La Resistenza del Piave fece rifiorire le speranze. Si arrivò alla fine dell'ottobre 1918 quando il potente esercito imperiale era ormai in sfacelo. Il 29 ottobre giunse la notizia della disfatta austriaca a Vittorio Veneto. Cominciarono a ritornare i soldati senza mostrine e con le divise in disordine. Nelle case di Pisino c'era un gran fermento. Nelle scuole le lezioni avvenivano in modo molto irregolare.
C'era comunque in tutti una preoccupazione, bisognava non perdere tempo, era necessario far sentire le proprie legittime aspirazioni per evitare che i croati astutamente giocassero le carte che possedevano. Si stava osservando quello che succedeva a Trieste e si attendevano notizie, perchè si comprendeva che le sorti dell'Istria avrebbero seguito quelle del capoluogo giuliano. Si pensò subito a preparare bandiere tricolori. La prima che apparve fu quella esposta il 29 ottobre per due ore da Andrea Pellaschiar su una finestra della casa Sandri. Il podestà slavo Kurelic vigilava.
I croati ritenevano fondate le loro proteste perchè l'ammiraglio Horty aveva consegnato a Pola tutta la flotta in mano a un loro comitato costituito quando era giunta la notizia della sconfitta dell'Austria. Le autorità austriache si sentivano ormai esautorate e quindi si era ingaggiata una gara tra la popolazione italiana e gli elementi croati, che aspiravano ad impossessarsi dell'Istria.
I cittadini si mobilitarono spontaneamente spinti dalla necessità di mostrare chiaramente la propria italianità. Bisognava coprire le case di tricolori. Mancava la tela adatta, ma si riuscì ugualmente nell'intento: il gabinetto di chimica del Ginnasio fornì il colore rosso e quello verde, e le lenzuola offerte spontaneamente dalla popolazione furono immerse nella tintura bollente in grandi caldaie collocate nel cortile del teatro. La sede del circolo "Democratica" dove erano state trasportate una decina di macchine da cucire, fu allora trasformata in una fabbrica di bandiere. Signore e signorine univano le strisce di tela e ne uscivano coccarde, nastri e tricolori di tutte le misure. Gli uomini preparavano le aste ricavandole da rami e fusti d’albero.
I gendarmi ormai non avevano più il coraggio d'intervenire. Il professor Valeriano Monti incaricò la signora Ivancovich di preparare una grande bandiera con lo stemma sabaudo dandole come modello una piccola bandiera scolorita, conservata con cura per tanti anni e sottratta alle perquisizioni dei gendarmi. Di sera si organizzavano cori e la banda preparava il suo programma di inni patriottici. Sotto la guida del maestro Niederkorn, giovani e anziani con una bandiera in mano marciavano in fila cantando attorno alla sala del Circolo per essere pronti ad andare incontro ai soldati italiani. All'uscita si incontravano con gli slavi nella casa del popolo posta di fronte; erano pure essi occupati in preparativi. Si scambiavano frasi di scherno: "Con le vostre bandiere puliremo i vetri della casa del popolo" gridavano i croati. Gli Italiani rispondevano: "E con le vostre lucideremo le scarpe dei bersaglieri". L'atmosfera si faceva sempre più tesa e per le strade avvenivano degli scontri. I Pisinoti gridavano: "Andè a casa vostra, tornè a Lubiana!".
Il 1 Novembre ci fu una gara a chi arrivava per primo ad issare sul campanile la bandiera italiana o quella croata. Doveva simboleggiare il possesso della città, ma il podestà Kurelic mal sopportò di vedere il tricolore alto nel cielo e dopo due ore diede l'ordine di farlo ritirare.
L'Austria era ormai crollata e i suoi simboli non avevano nessuna ragione di esistere. Il 2 novembre vennero raccolte le insegne con le aquile bicipiti e i ritratti dell'Imperatore dagli uffici e dagli appalti di tabacco. Quelle di legno furono bruciate in piazza, quelle di ferro furono fatte accatastare nella barella dei morti e una gran folla plaudente le accompagnò fino alla Foiba per scaraventarle nell'abisso. I gendarmi avevano perduto ogni autorità e per mantenere l'ordine pubblico, nello stesso giorno, si costituì la Guardia Nazionale con elementi italiani e croati, che si distinguevano dai colori della coccarda che portavano all'occhiello.
Il 2 novembre i Pisinoti presero l'iniziativa di formare anche un Comitato presieduto dall'avvocato Costantini e costituito dai cittadini più in vista. Infieriva purtroppo la spagnola, che portò molti lutti, ma neanche questo malanno non rallentò né smorzò l’entusiasmo.
Il 3 novembre giunse la notizia dello sbarco dei bersaglieri a Trieste. Si temeva un colpo di mano dei croati e il giorno 4 si recò a Trieste una delegazione capeggiata dall’avvocato Costantini per parlare con il Generale Petitti di Roreto e sollecitare l’invio di truppo. La risposta arrivò per telefono: la sorte di Pisino era assicurata, sarebbero arrivati i bersaglieri.
I cittadini dovettero attendere quattro lunghissimi giorni. Finalmente giunse l’8 novembre. Il cielo era grigio e cadeva una fitta pioggia. Verso le 11 del mattino l’avvocato Costantini corse in Piazza della Legna gridando: “I vien, I vien!”.
Dalle finestre del pianterreno del Circolo, per far più presto, saltarono in istrada, fra i primi, Giuseppe Coverlizza, Giuseppe Uicich, Ettore Almani e Ferruccio Camus; con un’enorme bandiera di 24 metri quadrati di superficie ed un’asta grossa come un palo del telegrafo si diressero verso il campanile. Servendosi di un paranco la sollevarono fino alla cella campanaria e lasciarono sventolare il tricolore, mentre Ferruccio Camus con 21 colpi di campana dava l’annuncio alla città che la Redenzione era imminente. Pisino allora si imbandierò tutta immediatamente. Anche sul Municipio dove risiedeva dal 1886 un podestà croato, fu issato il tricolore. L’arrivo dei Bersaglieri era stato comunicato per le 13.30 e due volte i Pisinoti accorsero inutilmente ad incontrarli.
Ma verso le 15 i cittadini tutti con coccarde, bandiere e fiori si avviarono con la banda in testa alla stazione ferroviaria. Quando arrivò il convoglio il sole apparve tra le nubi e l’unica campana suonava a festa. I Bersaglieri, che forse non si aspettavano tanto entusiasmo, furono letteralmente tirati giù dal treno dai cittadini, che sembravano impazziti dalla gioia. La compagnia comandata dal Capitano Cucco e da due altri ufficiali faticò a schierarsi sotto la pensilina.
L’avv. Costantini con un memorabile discorso porse il saluto a nome della cittadinanza e la signorina Maria Baccarcich offrì un mazzo di fiori al comandante. Il capitano annunciò di prendere possesso della città a nome del Re d’Italia. Usciti sul piazzale trovarono un plotone di 20 soldati bosniaci superstiti del presidio austriaco di stanza a Pisino che presentò le armi. L’ufficiale consegnò la sciabola al Capitano Cucco e ricevette l’ordine di ritirarsi in caserma in attesa di disposizioni. Si formò il corteo, preceduto da Giuseppe Coverlizzi, Ettore Almani fasciato di tricolore e Giuseppe Uicich con una grande bandiera. Seguiva la banda, poi il Capitano Cucco con la spada sguainata e dietro i Bersaglieri e i cittadini che cantavano, inneggiavano piangevano: un entusiasmo incontenibile.
Per la Lunga ed il Viale raggiunsero il centro, attraversarono il Corso, arrivarono sotto le mura del Castello, e ritornarono nella Piazza della Legna.
Sulla casa di Ettore Uicich, l’eroe caduto sul Calvario, sventolava la bandiera scolorita che egli aveva nascosto prima di partire per il fronte. I Bersaglieri erano circondati dai Pisinoti che avevano strappato dai loro cappelli tutte le piume e si erano fatti regalare le stellette. Poi i soldati si sparpagliarono nelle case. Il maresciallo Carnevale accompagnato da Ettore Almani incollò sui muri delle case il manifesto che annunciava la presa di possesso di Pisino da parte dei soldati italiani.
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