giovedì 2 novembre 2023

TESTIMONIANZE: STEFANO PETRIS E GLI EROI DI CHERSO E OSSERO

La mia Cherso era bellissima, con le sue strette calli veneziane, i campielli nascosti e le piazzette… Le “ciacole” erano lievi e volavano come note in un minuetto veneziano tra una vecchia finestra bifora ed un antico portale in bianca pietra d’Istria…e poi i sentieri sassosi, gli ulivi argentei e i mille profumi, salvia, timo, elicriso...”


Chi parla è Gigliola Salvagno, esule da quell’isola del Quarnaro.


Si ferma un attimo e poi riprende: “Le mura, i palazzi, le rive e le vie sono lì, immutabili come le lasciammo settant’anni fa, ma senza anima perché un paese è vivo solo se è amato come noi lo amavamo, da sempre. Ora le case sono silenti e accigliate, nell’aria si ode una lingua dura senza armonia, quelli che ci hanno sostituiti non sono suoi figli… Non potrò mai dimenticare il male che ci hanno fatto. L’arrivo delle truppe partigiane di Tito, il 20 aprile 1945 è stampato dentro di me come una fotografia: dai volti tirati della nostra gente e dalle voci che sussurravano cose strane e terribili capii che il mondo nel quale eravamo vissuti serenamente da secoli stava inesorabilmente e incredibilmente cambiando”.


Quel 20 aprile fu davvero terribile.


I titini erano sbarcati sull’isola, sotto Verin, alle prime ore del mattino, trasportati dai gommoni degli inglesi che il giorno prima l’avevano pesantemente bombardata. 


Il primo scontro si ebbe a Ossero, presidiata da 36 tedeschi, quindici dei quali caddero in combattimento: gli altri furono fucilati sul posto. 


A Lussinpiccolo, invece, la piccola guarnigione tedesca si arrese quasi subito. Qui i titini eressero l’indomani una specie di altare sulla piazza, con un crocefisso al centro e due ritratti ai lati, di Stalin e di Tito.


A Neresine i partigiani irruppero verso le 9.30 ed attaccarono in forze il presidio italiano, difeso da 28 uomini della Xª MAS, armati solo di mitra e bombe a mano. Esaurite le munizioni si arresero.


Il marò Mario Sartori, piuttosto che consegnarsi ai titini, si suicidò con l’ultimo colpo della sua pistola. Gli altri 27, fatti prigionieri, furono prima rinchiusi nella scuola elementare e poi fatti marciare scalzi, per 25 kilometri, su una strada sassosa, fino a raggiungere Ossero: qui vennero prima portati nella residenza del parroco, quindi al cimitero dove furono costretti a scavare due fosse a ridosso del muro, una piccola e una grande, nelle quali finirono gettati dopo essere stati fucilati.


Di quella strage vi era la testimonianza di un pescatore, Giovanni Balanzin, che così raccontò: “Io e mio papà avevamo calato la rete in località Scaline, abbiamo poi lasciato la barca in Vier. La mattina del 22 aprile alle ore 6, mentre andavamo a recuperare la barca, a Vier incontrammo quattro titini. L’ufficiale ci chiese in slavo dove fossimo diretti. Ma non capivamo. Tra loro c’era una milite che parlava un po’ di italiano e così l’ufficiale ci fece accompagnare. Passando vicino al cimitero, il partigiano disse: “Gli italiani pregavano la Santa Croce e piangevano”. Noi non dicemmo niente. Poi, al ritorno, disse di nuovo: “Là dietro ci sono gli italiani”, dietro il muro nord del camposanto… Sul muro del cimitero si potevano vedere i fori dei proiettili della mitragliatrice. Si vedono tutt’oggi”.


Il capitano Federico Scopinich, di origini lussiniane, dedicò anni di ricerche alla vicenda e nel 2008 riuscì a far porre una lapide sul muro del cimitero ed a far benedire e consacrare la terra sotto la quale riposavano i 27 marò.


Nel maggio del 2019, Onorcaduti ha riesumato i loro resti che, a novembre, sono stati traslati al Sacrario dei Caduti d’oltremare a Bari. 


Ma torniamo ad allora.


Anche Cherso era attaccata: a difenderla, con un eroismo da leggenda, un maestro di lettere con i suoi 90 volontari, il tenente Stefano Petris, capo della Compagnia autonoma “Tramontana”, quella che nel giugno ’44 aveva resistito ai tedeschi ingaggiando una battaglia armata quando avevano preteso di ammainare il tricolore per far posto alla loro bandiera.


Circa 4.600 partigiani titini avevano accerchiato Cherso dal primo mattino: attaccarono prima attraverso il Prato e per la via del Torrion ma furono respinti. A metà mattina i tedeschi, che erano 200, accettarono una proposta di resa e abbandonarono le loro posizioni sul lato meridionale della città.


Petris, allora, con un pugno di suoi volontari andò a riprendere le posizioni lasciate sguarnite e riuscì a fermare gli assalitori. I titini iniziarono quindi ad incendiare le case e ad avanzare nel centro. Il comandante continuò la sua battaglia, nonostante fosse stato ferito una prima e poi una seconda volta. Gli cadde accanto Silvio Tomaz, mitragliere, che aveva difeso il palazzo comunale: ferito, fu portato a morire davanti a casa sua. Spirò dicendo: “Mio Dio, quanto sangue… Viva l’Italia!”.


I soldati chersini combattevano casa per casa, davanti agli occhi dei figli, delle mogli, dei loro vecchi. Stefano Petris non trattò la resa e con suoi volontari, rimasti ormai in venti, scelse il sacrificio fino alla fine.


Verso sera il gruppo di valorosi, arroccati nella scuola elementare del Prato, era allo stremo. Petris, ferito per la terza volta, ordinò allora ai suoi di lasciarlo e di ritirarsi nelle proprie case.


A quel punto gettò la pistola, ormai scarica, e si arrese.


Appena catturato, un ufficiale yugoslavo propose di fucilarlo sul posto. Ma il suo eroismo aveva stupito anche gli occupatori: un maggiore russo, che stava coi titini, cercò di convincerlo a passare con loro, promettendogli non solo di salvargli la vita ma anche di riconfermargli i gradi di ufficiale nell’esercito rosso. Rifiutò sdegnosamente.


Due giorni dopo lo fecero passare prigioniero attraverso la città. La vide per l’ultima volta con la morte nel cuore. Lo fecero salire su una barca che partì alla volta di Fiume. Lì lo buttarono in carcere ferito, senza cura alcuna. Una piaga divenne purulenta e, quando chiese di essere medicato, un secondino gli rispose: “Ma a che ti serve? Tanto devi morire…”


In queste condizioni, nel mese di luglio, venne processato e condannato a morte: l’accusa fu di “resistenza ai liberatori”.


L’11 dicembre 1945, a guerra ampiamente finita, fu fucilato nei pressi del cimitero di Sussak. 


Nel carcere di Fiume, la notte prima di morire, Stefano Petris affidò al suo compagno di cella, Sergio Buzzi, il suo testamento, una lettera alla moglie, scritta sui fogli bianchi sgualciti dell’“Imitazione di Cristo” che teneva sempre con sé: “Non piangere per me. Non mi sono mai sentito così forte come in questa notte di attesa, che è l'ultima della mia vita. Tu sai che io muoio per l'Italia. Siamo migliaia di italiani, gettati nelle foibe, trucidati e massacrati, deportati in Croazia, falciati giornalmente dall'odio, dalla fame, dalle malattie, sgozzati iniquamente. Aprano gli occhi gli italiani e puntino i loro sguardi verso questa martoriata terra Istriana che è e sarà Italiana. Se il tricolore d'Italia tornerà, come spero, a sventolare anche sulla mia Cherso, bacialo per me, assieme ai miei figli. Domani mi uccideranno. Non uccideranno il mio spirito, né la mia fede. Andrò alla morte serenamente e come il mio ultimo pensiero sarà rivolto a Dio che mi accoglierà e a voi, che lascio, così il mio grido, fortissimo, più forte delle raffiche dei mitra, sarà: “Viva l’Italia!”.


(dal libro di R. Menia “10 Febbraio. Dalle Foibe all’Esodo, 2020)


Cherso italiana


Il martirio di Norma Cossetto

Norma era una splendida ragazza di 24 anni di Santa Domenica di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l'Università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i comuni dell'Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo "L'Istria Rossa" (Terra rossa per la bauxite).


Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone. Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici.


Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, quindi gettata nuda nella Foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani. Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio urla e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udì, distintamente, invocare la mamma.


Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate.


Emanuele Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite di armi da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri. Norma aveva le mani legate in avanti, mentre le altre vittime erano state legate dietro. Da prigionieri partigiani, presi in seguito da militari italiani istriani, si seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti.


La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier. Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l'ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima,nell'attesa angosciosa della morte certa. Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all'alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra.


“Voleva parlare con il professor Marchesi della sua tesi di laurea – ha detto Paola Del Din – perciò Norma Cossetto ha chiesto se poteva passare davanti al gruppo che aspettava il docente, dato che doveva prendere la corriera per ritornare in Istria e l’abbiamo assecondata poi, giorni dopo, abbiamo saputo della sua fine tragica e indecente”. Del Din, classe 1923, ha aggiunto che: “chi si ostina a negare questi fatti, sbaglia perché gli errori vanno riconosciuti, non va bene portare avanti l’odio per colpire la memoria degli infoibati. Bisogna parlarne, accettare e comprendere, abbiamo sbagliato tutti, ma è necessario andare avanti”.


— Paola Del Din, partigiana e insegnante italiana, nota durante la Resistenza con il nome di battaglia di "Renata", medaglia d'oro al valor militare.



«Norma

sguardo  

che illumina l’azzurro del cielo

mente

aperta verso il mondo

cuore

pronto a vivere e donare



Norma

fiore

sradicato dalla terra rossa d’Istria

sorriso

sprofondato nella nera voragine d’odio

strazio indicibile

innocenza violata

vita spezzata



Norma

Giovane maestra di vita

testimonianza di coerenza

coraggio per chi resta

memoria perenne

dolore che non si può rimarginare



Ti sentiremo nel profumo del tuo mare

Ti sentiremo tra le pietre riarse della tua Istria

Ti rivedremo, esuli in Cielo,

tra le braccia amorose del Padre».

La triste storia della dimenticata Dara Čok, violentata ed uccisa a Trieste dai partigiani slavo comunisti

Dora Čok nasce a Longera, alla periferia est di Trieste, il 12.9.1924. È una bella ragazza, semplice e fa la casalinga.


Il 3 maggio 1945, all'inizio della terribile occupazione jugoslava della città giuliana, viene arrestata nella sua abitazione dai partigiani titini Francesco Marušić ed Alberto Gruden (soprannominato Blisk), e tradotta nella caserma di San Giovanni, dove venne successivamente visitata dalla sorella Amalia. La notte del 5 maggio venne prelevata dalla citata caserma dai partigiani Francesco Marušić, Alberto Gruden, Vladislao Ferluga e Danilo Pertot (tutti appartenenti alla minoranza slovena della provincia di Trieste) e portata in un bunker vicino alla foiba denominata Pozzo di Gropada.


La colpa, per la quale Dora venne arrestata, era quella di non aver ceduto alle pretese sessuali del citato Danilo Pertot, che era un suo cugino nonché esponente del Comitato Esecutivo Antifascista Italo-sloveno che comandava in quei giorni a Trieste.


Nel bunker, Dora venne denudata, picchiata e violentata ripetutamente dai quattro partigiani, poi ancora viva, con le braccia legate al corpo con cinghia e filo spinato (particolari, questi, stabiliti dall'autopsia eseguita sul suo cadavere nell'agosto 1946), fu precipitata nel vicino abisso.


La madre della ragazza, dopo lunghe ed infruttuose ricerche della figlia, nella primavera dell'anno seguente quando Francesco Marušić ricompare in licenza, lo affrontò decisamente per sapere la sorte della figlia. Costui, probabilmente tormentato dal rimorso, raccontò tutta la vicenda dicendole che Dora era stata uccisa dal cugino Danilo Pertot e gettata nella foiba di Gropada.


Tale versione, ripetuta davanti agli avvocati incaricati dai famigliari di Dora, fece iniziare l'inchiesta giudiziaria che portò al ritrovamento dei cadaveri di cinque persone nella foiba.


Il processo che seguì davanti alla Corte d'Assise di Trieste si concluse con la condanna all'ergastolo dei suoi assassini.



La sezione della Foiba "Pozzo di Gropada" (profondità 64 m).

2 settembre 1951: una guardia confinaria jugoslava uccide a colpi di mitra due triestini in cerca di funghi

Si tratta di Pierina Panicari ved. Bolletti, di anni 50, e Vittorio De Pompeo, di anni 54, due gitanti triestini che si erano recati a funghi nella boscosa zona di Draga S. Elia, nel Comune di San Dorligo della Valle, ed avevano inavvertitamente varcato la linea di demarcazione tra la Zona A del Territorio Libero di Trieste, amministrato dal Governo Militare Alleato, e la Zona B amministrata dalla Jugoslavia.


Per questo futile motivo una guardia confinaria jugoslava aprì il fuoco su di essi e uccise a bruciapelo entrambi.


La notizia suscitò allora molto scalpore in città e a Roma, alla Camera dei Deputati, l'onorevole Giovanni Tanasco depositò una interrogazione scritta al Ministro degli Affari esteri (nella foto la trascrizione del testo e la risposta scritta).



mercoledì 1 novembre 2023

Lettera del Viceré Eugenio di Beauharnais all’Imperatore contro il distacco di Istria e Dalmazia dal Regno d’Italia

Sire! Il ministro Aldini mi fa conoscere, come fosse intenzione di V. M. che l'Istria e la Dalmazia più non appartenessero al suo Regno d'Italia.

Ella già comprese la Dalmazia fra le Provincie Illiriche, ma l'Istria, già veneziana, ne era stata eccettuata. Ed in proposito di quest'ultima provincia, mi permetterò di far riflettere alla M. V.: 1° com'essa formi un dipartimento organizzato a modo degli altri dipartimenti del Regno, e che questa organizzazione ebbe luogo in seguito alla riunione al Regno delle provincie già venete; 2° come il Regno tragga dall'Istria la maggior parte del sale di suo consumo; 3° come infine cavi dalle sue foreste tutto il legname di costruzione. Tali foreste furono in ogni tempo conservate ed amministrate con grandissima cura, giacchè, senza i mezzi che forniscono, riuscirebbe impossibile ogni costruzione navale a Venezia. Potrei anzi notare a V. M. che, avendole gli Austriaci trascurate l'ultimo anno che le possedettero, ci trovammo a Venezia nel più grande imbarazzo, e abbisognò severissima vigilanza perché si disponessero e si fornissero all'Arsenale i mezzi d'eseguire i lavori, cui si diè mano ne' tre anni passati.

Prego la M. V. di darmi i suoi ordini per quanto riguarda il messaggio che è a farsi al Senato d'Italia, sia che la Dalmazia soltanto rimanga unita al Regno, o che anche l'Istria continui ad appartenergli.


Dalle Memorie del Regno d'Italia, del Principe Eugenio (Collana di Storie e Memorie contemporanee diretta da Cesare Cantù), Milano, 1865, vol. VI, p. 34-35. 

Poesia L'arena di Pola

Salve, vecchia Arena

Eretta su lieve colle,

vestigia di antico romano splendore,

orgoglio dei figli tuoi;

ma son spariti,

li ha spazzati via

l’immane tagedia.



Tu rimani per sempre

maestosa, imperterrita a sfidare i secoli.



Il nome tuo ha un valore grande,

sei il testamento muto, ma severo

dei diritti dei tuoi figli traditi,

segnati dalla malasorte.



Portiamo nel nostro cuore

la tua superba immagine,

i brillanti spettacoli canori

sotto il manto di tremule stelle,

l’incontro di tante memorabili serate,

il rimpianto di un tempo che non ritorna.


“ERNANI INVOLAMI ALL'ABORRITO AMPLESSO!” (Maria Cipriano)

Non bisogna essere degli esperti di Storia del Risorgimento per sapere quanto pregnante fu l'influsso dell'opera lirica Verdiana sugli stati d'animo e la passione patriottica che ispirò e guidò i personaggi e gli eventi che portarono alla riunificazione nazionale. Le opere del maestro di Busseto costituiscono si può dire un filo rosso bollente che attraversò tutto il Risorgimento dall'inizio alla fine. Non che gli altri musicisti italiani ne fossero estranei: anche dalle loro opere, infatti, si estrapolavano con facilità significati, similitudini, inni e parole che infiammavano gli animi dei patrioti d'Italia, indipendentemente dal fatto che fossero intenzionali (come spesso erano) o casuali. Senza dire del maestro siciliano Vincenzo Bellini che fu carbonaro, anche il bergamasco Gaetano Donizetti d'accordo con il suo librettista infilò qui e là nelle sue opere parole allusive o che facilmente potevano essere interpretate come un incitamento alla lotta e alla ribellione contro gli stranieri e i tiranni che opprimevano l'Italia, come accadde a Palermo al teatro Carolino con la sua opera la “Gemma di Vergy”, dove, alle parole “mi toglieste e core e mente, Patria e libertà” il pubblico proruppe in alte grida e acclamazioni all'Italia e alla libertà, e l'opera non potè proseguire fino a quando la prima donna Teresa Parodi non comparve in scena brandendo il Tricolore. Benchè esteriormente Donizetti facesse mostra di disinteressarsi a tutto ciò che riguardava il Risorgimento, si sa invece che mise a disposizione il suo recapito di Parigi proprio per permettere ai patrioti di comunicare tra loro. Fingendo di scrivere al maestro Donizetti che ufficialmente si disinteressava all'Unità d'Italia (e addirittura era diventato il maestro di cappella della Corte asburgica), molti mazziniani poterono così agevolmente scambiarsi messaggi e informazioni in un periodo in cui la Polizia degli Stati pre-unitari violava sistematicamente la corrispondenza privata dei sospetti. Nè si pensi che per essere sospetti fosse necessario aver combinato chissà cosa: lo stesso Cavour era considerato un elemento sospetto e una testa calda, e la polizia asburgica gli negò il permesso di recarsi nel Lombardo-Veneto per un viaggio culturale ben prima che cominciasse a operare per l'Unità d'Italia.


Perciò, alle anime belle di oggi che, invase da nostalgismo, s'illudono che negli Stati pre-unitari ci fosse qualcosa di lontanamente paragonabile alla libertà, bisogna far sapere che la cappa asfissiante dell'ancien regime di cui l'Austria era paladina, opprimeva gli stessi nobili i quali, per quanto privilegiati fossero, non erano affatto insensibili alle istanze di libertà, indipendenza, progresso ed emancipazione, come i fatti del Risorgimento hanno pienamente dimostrato. Proprio le vicende personali del conte di Cavour, e la sua appassionata ma infelice relazione con la marchesa genovese Anna Schiaffino Giustiniani che per amore di lui si suicidò gettandosi da una finestra di palazzo Lercari a Genova (attualmente in via Garibaldi), ci fanno capire quanto la costrizione di una società chiusa a ogni istanza innovatrice, pesasse sugli spiriti più intelligenti e più colti, sensibili e generosi, come quello della marchesa, anima fiera di patriota mazziniana, lei stessa corriere di messaggi segreti della Giovane Italia, ma soffocata in una prigione dorata di regole e convenzioni vetuste, in un matrimonio di comodo, tollerata dai familiari per le sue idee sovversive che pur tanta importanza ebbero per la formazione di Cavour e la sua successiva maturazione politica, quando egli capì che bisognava impegnarsi a tempo pieno per l'Italia con metodo, sagacia e prudenza, al contrario dei mazziniani che spesso andavano allo sbaraglio. Peraltro anche Mazzini, come Cavour, sacrificò totalmente all'Italia la sua vita privata, rinunciando a sposarsi e farsi una famiglia.

 

Tornando a Verdi, di tutte le sue opere l'Ernani è quella che più incise sul Risorgimento per il suo significato che ben poteva rappresentare le ambasce degli italiani oppressi che s'identificavano nell'eroe Ernani, privato del titolo e dei beni, a cui un Re malvagio aveva ammazzato il  nobile padre, e dunque era costretto a una vita penosa di proscritto e congiurato. Egli diverrà il simbolo più noto del Risorgimento, e il suo mitico “cappello con la piuma”, indossato dal tenore alla prima dell'opera al teatro la Fenice di Venezia il 9 marzo 1844 e dagli insorti calabresi nello stesso anno, sarà il segnacolo della sovversione risorgimentale, vietato negli stati pre-unitari da norme severe che a ben poco serviranno.


A Trieste la rappresentazione dell'Ernani venne proibita per sempre dal 18 novembre 1888. A quella data, infatti, quando al Politeama Rossetti il soprano intonò la celebre aria “Ernani! Ernani! Involami all'aborrito amplesso!”, nel teatro scoppiò un tumulto patriottico di tali proporzioni che il teatro stesso fu sgomberato a forza dalla Polizia e l'Ernani bandita definitivamente dalle programmazioni. Chiaramente l'”aborrito amplesso” era la dominazione asburgica.


I tempi cambiano, cambiano le situazioni, dirà qualcuno. La Storia si riferisce al passato, non al presente e tantomeno al futuro. Eppure, ogni qual volta noi ricordiamo il passato, riverbera sul presente una luce particolare che lo arricchisce o dovrebbe arricchirlo, in quanto solo se legato al passato il presente acquista senso e spessore: è il passato che dà significato al presente. E certi ideali dovrebbero rimanere immutati nella sostanza, mentre il fatto che siano mutati o peggio ancora stravolti, non può non suscitare sgomento e scoraggiamento: se si perde la rotta, infatti, sarà difficile che la barca giunga a un degno approdo. E infatti questa barca italiana sbanda da tutte le parti.


A questo proposito, una ragazzina della provincia di Trieste mi ha scritto una settimana fa esprimendomi la sua grande amarezza per il fatto che a scuola le hanno detto che Trieste non è mai stata italiana, anzi per 500 anni fu austriaca a seguito di un atto spontaneo di dedizione della città  agli Asburgo risalente al 1382: pertanto gli irredentisti hanno accampato pretese infondate, per non dire che erano 4 gatti esaltati; lei con un'altra sua compagna avrebbero voluto reagire, ma non sapevano cosa obiettare, e dunque ha chiesto a me la confutazione di questi assunti.


Anzitutto comincerò col dire che questi assunti volgari non hanno nulla di diverso dalle “ciarlate” che solitamente capita di udire in giro, secondo le quali “il Risorgimento fu di pochi (e figuriamoci l'Irredentismo)”, “Trieste non è mai appartenuta all'Italia”, “i Triestini non erano neanche italiani”, che è come dire che anche i siciliani, i sardi, i veneti, eccetera, non furono mai italiani, ed estendendo tale falso assioma, neanche i brasiliani sarebbero brasiliani dal momento che il Brasile per 322 anni fu dei portoghesi e mai esistette, neanche astrattamente, prima di rendersi indipendente nel XIX° secolo, vieppiù essendo popolato da etnìe le più varie, quasi tutte importate da fuori. Ora: chi oserebbe dire che i brasiliani non esistono e sono un'artificiosa invenzione poggiante sul nulla? Si beccherebbe come minimo un pugno in faccia. Dunque, il falso assioma che “Trieste non è mai appartenuta all'Italia” è talmente sciocco di per sé che pare impossibile qualcuno possa prenderlo per vero, senza dire che, ben diversamente dal Brasile, l'Italia esisteva eccome, e far finta che non esistesse e ignorarne la trimillenaria storia, o, peggio, ignorare che i suoi abitanti ignorassero questa Storia e la ignorassero gli stranieri, è una menzogna bella e buona. Trieste non era in condizioni dissimili dal resto della penisola, ciascuna delle cui membra sparse “non era mai appartenuta all'Italia” solo nel senso che, dopo l'invasione dei longobardi nel VI° secolo d.C., era forzatamente venuta meno un'entità statuale unitaria italiana: tutto qui. In realtà i longobardi cercarono di ricostituire codesta unità della penisola di cui erano consapevoli perfino loro (e infatti i Re longobardi si proclamavano Re d'Italia e dei Romani), ma si trovarono davanti il Papato il quale fu per secoli il principale ostacolo alla riunificazione, potendo sempre contare sull'intervento di poderosi eserciti stranieri. In tal modo al nostro Paese vennero tarpate le ali, perse molte occasioni, e gli fu impedito per secoli di riunire le dolenti e sparse membra.


Dunque, dal punto di vista sia logico che storico dire che “Trieste non è mai appartenuta all'Italia”, vale quanto dire che la Val d'Aosta o le Marche o la Sicilia non sono mai appartenute all'Italia: cioè si tratta di un'affermazione insensata. Eppure capita sovente di trovare  una campionatura di questo bel florilegio di sciocchezze tra alcuni storici contemporanei, la cui propensione politico-ideologica, unita alla smania di far contento qualche politico locale, fa loro proferire idiozie come questa: “l'Irredentismo fu tutta propaganda e costruzione di un falso mito”. Evidentemente era un “mito” alquanto condiviso, se solo nel 1866, alla vigilia della 3a guerra d'indipendenza, proprio da Trieste furono inviati proclami al Re Vittorio Emanuele II chiamandolo “Re e liberatore”, ove si affermava solennemente che “tutta la terra italiana dev'essere libera dallo straniero.”  Indirizzi e memoriali furono inviati al Presidente del Consiglio Bettino Ricasoli e poi ad Agostino Depretis, nonché al ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta, invocando l'appoggio alla causa di Trieste italiana. Soltanto in quell'anno, il 1866, si susseguirono i messaggi provenienti dalla città di San Giusto diretti a uomini di Stato e di governo del Regno d'Italia nonchè ai fratelli Italiani, affinchè  “non perdessero dagli occhi e dal cuore la causa degli infelici fratelli che sono divisi dalle gioie del riscatto...” Furono forse mai smentiti e contraddetti da qualcuno? Non risulta. Anzi: i Triestini risposero in modo sdegnato al generale piemontese Alfonso La Marmora che aveva osato avanzare qualche  dubbio sull'italianità di Trieste. Se dunque nella città fosse albergato un cuore austriaco e gli irredentisti fossero stati 4 gatti che rappresentavano solo sé stessi, sarebbero dovuti fioccare fior di proclami contrari, indignati e offesi, da sciorinare in faccia all'Europa da parte della cittadinanza. Non accadde nulla di tutto questo: non solo non si ha notizia di alcun proclama di risposta, ma il cuore austriaco di Trieste chiaramente non esisteva (e oggi esiste solo nell'immaginazione di certi esaltati che odiano l'Italia), anzi esisteva un cuore italiano che mai si lasciò defraudare dei suoi legami ideali con la matrice, compresa la lingua: e dire che l'Austria aveva avuto 500 anni di tempo per troncare questo legame, ma in questi 500 anni l'etnìa di lingua tedesca riuscì a raggiungere a malapena il 5% della popolazione cittadina, al punto che Francesco Giuseppe, resosi conto del pericolo incombente del Risorgimento, dovette correre velocemente ai ripari immettendovi a tutta forza gli sloveni, e il 12 novembre 1866 il Consiglio dei ministri austriaco emanò la  famosa direttiva in cui ordinava di estirpare “con energia e senza riguardo alcuno” gli italiani che ancora rimanevano nei territori dell'Impero in cui per secoli erano vissuti, proprio lui usando il termine che tutti naturalmente usavano: “italiani”, appunto.


Ma andiamo ancora indietro nel tempo, visto che a qualcuno piace tanto citare il presunto atto di dedizione di Trieste all'Austria risalente al 1382, forse perchè ignora i precedenti atti di dedizione fatti dalla stessa città a Venezia, sicuramente molto più autentici di quello fatto all'arciduca Leopoldo III d'Asburgo, in quanto se ne conservano i documenti, mentre di quello a Leopoldo si conserva guarda caso solo la risposta del medesimo. Nella solenne dedizione fatta a Venezia nel 1368 si fa addirittura riferimento a precedenti atti di dedizione di Trieste alla città di San Marco risalenti al 1200. Tutto ciò ha portato storici come Pietro Kandler, grande studioso di tutti i documenti relativi all'Istria e a Trieste, a concludere che l'atto di dedizione non sia mai esistito e dunque non si tratti di una dedizione spontanea della città bensì dell'accettazione di una resa, che è ben altro. Ma anche volendo considerarlo autentico per benevola faciloneria, sarebbe comunque insufficiente a tenere in piedi la tronfia impalcatura dell'austriacantismo, in quanto è molto strano che una città che s'era data “spontaneamente” agli austriaci nel 1382, qualche decennio dopo fosse ridotta a uno sparuto e miserevole borgo di poche migliaia di abitanti perchè la più parte venne massacrata dagli austriaci stessi per annientare la fazione fioloveneziana che evidentemente era molto di più di una fazione. E da questo sfacelo (la “destruziòn de Trieste”, come fu chiamata), la povera città si risollevò molto tardi e gradualmente, non prima dell'avvento dell'imperatrice Maria Teresa (1717-1780).


Ecco perché a questa Trieste immemore di oggi va ricordato ciò che era ieri, quando come un martello percuoteva il fianco dell'Austria, già esasperata da un Risorgimento che nel 1866 le aveva tolto Udine e il Veneto. Con ciò Francesco Giuseppe sperava d'aver pareggiato i conti, e che Trieste, Fiume, l'Istria, la Dalmazia e il Tirolo del Sud avrebbero accettato, volenti o nolenti, di rimanere tagliate fuori dalla naturale madrepatria Italia. E sperò invano. Le dimostrazioni d'italianità si moltiplicarono e inalberarono, e con esse gli arresti, i processi, le condanne, i sequestri di giornali, le chiusure coatte di centri sociali sospetti, come la “Società Triestina di ginnastica”, palestra d'irredentismo ben più che di esercizi fisici, o la “Società Pro Patria” il cui nome parla da solo e fu sciolta più volte, assieme alla “Società del Progresso”, la “Società Minerva”, la “Società Operaia”, la “Lega nazionale (che al suo nascere nel 1891 già contava 10.000 iscritti), per non parlare degli scioglimenti del Consiglio municipale, come avvenne il 22 novembre 1878, allorchè il consiglio stesso si rifiutò di stanziare una somma per ricevere con onore i soldati austriaci reduci dalla campagna di Bosnia.


Se oggi a Trieste sfilano i titini, gli slavofili, le stelle rosse jugoslave e qualche neoasburgico che ha dimenticato che il Carnevale cade a febbraio, e in certe scuole si fa di tutto per sviare i nostri ragazzi, la colpa è soprattutto nostra: nel momento stesso in cui non reagiamo, infatti, il nemico avanza, imponendo le sue istanze e facendosi largo grazie al silenzio e all'ignavia. Nella smemoratezza della Storia, gli avventurieri sgomitano sempre più spavaldi. La Storia stessa è destinata a essere mangiata dal tempo se gli storici vengono meno al proprio dovere: essi hanno una grande responsabilità di fronte alle generazioni perchè sono i trasmettitori della memoria, dalla quale dipende anche l'autostima di un popolo, il suo ritrovarsi e riconoscersi attorno a principi comuni che sono tramandati dal passato e costituiscono le basi della sua identità, nonostante la temperie di tutti i travagli storici.