“La mia Cherso era bellissima, con le sue strette calli veneziane, i campielli nascosti e le piazzette… Le “ciacole” erano lievi e volavano come note in un minuetto veneziano tra una vecchia finestra bifora ed un antico portale in bianca pietra d’Istria…e poi i sentieri sassosi, gli ulivi argentei e i mille profumi, salvia, timo, elicriso...”
Chi parla è Gigliola Salvagno, esule da quell’isola del Quarnaro.
Si ferma un attimo e poi riprende: “Le mura, i palazzi, le rive e le vie sono lì, immutabili come le lasciammo settant’anni fa, ma senza anima perché un paese è vivo solo se è amato come noi lo amavamo, da sempre. Ora le case sono silenti e accigliate, nell’aria si ode una lingua dura senza armonia, quelli che ci hanno sostituiti non sono suoi figli… Non potrò mai dimenticare il male che ci hanno fatto. L’arrivo delle truppe partigiane di Tito, il 20 aprile 1945 è stampato dentro di me come una fotografia: dai volti tirati della nostra gente e dalle voci che sussurravano cose strane e terribili capii che il mondo nel quale eravamo vissuti serenamente da secoli stava inesorabilmente e incredibilmente cambiando”.
Quel 20 aprile fu davvero terribile.
I titini erano sbarcati sull’isola, sotto Verin, alle prime ore del mattino, trasportati dai gommoni degli inglesi che il giorno prima l’avevano pesantemente bombardata.
Il primo scontro si ebbe a Ossero, presidiata da 36 tedeschi, quindici dei quali caddero in combattimento: gli altri furono fucilati sul posto.
A Lussinpiccolo, invece, la piccola guarnigione tedesca si arrese quasi subito. Qui i titini eressero l’indomani una specie di altare sulla piazza, con un crocefisso al centro e due ritratti ai lati, di Stalin e di Tito.
A Neresine i partigiani irruppero verso le 9.30 ed attaccarono in forze il presidio italiano, difeso da 28 uomini della Xª MAS, armati solo di mitra e bombe a mano. Esaurite le munizioni si arresero.
Il marò Mario Sartori, piuttosto che consegnarsi ai titini, si suicidò con l’ultimo colpo della sua pistola. Gli altri 27, fatti prigionieri, furono prima rinchiusi nella scuola elementare e poi fatti marciare scalzi, per 25 kilometri, su una strada sassosa, fino a raggiungere Ossero: qui vennero prima portati nella residenza del parroco, quindi al cimitero dove furono costretti a scavare due fosse a ridosso del muro, una piccola e una grande, nelle quali finirono gettati dopo essere stati fucilati.
Di quella strage vi era la testimonianza di un pescatore, Giovanni Balanzin, che così raccontò: “Io e mio papà avevamo calato la rete in località Scaline, abbiamo poi lasciato la barca in Vier. La mattina del 22 aprile alle ore 6, mentre andavamo a recuperare la barca, a Vier incontrammo quattro titini. L’ufficiale ci chiese in slavo dove fossimo diretti. Ma non capivamo. Tra loro c’era una milite che parlava un po’ di italiano e così l’ufficiale ci fece accompagnare. Passando vicino al cimitero, il partigiano disse: “Gli italiani pregavano la Santa Croce e piangevano”. Noi non dicemmo niente. Poi, al ritorno, disse di nuovo: “Là dietro ci sono gli italiani”, dietro il muro nord del camposanto… Sul muro del cimitero si potevano vedere i fori dei proiettili della mitragliatrice. Si vedono tutt’oggi”.
Il capitano Federico Scopinich, di origini lussiniane, dedicò anni di ricerche alla vicenda e nel 2008 riuscì a far porre una lapide sul muro del cimitero ed a far benedire e consacrare la terra sotto la quale riposavano i 27 marò.
Nel maggio del 2019, Onorcaduti ha riesumato i loro resti che, a novembre, sono stati traslati al Sacrario dei Caduti d’oltremare a Bari.
Ma torniamo ad allora.
Anche Cherso era attaccata: a difenderla, con un eroismo da leggenda, un maestro di lettere con i suoi 90 volontari, il tenente Stefano Petris, capo della Compagnia autonoma “Tramontana”, quella che nel giugno ’44 aveva resistito ai tedeschi ingaggiando una battaglia armata quando avevano preteso di ammainare il tricolore per far posto alla loro bandiera.
Circa 4.600 partigiani titini avevano accerchiato Cherso dal primo mattino: attaccarono prima attraverso il Prato e per la via del Torrion ma furono respinti. A metà mattina i tedeschi, che erano 200, accettarono una proposta di resa e abbandonarono le loro posizioni sul lato meridionale della città.
Petris, allora, con un pugno di suoi volontari andò a riprendere le posizioni lasciate sguarnite e riuscì a fermare gli assalitori. I titini iniziarono quindi ad incendiare le case e ad avanzare nel centro. Il comandante continuò la sua battaglia, nonostante fosse stato ferito una prima e poi una seconda volta. Gli cadde accanto Silvio Tomaz, mitragliere, che aveva difeso il palazzo comunale: ferito, fu portato a morire davanti a casa sua. Spirò dicendo: “Mio Dio, quanto sangue… Viva l’Italia!”.
I soldati chersini combattevano casa per casa, davanti agli occhi dei figli, delle mogli, dei loro vecchi. Stefano Petris non trattò la resa e con suoi volontari, rimasti ormai in venti, scelse il sacrificio fino alla fine.
Verso sera il gruppo di valorosi, arroccati nella scuola elementare del Prato, era allo stremo. Petris, ferito per la terza volta, ordinò allora ai suoi di lasciarlo e di ritirarsi nelle proprie case.
A quel punto gettò la pistola, ormai scarica, e si arrese.
Appena catturato, un ufficiale yugoslavo propose di fucilarlo sul posto. Ma il suo eroismo aveva stupito anche gli occupatori: un maggiore russo, che stava coi titini, cercò di convincerlo a passare con loro, promettendogli non solo di salvargli la vita ma anche di riconfermargli i gradi di ufficiale nell’esercito rosso. Rifiutò sdegnosamente.
Due giorni dopo lo fecero passare prigioniero attraverso la città. La vide per l’ultima volta con la morte nel cuore. Lo fecero salire su una barca che partì alla volta di Fiume. Lì lo buttarono in carcere ferito, senza cura alcuna. Una piaga divenne purulenta e, quando chiese di essere medicato, un secondino gli rispose: “Ma a che ti serve? Tanto devi morire…”
In queste condizioni, nel mese di luglio, venne processato e condannato a morte: l’accusa fu di “resistenza ai liberatori”.
L’11 dicembre 1945, a guerra ampiamente finita, fu fucilato nei pressi del cimitero di Sussak.
Nel carcere di Fiume, la notte prima di morire, Stefano Petris affidò al suo compagno di cella, Sergio Buzzi, il suo testamento, una lettera alla moglie, scritta sui fogli bianchi sgualciti dell’“Imitazione di Cristo” che teneva sempre con sé: “Non piangere per me. Non mi sono mai sentito così forte come in questa notte di attesa, che è l'ultima della mia vita. Tu sai che io muoio per l'Italia. Siamo migliaia di italiani, gettati nelle foibe, trucidati e massacrati, deportati in Croazia, falciati giornalmente dall'odio, dalla fame, dalle malattie, sgozzati iniquamente. Aprano gli occhi gli italiani e puntino i loro sguardi verso questa martoriata terra Istriana che è e sarà Italiana. Se il tricolore d'Italia tornerà, come spero, a sventolare anche sulla mia Cherso, bacialo per me, assieme ai miei figli. Domani mi uccideranno. Non uccideranno il mio spirito, né la mia fede. Andrò alla morte serenamente e come il mio ultimo pensiero sarà rivolto a Dio che mi accoglierà e a voi, che lascio, così il mio grido, fortissimo, più forte delle raffiche dei mitra, sarà: “Viva l’Italia!”.
(dal libro di R. Menia “10 Febbraio. Dalle Foibe all’Esodo, 2020)
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