Capodistria è una città storicamente italianissima, in cui sino alla seconda guerra mondiale gli slavi furono quasi totalmente assenti nel centro urbano e presenti soltanto come esigua minoranza nel contado. Le orde dei partigiani di Josip Broz procedettero però alla fine del conflitto mondiale e negli anni successivi ad una violenta e sanguinaria pulizia etnica contro gli italiani, riducendo la comunità ad un gruppo sparuto e spaurito di superstiti discriminati ed osteggiati.
Fra pochi giorni in questa città, in stato di occupazione da parte di stranieri da oltre 70 anni, si festeggerà pubblicamente il brutale assassinio di tre ragazzi. Il loro linciaggio avvenuto il 15 maggio 1921 con botte, sassi, bastonate, colpi di falce e pistolettate viene spacciato dalla vulgata politica locale come una “rivolta antifascista”, la cosiddetta “rivolta di Maresego”.
L’episodio è un esempio da manuale di come una vicenda storica conosciuta e ricostruibile con esattezza in tutte le sue dinamiche fondamentali viene alterata e capovolta da una propaganda ideologica.
Dovevano svolgersi nel 1921 elezioni nazionali in Italia e fra i vari raggruppamenti si era formata la coalizione detta del Blocco Nazionale, a cui partecipavano il Partito Popolare Italiano, il Partito di Ricostruzione Nazionale, l’Associazione Nazionalista Italiana, il Partito Nazionale Riformatore, i Fasci di Combattimento. Non si trattava quindi di una coalizione “fascista” in senso proprio, perché il partito fascista seppure presente era soltanto uno fra i molti.
Le elezioni in Venezia Giulia si tennero in un contesto di violenza politica, nel quale si distinguevano i nazionalisti slavi ed i comunisti, due categorie che in quella regione spesso coincidevano. Ambedue si resero responsabili ripetutamente di aggressioni ai danni dei loro avversari politici, servendosi in questo di gruppi paramilitari organizzati ed armati, avendo a disposizione ingenti arsenali con fucili, pistole, bombe a mano. Il terrorismo slavo, che insanguinò con omicidi ed attentati la Venezia Giulia per molti anni, si era già rivelato negli incidenti del 13 luglio 1920 a Trieste. Ad un comizio organizzato per protestare contro l’assassinio di marinai italiani a Spalato, dove svolgevano un’operazione di assistenza umanitaria alla popolazione, un estremista slavo pugnalò a morte un italiano di soli 19 anni, il cuoco Giovanni Ninì. Una folla furente cercò allora di assaltare il Narodni Dom, la cosiddetta casa della cultura dei nazionalisti slavi che già sotto il dominio asburgico si era rivelata un covo di estremisti violenti. Dalle finestre dell’edificio furono lanciate bombe a mano ed esplosi colpi di pistola, cosicché l’ufficiale italiano che comandava il reparto incaricato di proteggere il Narodni Dom dalla popolazione indignata cadde mortalmente ucciso. Seguì quindi una sparatoria contro il nido dei terroristi, che provocò un incendio alla sedicente “Casa della cultura”. Ma questo fu soltanto il più noto degli eventi di sangue provocati da facinorosi appoggiati dalla vicina Jugoslavia, che nutriva ambizioni imperialistiche verso la Venezia Giulia e persino il Friuli.
A Maresego il 15 maggio del 1921 un gruppetto di 11 giovanissimi del Blocco nazionale, ivi recatosi senza alcun intento di fare del male ma soltanto per affiggere manifesti elettorali, fu assalito da una massa di violenti d’estrema sinistra, che gli spararono addosso fucilate e gli scagliarono contro una fitta sassaiola. Vistosi attorniati da un’orda di malintenzionati che cercavano di ucciderli, i giovani gettarono un petardo su di un cespuglio ed esplosero alcuni colpi di pistola in aria per cercare di spaventare la folla, poi si diedero alla fuga inseguiti. Tre di loro, Giuseppe Basadonna, Giuliano Rizzatto, Francesco Giachin, furono raggiunti e brutalmente ammazzati: Basadonna, un sedicenne si era nascosto, ma fu scovato, trascinato all’aperto ed ucciso; Giacchin fu trucidato a sassate; Rizzato, già rimasto ferito alla testa, fu braccato per centinaia di metri mentre tentava di scappare ed ammazzato con alcuni colpi di fucile sparati a bruciapelo. Tassini, che era già rimasto ferito al capo, al collo ed al petto da una scarica di pallini, ricevette nella fuga un colpo di pistola, poi una pesante sassata che lo fece crollare a terra. Gli assalitori lo calpestarono, rompendogli costole, lo lapidarono, infine se ne andarono credendolo morte. Tassini invece sopravvisse e fu il principale testimone d’accusa al processo, anche se rimase invalido per tutta la vita. Contro gli assassini, che erano sia italiani, sia slavi, si tenne successivamente un regolare processo.
Questi, in estrema sintesi, i fatti di Maresego. Come si vede, non si trattò di una “rivolta antifascista” ovvero di una risposta difensiva ad immaginarie “violenze fasciste”. Un minuscolo gruppetto di attivisti del Blocco nazionale, composto da vari partiti, fu assalito e non assalitore, aggredito unicamente perché si era recato in un sobborgo abitato per lo più da estremisti di sinistra e per affiggere manifesti. I giovanissimi militanti erano armati, precauzione consueta nel clima bollente della campagna elettorale del 1921, ma evitarono intenzionalmente di servirsi delle armi per ferire i loro aggressori e cercarono solo di spaventarli. Al contrario, costoro agirono per uccidere ed ammazzarono senza alcuna esigenza tre ragazzi e storpiarono a vita un quarto, lasciandolo vivo solo perché sembrava ormai deceduto.
A posteriori, nel secondo dopoguerra, i nazionalisti slavi e comunisti assieme cercarono di giustificare il sanguinoso linciaggio di Maresego imbastendo su di esso una retorica mistificatoria e stravolgendo completamente gli eventi. Fu uno dei modi con cui furono creati dei “miti fondativi” al fine specifico di legittimare la conquista, la pulizia etnica e l’annessione di Capodistria alla Jugoslavia ed il suo successivo passaggio alla neonata Slovenia.
Sui fatti di Maresego esiste l'ottima analisi di Valentina Petaros nel suo saggio "1918-1921. Fuoco sotto le elezioni".
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