesistenti, assorbite nell'ambiente, mescolate insieme all'ombra dell'unificante civiltà Veneziana, erede di Bisanzio e di Roma, all'ombra delle sue leggi, della sua arte e della sua amministrazione, della sua fama e cultura altissime, effettivamente diedero forma a un coagulo armonico, creando quel carattere regionale specifico dalmata, con tratti suoi propri e orgoglioso di sé, che fece di questa regione una perfetta regione italiana che all'Italia non a caso dette illustri personaggi, a cominciare da quel messer Francesco Fortunio da Zara che fu autore della prima grammatica italiana (Regole grammaticali della volgar lingua) edita in due volumi nel 1516, in pieno periodo Veneziano. Nè si commetta l'errore, seguendo i vaneggiamenti degli odierni predicatori di secessioni e indipendentismi, di ritenere Venezia come un corpus separato dall'Italia (e dei cui possedimenti l'Italia non sarebbe erede, come qualche cicisbeo dei nostri giorni asserisce), il che sarebbe come dire che quando il pisano Galileo Galilei per la prima volta nella storia dell'umanità puntò al cielo il telescopio dal campanile di San Marco, ciò è da considerarsi gloria di Venezia e non già gloria italiana, o che il Canova scolpì la sua magnifica Venere Italica per Venezia e non già pensando alla madre Italia, o che il Palladio edificò le sua splendide ville senza pensare all'Italia, erede della maestà di Roma.

La grammatica di Fortunio prova infatti quanto la Dalmazia fosse italiana. Anche l'astronomo dalmata Ruggero Boscovich, nativo di Ragusa di Dalmazia, di padre bosniaco e madre italiana, è un esempio della dalmaticità (che confluisce inevitabilmente nell'italianità), non collegabile a connotati etnici, troppo fluidi e rimescolati, ma che trova il suo suggello in un sentimento di appartenenza superiore, psicologico e interiore, come sta perfettamente a dimostrare proprio il Boscovitch, che nel 1782 aderì alla Società italiana delle Scienze fondata dall'ingegnere della Serenissima Antonio Maria Lorgna in omaggio all'amore per la comune Patria Italia al di sopra di ogni differenza regionale. L'appropriazione del Boscovich da parte dei croati che l'hanno millantato come una gloria della Croazia, sta al contrario a dimostrare che con lo stesso spirito maldestro e arbitrario basato sulla mistificazione storica e la prepotenza, favorito dalle grandi potenze a cominciare dall'Austria, essi poterono appropriarsi della Dalmazia. A questo proposito è bene ripetere ciò che scrisse lo storico trentino di origine istriana Ernesto Sestan: "L'irredentismo italiano fu pacifico e legalitario. Gli animi potevano essere gonfi di passione, ma non armavano la mano, non trasmodavano in azioni di forza. Si combatteva con armi legali." Il che fu la sua forza, ma anche la sua debolezza, se è vero il detto che "chi pecora si fa lupo lo mangia." Al contrario si comportarono gli slavi, la cui tracotanza e violenza era direttamente proporzionale all'assurdità delle loro pretese territoriali. Del resto, basta dare un'occhiata alla carta geografica dell'attuale Croazia per accorgersi della sua perfetta disarmonia territoriale, e del fatto che Zagabria, capitale del vecchio regno di Croazia vassallo dell'Austria, è situata molto all'interno, e dunque era la capitale di uno stato confinante con l'Ungheria, che non aveva niente a che vedere con la Dalmazia. Ciò nonostante, i croati sono riusciti ad appropriarsene, né basta la sconfitta nella 2a guerra mondiale subita dall'Italia a rendere legale quest'appropriazione, perché essa, come abbiamo ripetuto, si manifestò molto prima di quella data, e il protestare la politica aggressiva dei fascisti che reagivano per difendere gli italiani, è solo un pretesto a cui le anime belle nostrane si compiacciono di credere. Non a caso, nel 1876, nel bel mezzo delle vessazioni anti-italiane, lo storico croato Franjo Racki, in un discorso pubblico, ebbe l'impudenza di croatizzare l'illustre e ben noto storico Veneziano Giovanni Lucio, vissuto nel '600, definendolo il padre della storiografia croata, quando Giovanni Lucio esaltò sempre Venezia e la Dalmazia Veneta, e addirittura collegava la propria discendenza genealogica a una famiglia dell'antica Roma: tutto questo a ennesima riprova che le mire annessionistiche slave, fin d'allora, non si fermavano nemmeno di fronte al ridicolo e alla farsa. Per fortuna, a noi non sono mancati, al contrario, studiosi seri che hanno trattato in modo serio il problema della Dalmazia, ma sono pochi coloro che li conoscono, soprattutto oggi. Non solo il suddetto Giuseppe Praga, storico e linguista di altissima fama, ma anche Ildebrando Tacconi (1888-1973), uno dei maggiori eruditi e storici della Dalmazia, oltre che grande patriota, dalmata lui stesso, nativo di Spalato, scrisse innumerevoli saggi difficilmente contestabili a livello scientifico su questo tema, raccolti poi dal figlio in un'opera omnia, nel 1994. Prima del Tacconi, il patriota e irredentista friulano Pacifico Valussi, nato nel 1813, aveva scritto nel 1871 un volumetto dal titolo "L'Adriatico in relazione agli interessi nazionali dell'Italia", ove finalmente smascherava la bella favola della fratellanza italo-slava cui lui pure in buona fede, come mazziniano, aveva creduto.

Gli Italiani del periodo Risorgimentale, dunque, non avevano affatto chiara la situazione della Dalmazia, pensavano che essa fosse più slava che italiana, e che gli slavi andassero aiutati a costruirsi una nazione, e lo stesso Valussi capì tardi che la fratellanza etnica era una trappola in cui in troppi erano caduti, in quanto gli slavi intendevano arraffare tutta la Dalmazia e cancellarne addirittura il nome annettendola artificialmente alla Croazia con cui non c'entrava assolutamente nulla. Un vero dalmata l'avrebbe mai fatto? Certamente no.

Fu questa difettosa conoscenza della realtà obiettiva a generare l'ignoranza rinunciataria degli Italiani la quale fece inevitabilmente capolino tra le maglie del processo di unificazione nazionale, contribuendo non poco a facilitare il gioco sporco dell'Austria, che in tutta comodità potè procedere, una volta subentrata alla Serenissima, a quella che senza mezzi termini va chiamata col suo nome: sostituzione etnica, da intendersi specificamente come "croatizzazione", non perché i croati abitassero la Dalmazia, ma perché erano particolarmente fedeli (dopo si è vista questa fedeltà...!) agli Asburgo. Si trattò dunque di un vero e proprio sopruso, perpetrato continuativamente nel tempo, a cui l'Italia già duramente impegnata nelle lotte per la sua unità e indipendenza non fu in grado di opporsi, di cui nemmeno s'accorse se non a cose fatte, quando si trovò davanti il fatto compiuto di censimenti che, a sud di Zara, davano una netta maggioranza slava. A questo proposito, vale la pena citare ciò che scrisse lo storico Alessandro Dudan quando fece notare, nelle pagine del suo opuscolo "la Dalmazia è terra d'Italia!" (edito nel 1919), che nel 1900 il censimento austriaco dava solo 1046 italiani a Spalato, mentre la sola società Dante Alighieri annoverava più di 3000 iscritti, ovviamente italiani: da cui naturalmente eran da escludere fanciulli e bambini e anche donne (una famiglia italiana aveva normalmente quattro o cinque figli, e i single erano praticamente inesistenti). Non solo. Ma le cifre ufficiali austriache, proprio perché registrano una diminuzione costante degli italiani in breve volgere di tempo, mancano di spiegare dove finirono questi italiani: si volatilizzarono nell'aria? Se ne andarono? Furono cacciati? Si slavizzarono volontariamente? Furono slavizzati a forza, magari a loro insaputa, da solerti parroci slavofili che ne croatizzavano il nome nei registri, ascrivendoli così all'etnia slava onde accrescerne il numero ufficiale?

Prendiamo un altro esempio: il paese di Comisa, nell'isola di Lissa, nella Dalmazia meridionale. Qui il censimento austriaco del 1880 dava 1197 italiani, di cui, dieci anni dopo, ne rimasero 52. Dove finirono gli altri 1145? La Dalmazia è tutta così: un mondo di "desaparecidos" italiani, la cui sparizione è inversamente proporzionale alla magica apparizione degli slavi, a cui una fortuna sfacciata arride lungo tutto il corso del XIX secolo, cioè guarda caso durante l'occupazione austriaca, tanto da farli proliferare come funghi in tutta la regione, e non solo li. La singolarità di Zara, la città più settentrionale di Dalmazia, dove la pulizia etnica degli italiani non si compì, ragion per cui essa potè definirsi l'isola felice degli italiani di Dalmazia, non può non far sorgere le seguenti domande: Zara si salvò perché in essa confluirono molti fuggitivi dal resto della regione, o perché era a due passi dall'Istria, molto più vicina all'Italia e quindi più protetta di quanto non fossero Spalato e Sebenico? Personalmente ritengo siano valide entrambe le ragioni.

Come abbiamo già accennato, la grande sostituzione fu attuata in tutte le terre irredente, anche a Gorizia e a Trieste, ma non conseguì gli stessi drastici risultati, e basta analizzare i censimenti del Regno d'Italia del 1921, come abbiamo accennato sopra, per rendersene conto. Viceversa si consumò in Dalmazia, laddove era maggiormente al di fuori della vista diretta dei connazionali i quali non si avvidero di ciò che avveniva in quella lunghissima striscia di territorio lunga più di 1000 km., né furono in grado di controllare le sue centinaia di isole e isolette, e dunque furono facilmente indotti a credere la Dalmazia fosse sempre stata abitata da una gran maggioranza di slavi (i fantomatici slavi delle campagne, verosimilmente poveri in canna e ignoranti, che non si sa in che modo avrebbero potuto prendere il sopravvento sui ricchi e colti italiani di città che erano saldamente al comando in tutti gli 84 comuni della Dalmazia), né ci si domandò come, quando e perché ciò sarebbe potuto avvenire, tanto più che lo scontro etnico si produsse invece tra cittadini dentro le città, come Spalato, Traù e Sebenico ben dimostrano, e quindi entro le città costiere in cui gli italiani avrebbero dovuto primeggiare, il che fa a pugni con l'asserzione comunemente accettata che gli italiani fossero concentrati nelle città e gli slavi nelle campagne. Senza dire che lo stesso Giulio Menini, citato all'inizio dell'articolo, raccontò nel suo libro che "i contadini italiani coi classici berretti rossi in testa lo salutarono gioiosamente durante tutto il tragitto in macchina da Spalato a Traù".

C'erano dunque dei contadini italiani? C'erano. E ovviamente speravano, dopo la Vittoria del 1918, che tutta la Dalmazia sarebbe stata annessa all'Italia, se no si sarebbero mostrati tutt'altro che gioiosi.

Dunque furbescamente l'Austria, attuando la rigidissima censura del Metternich basata sul rivolgimento dei fatti, era stata abile a mettere sul tavolo le sue carte, che furono prese per buone, né un'Italia uscita stanca dal Risorgimento e con tanti problemi da risolvere, si soffermò a riconsiderare lucidamente la questione di quella sua lontana regione, questione che si riaffacciò con rinnovata forza alla vigilia della Grande Guerra e immediatamente dopo la fine di questa, per iniziativa dei dalmati stessi i quali capirono che quello era l'ultimo treno che potevano prendere per unire la Dalmazia all'Italia. Ma questo treno, a parte la città di Zara e poco altro, sfuggi loro ancora una volta, determinando l'ennesimo esodo, ragion per cui quando Mussolini tornò in quelle terre nel 1941, gli italiani erano davvero pochi, e fu cosa facile accusarlo di aver occupato terre altrui e aver vessato gli slavi.

Ma entriamo ancora più addentro alla complessa e dolorosa questione che stiamo trattando, nella quale a tutt'oggi si mesta e rimesta, facendola riemergere a tratti come da un oscuro mare di onde tormentate, a riprova che essa non è stata risolta e ancora agita gli animi di chi le si rivolge. La storiografia ufficiale odierna, infatti, soprattutto per motivazioni politiche, si ostina a presentare una versione dei fatti acquietante e convenzionale, che, partendo dai fascisti brutti e cattivi, additati quale causa primigenia del nazionalismo slavo, che invece abbiamo dimostrato esistere fin dalla prima metà dell'ottocento con la precisa mira da appropriarsi di quelle terre, risale indietro nel tempo senza nulla chiarire, anzi perpetuando e rafforzando l'eterno equivoco della Dalmazia slava, il quale equivoco, come s'è detto, ha origini lontane. Nè gli storici attuali si pongono questa semplice domanda: come potè, nel volgere di poco tempo, una regione da secoli Veneta (e dunque italiana) trasformarsi in una regione croata, dove turbe di croati improvvisamente emersi come dal nulla, principiarono a berciare chiassosamente la loro pretesa territoriale insulsa, spaccando vetrine, saccheggiando case, edifici e negozi italiani, malmenando, insultando, sputando addosso agli italiani, e perfino uccidendoli, cacciandoli e imprigionandoli? Dire che ciò fu fatto per decreto ufficiale dell'Austria dal 1866, è troppo poco. E infatti in quel famoso documento ormai citato da tutti gli storici, l'imperatore Francesco Giuseppe ordina di togliere di mezzo "senza riguardo alcuno e con la massima energia" gli "italiani che ANCORA rimangono". Il che significa che il lavoro più grosso era stato fatto prima di quella data: diversamente, non sarebbe possibile che, pur con tutte le sue maligne arti, gli austriaci riuscissero così facilmente a dividere i Dalmati, non sarebbe stato possibile che nel giro di poco avvenisse tutto questo sconquasso in capo a una popolazione per secoli precedentemente coesa nella comune dalmaticità. Tutto ciò non convince, e lascia supporre che l'Austria non solo cominciò ad agire all'indomani della caduta della Serenissima, reprimendo coi cannoni, com'era suo costume, le rivolte che scoppiarono ovunque in una regione legatissima a Venezia, ma provvide fin d'allora a reiterati insediamenti di nuovi slavi, ragion per cui le turbe che si misero in azione per reclamare l'inesistente croaticità della Dalmazia, portandovi il subbuglio e la violenza, erano gente nuova, fatta entrare nel XIX secolo, e che dunque con la storia plurisecolare della Dalmazia non aveva niente a che vedere. Era gente proveniente dal Regno di Croazia e Slavonia, la cui sopraffazione e scapito degli Italiani potè molto meglio compiersi grazie alla conformazione geografica di quella regione, più facilmente vulnerabile e abbordabile, e ove più agevolmente vi si potevano usare le maniere forti e nasconderle.

Non a caso, facendo il parallelismo con Trieste che in cinque secoli di dominazione asburgica mai divenne austriaca, non si capisce come Spalato, invece, sarebbe diventata croata nel giro di pochi decenni, abitata da una maggioranza di gente esagitata che reclamava con veemenza l'unione a Zagabria, la quale Zagabria dista da Trieste poco più di 200 Km, mentre da Spalato ne dista 408; e meno ancora facendo il parallelo con Gorizia, che, pur ubicata a ridosso del Regno di Slavonia e Croazia, seguì la stessa sorte di Trieste e di fatto si dimostrò sempre italiana, nonostante gli sloveni fossero a un passo da lei e massicciamente inseriti dall'Austria nel tessuto cittadino, presentandosi addirittura al censimento del 1910 -probabilmente taroccato-, come il 75% della popolazione. Se davvero erano così tanti, certo non si sprecarono per farlo sapere e tantomeno per difendere l'Austria, il che fa capire che perfino gli slavi di nuovo conio non è detto si portassero come quelli di Dalmazia: in particolare, Gorizia si trovava in un crocevia di fuoco, molto influenzata da Udine, distante 50 km., centro di forte patriottismo italico, e a 30 km da Palmanova, altro centro nevralgico del Risorgimento nazionale, sede di un'eroica resistenza agli austriaci. Ma più ancora la situazione del Friuli orientale, in particolare delle valli del fiume Natisone situate all'estremo lembo nord-orientale del Friuli, serve a chiarire una volta per tutte che c'erano due specie di slavi: gli slavi-veneti, che in via spontanea e naturale passarono da Venezia all'Italia e dunque parteciparono attivamente al Risorgimento, e gli slavi-austriaci, i quali, non sentendosi veneti perché non erano nati ai tempi della Serenissima bensì vi erano stati trapiantati dall'Austria, entrarono in aperto conflitto con gli italiani, diventando i portatori di quell'arcigno livore ben noto al Risorgimento. Ebbene, nel Friuli orientale, la partecipazione inoppugnabile al Risorgimento delle popolazioni parlanti slavo delle quattro valli del Natisone costituisce la prova vivente di questa dicotomia fra le genti di origine slava, perché, laddove rimasero gli slavi-veneti, non si ebbe nessun emergere delle protervie anti-italiane che invece costellarono infelicemente la storia della Dalmazia divenuta austriaca al punto da soverchiare, infine, l'invisa etnia italiana. Pertanto, la spiegazione che di questo fenomeno dà certa storiografia ricorrente, secondo la quale, al comparire dei nazionalismi ottocenteschi, l'elemento slavo di Dalmazia concentrato nelle campagne e numericamente maggioritario si ridestò (ma le campagne dell'interno erano tutt'altro che estese e popolose, basta guardare la carta geografica, ove le montagne sono a due passi dal mare ed erano abitate dai morlacchi e dai cici che non erano slavi!), accendendosi improvvisamente della fiamma dell'appartenenza etnica e decidendo addirittura di togliere di mezzo gli italiani fino a farli scomparire, non sta in piedi. Non sta in piedi anche perché, pur ammettendo che questi slavi di campagna fossero una folla numericamente soverchia, non si vede come avrebbero potuto avere la meglio sui colti e benestanti italiani di città. Non sta in piedi perché non avvenne negli altri territori posti parimenti sul medesimo confine, laddove il Regno di Croazia e Slavonia, che non contava praticamente nulla ma a cui i bercianti slavi di Dalmazia del periodo austriaco si sentivano idealmente legati, avrebbe dovuto sottomettere etnicamente anzitutto l'Istria, Trieste, il Friuli orientale e le città di Fiume e di Zara, mentre invece in codesti luoghi l'italianità si conservò maggioritaria, scomparendo, al contrario, in misura inversamente proporzionale alla vicinanza col Regno di Croazia e Slavonia, il che è un'incongruenza logica. Tanto più che si levò da questo Regno, dalla sua capitale Zagabria, almeno fin dal 1837, l'appello nazionalista rivolto a tutti gli slavi del sud di unirsi nel comune panslavismo, e non già dalla Dalmazia, come sarebbe stato logico se quivi fosse sempre vissuta quella gran maggioranza di slavi-croati di cui si favoleggia. Nè quest'appello, di per sé solo, spiega l'ondata inarrestabile di odio anti-italiano che durò fino alla seconda guerra mondiale e oltre, e, sotto forme più velate ma non meno insidiose dura ancora oggi, e ha portato alla pressochè completa estromissione degli italiani da una delle loro regioni più belle e più affezionate, e alla trasformazione di quei bellissimi paesi e città italiane in gusci vuoti, senza più identità: un odio che non poteva assolutamente albergare negli slavi della Serenissima. Che fossero gli Italiani a estromettere gli slavi dai territori che erano appartenuti stabilmente a Venezia fin dal XV secolo, come abbiamo visto non era possibile, giacchè i veri Dalmati, a cominciare dal famoso Niccolò Tommasco nativo di Sebenico, ebbero sempre una visione della Dalmazia inclusiva di tutti i suoi abitanti, indipendentemente dalla loro origine etnica prossima e remota, tanto più che, in una regione così aperta, tale origine non era facile da individuare, essendo spesso data dalla commistione di varie etnie incrociatesi nel tempo, e, concordemente con questa visione, essi pensarono e agirono sempre avendo in mente l'unione dei Dalmati, giammai la loro divisione. A maggior ragione, dunque, non è credibile che, al contrario, gli slavi di Dalmazia che fossero davvero dalmati rabbiosamente s'attaccassero all'origine etnica reclamando l'esclusiva titolarità di quel territorio. Senza contare che molte altre etnie vivevano in Dalmazia, compresa perfino una minoranza di turchi. Ecco spiegato il perché uno stuolo di patrioti dalmati con cognomi chiaramente slavi o d'altra origine straniera prese parte al Risorgimento italiano, morì e si sacrificò per esso. Ecco spiegato il fatto irrefutabile che la Carboneria -e poi la Giovine Italia- penetrarono a fondo anche in Dalmazia, come dimostrano i numerosi processi con centinaia di condanne a morte che ivi si svolsero. C'è poi un'altra considerazione da opporre: la lotta per il possesso della Dalmazia a scapito degli italiani, ebbe come protagonisti principalmente i croati, cioè una parte minoritaria della famiglia degli slavi del Sud, croati il cui piccolo Regno, vassallo dell'Austria, era ubicato a nord-est, ai confini con l'Ungheria, in posizione distaccata dalla Dalmazia, i diretti confinanti della quale erano in realtà i bosniaci, cosicchè avrebbero dovuto esser questi gli eventuali "pretendenti" dell'amena regione che si stendeva lungo l'Adriatico, tenendo anche conto che il Regno di Bosnia, fino all'occupazione ottomana, era ben più importante di quello di Croazia. Ma, a riprova di quanto abbiamo detto, non avvenne nulla di tutto ciò e non furono i bosniaci a reclamare la Dalmazia, divisa anche geograficamente dal mondo balcanico dal baluardo delle Alpi Dinariche. Ciò nonostante, la Dalmazia finì per diventare la "terra promessa" dei croati, e sull'onda di questi, di tutti gli slavi del sud, quando, constatate le incertezze dell'Italia Risorgimentale e la debolezza dell'Italia della Grande Guerra di fronte alle potenze dell'Intesa, essi afferrarono famelicamente il portentoso affare rappresentato dallo sgraffignare la bella regione che in nessun modo avevano plasmato e sulla quale non potevano avanzare diritti: diritti che furono loro artificiosamente riconosciuti dalla Francia, dall'Inghilterra e dagli Stati Uniti, che dopo la prima guerra mondiale crearono a tavolino il Regno dei serbi dei croati e degli sloveni, nonostante questi, lungi dall'essere quell'affiatata famigliola che si voleva far credere, si odiassero ferocemente tra loro, come la Storia ha pienamente dimostrato. Essi però si trovarono pienamente d'accordo nell'arraffare la Dalmazia, e ciò fu bastante per arrecare all'Italia un danno enorme cui neanche il Fascismo riuscì a ovviare, e di cui scontiamo le conseguenze ancora oggi.

Per concludere: perché la Dalmazia è e resta- italiana nella memoria e nella Storia? Perché la grande forza attrattiva di Roma, di Bisanzio e di Venezia calamitò fortemente a sé genti di tutte le etnie, plasmandole in unum e facendo della Dalmazia una regione dell'Italia, periferica e lontana, ma pur sempre italiana.

Lungi dall'essere conformata com'è oggi, l'identità slava era quantomai rarefatta per non dire inesistente, e dunque si lasciò plasmare e assorbire dall'etnia dominante, superiore culturalmente ed economicamente, che la inglobava a sé, di cui aveva assunto anche la lingua: il che avvenne precisamente in Dalmazia nel corso dei secoli, fin da quando, nel '400, la Serenissima Repubblica di Venezia, dopo un periodo di alti e bassi, guerre e sortite varie, non conquistò definitivamente l'intera regione imprimendovi quell'impronta indelebile che a tutt'oggi, seppur morta perché svuotata della vita italiana, permane visivamente nei monumenti residui e nel paesaggio. In altre parole, in Dalmazia non esisteva affatto una coscienza identitaria slava e tantomeno croata, né essa potè saltar fuori inopinatamente da quella parte di dalmati di origine slava vissuti tranquillamente sotto la Serenissima: ne abbiamo spiegato i vari perché.

Ma il discorso sulla Dalmazia non termina qui, esso continua e deve continuare, ce lo impone il dovere di far luce sulla Storia, lo dobbiamo a tutti i dalmati che hanno sofferto, sono morti o furono costretti a fuggire ben prima che avvenisse ciò che nel giorno del ricordo si celebra come la tragedia delle foibe e dell'esodo. Molto prima di allora, proprio in Dalmazia con particolare intensità presero avvio l'usurpazione, l'inganno e la sopraffazione che poi, nel 1943-45, avrebbero conosciuto l'atroce epilogo finale che commemoriamo ogni 10 febbraio.

Gli arditi entrarono a Pola

Sembra la fotografia da un altro mondo e in effetti lo è: sono gli Arditi che entrano vittoriosi nella città di Pola, il 5 novembre 1918, sfilando davanti all'Arena, fatta costruire sotto l'imperatore Augusto nel I sec.d.c. e poi ampliata dall'imperatore Vespasiano. Chiamata in dialetto istro-veneto “rena”, deriva il suo nome dal latino “arena,” per la sabbia che ricopriva la platea degli anfiteatri Romani.

Il marciare dei militari italiani davanti al leggendario monumento dei Padri conserva tuttora il suo alto valore storico, simbolico e affettivo. Sono uomini che hanno combattuto valorosamente per difendere i sacrosanti confini d'Italia e riscattare i conculcati diritti di un popolo sottomesso da stranieri. Anche se oggi si tende stupidamente a minimizzare e addirittura a giustificare l'occupazione austriaca, edulcorando l'impero asburgico e facendo apparire gli irredentisti italiani come quattro gatti, la realtà era ben diversa. 

Particolarmente devota alla Serenissima cui giurò fedeltà fin dal 1334, la città di Pola dette a Venezia due Dogi: Pietro Tradonico e Pietro Polani. Militarizzata dagli austriaci (su 70.000 abitanti nel 1913, 16.000 erano militari), l'Austria impiegò ingenti somme per organizzarvi e mantenervi il suo costoso Arsenale marittimo, quale base principale della Marina Asburgica, secondo le parole di Francesco Giuseppe: “Pola dev'essere il baluardo della potenza navale dell'Austria”. 

Ma la mattina del 5 novembre 1918, 21 unità italiane della Regia Marina al comando dell'ammiraglio Umberto Cagni entrarono fieramente nel porto, in mezzo alle navi di una flotta sconfitta, innalzando il Tricolore sui mezzi navali requisiti al nemico, che questi, pochi giorni prima, con gesto offensivo e chiari intenti destabilizzanti, aveva trasferito agli slavi. Costoro, facendosi forza dei loro agguerriti comitati, avevano già proclamato il regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni avanzando le solite assurde pretese territoriali che comprendevano tutta l'Istria, la Dalmazia, Trieste, Gorizia e oltre, decisi a perorarle davanti al presidente americano Wilson e ai nostri alleati, già preoccupati di un nostro eccessivo allargamento territoriale. Era un atteggiamento vergognoso, ignobile, che peraltro a Pola sortì ben scarsi effetti, stante i sentimenti della stragrande maggioranza della popolazione. In breve le bandiere jugoslave sparirono, mentre i nostri piantavano il Tricolore sull'anfiteatro Romano e tagliavano le catene che chiudevano il passaggio sotto l'Arco dei Sergi, altro storico monumento Romano della città assieme al Tempio di Augusto.

Era per noi e per Pola il coronamento di un sogno, una grande rivincita e una vendetta per Nazario Sauro, l'eroe istriano impiccato dagli austriaci proprio a Pola. Con orgoglio perciò la torpediniera italiana “4 T.N.”, incaricata di entrare per prima nel porto a imporre la resa agli austriaci, recava ben in vista, incisa sul fumaiolo di prora, questa targa: “In memoria del capitano Nazario Sauro, imbarcato su questa silurante dal 9 gennaio al 29 luglio 1916. Fatto prigioniero il 31 luglio, subì eroicamente il martirio a Pola il 19 agosto 1916.” La caserma di Marina intitolata all'imperatore Francesco Giuseppe venne ben presto con gran soddisfazione reintitolata a Nazario Sauro.

121 anni di dominazione austriaca non avevano fatto diventare austriaca la città, e tantomeno slava, nonostante i recenti rimpinguamenti di croati, come dimostrano i due censimenti, del 1900 e del 1910. 

Domenico Stanich (che nascondeva in casa una stamperia clandestina e sarà il primo sindaco di Pola italiana), Giovanni Grion, Antonio De Berti, Giuseppe Vidali, Giovanni Magnarin, Carlo De Carli, quest'ultimo fondatore di “Pola italiana”, associazione patriottica d'ispirazione mazziniana, sono solo alcuni degli innumerevoli attivisti irredentisti che solo a Pola rischiosamente si batterono per la riunione dell'Istria all'Italia, sopportando ammonimenti, carcere, perquisizioni, esilio, campi di concentramento: quei tristi campi dove, quando i prigionieri erano troppi avviliti, cantavano “Va' pensiero”.

E a proposito di Giovanni Grion, mi preme raccontare un episodio poco conosciuto: irredentista da sempre, per vocazione familiare, come quasi tutti gli Istriani che sognavano l'Istria italiana, morì come volontario durante la Grande Guerra sull'altopiano di Asiago. Nel 1919 il Fascio di combattimento di Pola (formazione embrionale del futuro partito Fascista), dedicò a lui il Gruppo sportivo e calcistico della città, che si chiamò da allora “Grion Pola”, e adottò come divisa una maglia nera con una stella bianca. Se il colore nero si rifaceva al nero degli arditi che indossavano una cravatta nera, istituita dal loro colonnello fondatore Giuseppe Bassi in ricordo del suo illustre avo Pier Fortunato Calvi, impiccato dagli austriaci durante il Risorgimento, il quale appunto indossava una cravatta nera durante l'insurrezione del Cadore a simbolo e ricordo della Carboneria, laddove il nero era il simbolo della fede incrollabile, l'origine della stella bianca è alquanto anomala, perchè deriva dalla bandiera americana: nei primi mesi del 1919, infatti, a causa delle solite questioni con gli slavi che avanzavano pretese e accuse di tutti i generi contro di noi ai comandi Alleati, sbarcò a Pola un contingente di militari americani. Probabilmente per effetto della propaganda anti italiana che imperversava in quel periodo, questi cominciarono a comportarsi in modo arrogante e provocatorio, entrando con prepotenza nei locali, molestando le ragazze davanti ai ragazzi italiani, appiccicando per dileggio banconote italiane sui muri. Inseguiti dagli arditi inferociti fino a bordo delle navi, uno d'essi riuscì audacemente a saltare a bordo e afferrare una bandiera americana, da cui con rabbia strappò una stella che si appiccicò sul petto: un vero gesto ardito che rese ai provocatori pan per focaccia.

Dopo 650.000 morti e una Vittoria che era tornata utile anche agli alleati, ci trovavamo a combattere contro prepotenze di tutti i generi, che culmineranno con il brusco abbandono, da parte del Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, della conferenza di pace di Parigi nel 1919, di fronte all'inaccettabile comportamento di Francia, Inghilterra e Stati Uniti. 

Le fragili basi di quella conferenza, costruite sulle smodate ambizioni e appetiti dei tre Stati di cui sopra, porteranno, come si sa, a una guerra ancora peggiore. Per noi le cose andarono ahimè come sappiamo: il sogno dell'Istria italiana durò 28 anni. A questo proposito giova ripetersi, perché nel ricordo vi è una sorta di immortalità: le genti adriatiche pagarono un alto prezzo, un prezzo ingiusto. La città di Pola, dopo le violenze e prepotenze naziste dall'8 settembre in poi, in cui agli italiani fu lasciata solo l'amministrazione civile, subì 40 giorni di occupazione slava dal 2 maggio al 12 giugno 1945. Quindi gli slavi furon costretti temporaneamente a sloggiare per far posto agli inglesi fino al 15 settembre 1947 quando, in virtù del Trattato di pace, definito “vergognoso” dallo stesso CLN di Pola che ebbe molti partigiani massacrati nelle sue file perchè si rifiutavano di avallare le decisioni comuniste, la città fu consegnata definitivamente agli slavi che occuparono via via tutte le case lasciate vuote dagli italiani, appropriandosi di tutti i loro beni. 

Era la fine di un sogno, iniziato con il Risorgimento all'insegna di una “fede incrollabile”: quella fede che costruì, tra immense difficoltà e sacrifici, l'Italia, e oggi parrebbe morta, ma a cui pochi anni orsono si appellò Denis Zigante, a lungo Presidente dell'Unione degli esuli istriani: “Gli esuli non si aspettano che l'Istria ritorni italiana domani. Ma il sogno che un giorno i confini possano essere modificati con il consenso di tutti, ce lo dovete lasciare.”.

Viva l'Istria, Fiume e la Dalmazia italiane! (M. Cipriano)

“Mi hai gettato nella fossa profonda, in caverne tenebrose, in abissi. Tra i morti è il mio giaciglio.”

“Giustizia e diritto sono la base del tuo trono, grazia e fedeltà precedono il tuo volto.

Beato il popolo che ti acclama, e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto.”

(dal Salmo 87)

Ma non si moriva solo gettati nelle foibe, anzi questo non fu il sistema principale, infatti richiedeva tempo e spostamenti, era scomodo, dunque la maggioranza dei morti italiani, per quanto fosse rilevante il numero d'infoibati, non avvenne per quella causa. 

I nostri connazionali venivano fatti sparire e massacrati in molte altre maniere più spicce e altrettanto sadiche e cruente: a causa delle sevizie, dei lavori forzati, nei campi di concentramento -terribile fu quello di Borovnica, a pochi chilometri da Lubiana, dove tutti i giorni si moriva per stenti, sfinimento, torture e malattie-, mediante impiccagione, strangolamenti, impalamenti, annegamenti, bastonature. Rarissima fu la semplice fucilazione. 

L'ordine era infatti quello di terrorizzare, di sradicare col terrore l'italianità, annientando qualsiasi resistenza onde poter più facilmente e in minor tempo sostituirsi ai legittimi abitanti negli ex territori della Serenissima. Le mire degli slavi risalivano infatti molto indietro nel tempo, fin dai tempi del Risorgimento, com'è ampiamente dimostrato dai documenti e come ho ripetuto più volte: l'arraffamento dei territori italiani era una meta largamente annunciata, bastava aspettare l'occasione giusta per sanzionarlo ufficialmente al cospetto del mondo, occasione che venne con la sconfitta italiana nella 2a guerra mondiale. 

Prima di quella data, a interrompere i sogni jugoslavi furono proprio il Risorgimento, l'Irredentismo e poi la Grande Guerra con la vittoria italiana e il crollo inopinato dell'Austria, all'ombra delle quale i vagheggiamenti slavi di arrivare fino a Udine, Trieste, Gorizia e Cividale avevano già trovato un significativo principio di accoglimento. Crollata l'Austria, non restava che aggrapparsi con ogni mezzo alle potenze vincitrici di Inghilterra, Francia e Stati Uniti, timorose di un allargamento dell'Italia nei Balcani: fu così, da un artificio diplomatico, che nacque il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, poi Regno di Jugoslavia, primo passo per poter accampare ufficialmente a livello internazionale le ben note pretese territoriali contro l'Italia. L'impresa di Fiume fu conseguenza di questo clima avvelenato che si era creato contro il nostro Paese alla Conferenza di pace di Parigi ove si fece carta straccia del referendum con cui Fiume, il 30 ottobre 1918, si era proclamata a larghissima maggioranza per l'annessione all'Italia. Fu risposto dal presidente americano Wilson che “l'Italia doveva fare un gesto di magnanimità e generosità verso gli slavi”, dal primo ministro francese Clemenceau che ”Fiume è la luna”, e dall'ambasciatore britannico in Italia Lord Robert Cecil che “Fiume non l'avrete mai”. Ci vorrebbe un libro solo per elencare le soperchierie e mascalzonaggini di quei giorni contro un ex alleato che aveva lasciato sui campi di battaglia 650.000 morti, al punto che l'ambasciata americana a Roma dovette esser messa sotto protezione dal governo per il moltiplicarsi di sempre più violente manifestazioni patriottiche in difesa dei nostri diritti in Adriatico.

Perciò, chiunque cerchi in qualsiasi modo, com'è avvenuto in questi giorni in una sede istituzionale di Roma che ha preferito lavarsene le mani, di ridimensionare il fenomeno, rimpicciolire i numeri e confutare tesi acclarate gabellando per vera la fola che le malefatte slave contro gli italiani avvennero come conseguenza dei crimini fascisti, dev'essere ritenuto responsabile di quel che dice di fronte a Dio e agli uomini. Coprire la realtà che a molti non aggrada coi crimini fascisti è una mistificazione della Storia, anche perchè, "last but non least", la furia dei titini colpì diversi rappresentanti del CLN, molti partigiani, e perfino comunisti che non volevano piegarsi alle pretese slave, e si avventò contro i propri stessi connazionali che non si allineavano a Tito. 

Nella gloriosa isola di Cherso, lunga 65 km, larga fra i 2 e i 22 km, la più vicina all'Italia delle isole del Quarnero, donatasi a Venezia fin dal lontanissimo anno 999 d.C. e che a suo tempo si era ribellata agli austriaci nascondendo in mare il Leone di San Marco dopo averlo tolto dalla Torre dell'Orologio per preservarlo dai vandalismi degli invasori, tutti si proclamavano italiani e il Tricolore venne issato ancor prima che vi giungessero i nostri soldati a bordo del cacciatorpediniere Stocco (Francesco Stocco era stato un grande patriota calabrese del Risorgimento) il 10 novembre 1918, accolti nel tripudio generale. 

Coraggiosamente, Cherso si ribellò poi all'avanzata dei titini che, il 20 aprile 1945, con mezzi da sbarco inglesi vi approdarono decisi a impossessarsene e fare piazza pulita dei suoi abitanti. Il maestro elementare Stefano Petris si mise a capo di qualche centinaio di volontari armati ingaggiando selvaggi combattimenti strada per strada, casa per casa, finestra per finestra, porta per porta, angolo per angolo: una ribellione la cui fine purtroppo era scontata, e di cui nulla ovviamente s'è saputo perchè non poteva certo essere pubblicizzata nel clima italiano del dopoguerra nè in seguito dai ben noti mistificatori della Storia. 

Gli slavi sapevano di che stampo erano gli abitanti di Cherso, esperti agricoltori, allevatori e pescatori, e facevano gola le migliaia di capi di bestiame (bovini, ovini e suini) che possedevano, poi tutti trasportati in jugoslavia. Le case saccheggiate, i ribelli catturati, i leoni di San Marco scalpellati e oltraggiati, e il 97% degli abitanti fuggiti in Italia: fu questo il tragico bilancio. 

Stefano Petris, più fortunato dei suoi compagni, fra botte, insulti e sputi, venne tradotto a Fiume per essere interrogato. Fu quindi condannato alla fucilazione, eseguita il 10 ottobre 1945. Alla vigilia della morte lasciò queste righe alla moglie Giannina, scritte sulle pagine bianche del libro “l'imitazione di Cristo”:

 “Non piangere per me. Non mi sono mai sentito così forte come in questa notte di attesa che è l'ultima della mia vita. Tu sai che io muoio per l'Italia. Siamo migliaia e migliaia di istriani gettati nelle foibe, trucidati e massacrati, deportati in Croazia, e falciati giornalmente dall'odio, dalla fame, dalle malattie, sgozzati iniquamente. Aprano gli occhi gli italiani e puntino i loro sguardi verso questa martoriata terra istriana che è e sarà italiana.

Se il Tricolore d'Italia tornerà, come spero, a sventolare anche sulla mia Cherso, bacialo per me, assieme ai miei figli. Domani mi uccideranno: non uccideranno il mio spirito né la mia fede. Andrò alla morte serenamente e come il mio pensiero sarà rivolto a Dio che mi accoglierà e a voi che lascio, così il mio ultimo grido, fortissimo, più forte delle raffiche di mitra, sarà “Viva l'Italia!”.