mercoledì 1 novembre 2023

“ERNANI INVOLAMI ALL'ABORRITO AMPLESSO!” (Maria Cipriano)

Non bisogna essere degli esperti di Storia del Risorgimento per sapere quanto pregnante fu l'influsso dell'opera lirica Verdiana sugli stati d'animo e la passione patriottica che ispirò e guidò i personaggi e gli eventi che portarono alla riunificazione nazionale. Le opere del maestro di Busseto costituiscono si può dire un filo rosso bollente che attraversò tutto il Risorgimento dall'inizio alla fine. Non che gli altri musicisti italiani ne fossero estranei: anche dalle loro opere, infatti, si estrapolavano con facilità significati, similitudini, inni e parole che infiammavano gli animi dei patrioti d'Italia, indipendentemente dal fatto che fossero intenzionali (come spesso erano) o casuali. Senza dire del maestro siciliano Vincenzo Bellini che fu carbonaro, anche il bergamasco Gaetano Donizetti d'accordo con il suo librettista infilò qui e là nelle sue opere parole allusive o che facilmente potevano essere interpretate come un incitamento alla lotta e alla ribellione contro gli stranieri e i tiranni che opprimevano l'Italia, come accadde a Palermo al teatro Carolino con la sua opera la “Gemma di Vergy”, dove, alle parole “mi toglieste e core e mente, Patria e libertà” il pubblico proruppe in alte grida e acclamazioni all'Italia e alla libertà, e l'opera non potè proseguire fino a quando la prima donna Teresa Parodi non comparve in scena brandendo il Tricolore. Benchè esteriormente Donizetti facesse mostra di disinteressarsi a tutto ciò che riguardava il Risorgimento, si sa invece che mise a disposizione il suo recapito di Parigi proprio per permettere ai patrioti di comunicare tra loro. Fingendo di scrivere al maestro Donizetti che ufficialmente si disinteressava all'Unità d'Italia (e addirittura era diventato il maestro di cappella della Corte asburgica), molti mazziniani poterono così agevolmente scambiarsi messaggi e informazioni in un periodo in cui la Polizia degli Stati pre-unitari violava sistematicamente la corrispondenza privata dei sospetti. Nè si pensi che per essere sospetti fosse necessario aver combinato chissà cosa: lo stesso Cavour era considerato un elemento sospetto e una testa calda, e la polizia asburgica gli negò il permesso di recarsi nel Lombardo-Veneto per un viaggio culturale ben prima che cominciasse a operare per l'Unità d'Italia.


Perciò, alle anime belle di oggi che, invase da nostalgismo, s'illudono che negli Stati pre-unitari ci fosse qualcosa di lontanamente paragonabile alla libertà, bisogna far sapere che la cappa asfissiante dell'ancien regime di cui l'Austria era paladina, opprimeva gli stessi nobili i quali, per quanto privilegiati fossero, non erano affatto insensibili alle istanze di libertà, indipendenza, progresso ed emancipazione, come i fatti del Risorgimento hanno pienamente dimostrato. Proprio le vicende personali del conte di Cavour, e la sua appassionata ma infelice relazione con la marchesa genovese Anna Schiaffino Giustiniani che per amore di lui si suicidò gettandosi da una finestra di palazzo Lercari a Genova (attualmente in via Garibaldi), ci fanno capire quanto la costrizione di una società chiusa a ogni istanza innovatrice, pesasse sugli spiriti più intelligenti e più colti, sensibili e generosi, come quello della marchesa, anima fiera di patriota mazziniana, lei stessa corriere di messaggi segreti della Giovane Italia, ma soffocata in una prigione dorata di regole e convenzioni vetuste, in un matrimonio di comodo, tollerata dai familiari per le sue idee sovversive che pur tanta importanza ebbero per la formazione di Cavour e la sua successiva maturazione politica, quando egli capì che bisognava impegnarsi a tempo pieno per l'Italia con metodo, sagacia e prudenza, al contrario dei mazziniani che spesso andavano allo sbaraglio. Peraltro anche Mazzini, come Cavour, sacrificò totalmente all'Italia la sua vita privata, rinunciando a sposarsi e farsi una famiglia.

 

Tornando a Verdi, di tutte le sue opere l'Ernani è quella che più incise sul Risorgimento per il suo significato che ben poteva rappresentare le ambasce degli italiani oppressi che s'identificavano nell'eroe Ernani, privato del titolo e dei beni, a cui un Re malvagio aveva ammazzato il  nobile padre, e dunque era costretto a una vita penosa di proscritto e congiurato. Egli diverrà il simbolo più noto del Risorgimento, e il suo mitico “cappello con la piuma”, indossato dal tenore alla prima dell'opera al teatro la Fenice di Venezia il 9 marzo 1844 e dagli insorti calabresi nello stesso anno, sarà il segnacolo della sovversione risorgimentale, vietato negli stati pre-unitari da norme severe che a ben poco serviranno.


A Trieste la rappresentazione dell'Ernani venne proibita per sempre dal 18 novembre 1888. A quella data, infatti, quando al Politeama Rossetti il soprano intonò la celebre aria “Ernani! Ernani! Involami all'aborrito amplesso!”, nel teatro scoppiò un tumulto patriottico di tali proporzioni che il teatro stesso fu sgomberato a forza dalla Polizia e l'Ernani bandita definitivamente dalle programmazioni. Chiaramente l'”aborrito amplesso” era la dominazione asburgica.


I tempi cambiano, cambiano le situazioni, dirà qualcuno. La Storia si riferisce al passato, non al presente e tantomeno al futuro. Eppure, ogni qual volta noi ricordiamo il passato, riverbera sul presente una luce particolare che lo arricchisce o dovrebbe arricchirlo, in quanto solo se legato al passato il presente acquista senso e spessore: è il passato che dà significato al presente. E certi ideali dovrebbero rimanere immutati nella sostanza, mentre il fatto che siano mutati o peggio ancora stravolti, non può non suscitare sgomento e scoraggiamento: se si perde la rotta, infatti, sarà difficile che la barca giunga a un degno approdo. E infatti questa barca italiana sbanda da tutte le parti.


A questo proposito, una ragazzina della provincia di Trieste mi ha scritto una settimana fa esprimendomi la sua grande amarezza per il fatto che a scuola le hanno detto che Trieste non è mai stata italiana, anzi per 500 anni fu austriaca a seguito di un atto spontaneo di dedizione della città  agli Asburgo risalente al 1382: pertanto gli irredentisti hanno accampato pretese infondate, per non dire che erano 4 gatti esaltati; lei con un'altra sua compagna avrebbero voluto reagire, ma non sapevano cosa obiettare, e dunque ha chiesto a me la confutazione di questi assunti.


Anzitutto comincerò col dire che questi assunti volgari non hanno nulla di diverso dalle “ciarlate” che solitamente capita di udire in giro, secondo le quali “il Risorgimento fu di pochi (e figuriamoci l'Irredentismo)”, “Trieste non è mai appartenuta all'Italia”, “i Triestini non erano neanche italiani”, che è come dire che anche i siciliani, i sardi, i veneti, eccetera, non furono mai italiani, ed estendendo tale falso assioma, neanche i brasiliani sarebbero brasiliani dal momento che il Brasile per 322 anni fu dei portoghesi e mai esistette, neanche astrattamente, prima di rendersi indipendente nel XIX° secolo, vieppiù essendo popolato da etnìe le più varie, quasi tutte importate da fuori. Ora: chi oserebbe dire che i brasiliani non esistono e sono un'artificiosa invenzione poggiante sul nulla? Si beccherebbe come minimo un pugno in faccia. Dunque, il falso assioma che “Trieste non è mai appartenuta all'Italia” è talmente sciocco di per sé che pare impossibile qualcuno possa prenderlo per vero, senza dire che, ben diversamente dal Brasile, l'Italia esisteva eccome, e far finta che non esistesse e ignorarne la trimillenaria storia, o, peggio, ignorare che i suoi abitanti ignorassero questa Storia e la ignorassero gli stranieri, è una menzogna bella e buona. Trieste non era in condizioni dissimili dal resto della penisola, ciascuna delle cui membra sparse “non era mai appartenuta all'Italia” solo nel senso che, dopo l'invasione dei longobardi nel VI° secolo d.C., era forzatamente venuta meno un'entità statuale unitaria italiana: tutto qui. In realtà i longobardi cercarono di ricostituire codesta unità della penisola di cui erano consapevoli perfino loro (e infatti i Re longobardi si proclamavano Re d'Italia e dei Romani), ma si trovarono davanti il Papato il quale fu per secoli il principale ostacolo alla riunificazione, potendo sempre contare sull'intervento di poderosi eserciti stranieri. In tal modo al nostro Paese vennero tarpate le ali, perse molte occasioni, e gli fu impedito per secoli di riunire le dolenti e sparse membra.


Dunque, dal punto di vista sia logico che storico dire che “Trieste non è mai appartenuta all'Italia”, vale quanto dire che la Val d'Aosta o le Marche o la Sicilia non sono mai appartenute all'Italia: cioè si tratta di un'affermazione insensata. Eppure capita sovente di trovare  una campionatura di questo bel florilegio di sciocchezze tra alcuni storici contemporanei, la cui propensione politico-ideologica, unita alla smania di far contento qualche politico locale, fa loro proferire idiozie come questa: “l'Irredentismo fu tutta propaganda e costruzione di un falso mito”. Evidentemente era un “mito” alquanto condiviso, se solo nel 1866, alla vigilia della 3a guerra d'indipendenza, proprio da Trieste furono inviati proclami al Re Vittorio Emanuele II chiamandolo “Re e liberatore”, ove si affermava solennemente che “tutta la terra italiana dev'essere libera dallo straniero.”  Indirizzi e memoriali furono inviati al Presidente del Consiglio Bettino Ricasoli e poi ad Agostino Depretis, nonché al ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta, invocando l'appoggio alla causa di Trieste italiana. Soltanto in quell'anno, il 1866, si susseguirono i messaggi provenienti dalla città di San Giusto diretti a uomini di Stato e di governo del Regno d'Italia nonchè ai fratelli Italiani, affinchè  “non perdessero dagli occhi e dal cuore la causa degli infelici fratelli che sono divisi dalle gioie del riscatto...” Furono forse mai smentiti e contraddetti da qualcuno? Non risulta. Anzi: i Triestini risposero in modo sdegnato al generale piemontese Alfonso La Marmora che aveva osato avanzare qualche  dubbio sull'italianità di Trieste. Se dunque nella città fosse albergato un cuore austriaco e gli irredentisti fossero stati 4 gatti che rappresentavano solo sé stessi, sarebbero dovuti fioccare fior di proclami contrari, indignati e offesi, da sciorinare in faccia all'Europa da parte della cittadinanza. Non accadde nulla di tutto questo: non solo non si ha notizia di alcun proclama di risposta, ma il cuore austriaco di Trieste chiaramente non esisteva (e oggi esiste solo nell'immaginazione di certi esaltati che odiano l'Italia), anzi esisteva un cuore italiano che mai si lasciò defraudare dei suoi legami ideali con la matrice, compresa la lingua: e dire che l'Austria aveva avuto 500 anni di tempo per troncare questo legame, ma in questi 500 anni l'etnìa di lingua tedesca riuscì a raggiungere a malapena il 5% della popolazione cittadina, al punto che Francesco Giuseppe, resosi conto del pericolo incombente del Risorgimento, dovette correre velocemente ai ripari immettendovi a tutta forza gli sloveni, e il 12 novembre 1866 il Consiglio dei ministri austriaco emanò la  famosa direttiva in cui ordinava di estirpare “con energia e senza riguardo alcuno” gli italiani che ancora rimanevano nei territori dell'Impero in cui per secoli erano vissuti, proprio lui usando il termine che tutti naturalmente usavano: “italiani”, appunto.


Ma andiamo ancora indietro nel tempo, visto che a qualcuno piace tanto citare il presunto atto di dedizione di Trieste all'Austria risalente al 1382, forse perchè ignora i precedenti atti di dedizione fatti dalla stessa città a Venezia, sicuramente molto più autentici di quello fatto all'arciduca Leopoldo III d'Asburgo, in quanto se ne conservano i documenti, mentre di quello a Leopoldo si conserva guarda caso solo la risposta del medesimo. Nella solenne dedizione fatta a Venezia nel 1368 si fa addirittura riferimento a precedenti atti di dedizione di Trieste alla città di San Marco risalenti al 1200. Tutto ciò ha portato storici come Pietro Kandler, grande studioso di tutti i documenti relativi all'Istria e a Trieste, a concludere che l'atto di dedizione non sia mai esistito e dunque non si tratti di una dedizione spontanea della città bensì dell'accettazione di una resa, che è ben altro. Ma anche volendo considerarlo autentico per benevola faciloneria, sarebbe comunque insufficiente a tenere in piedi la tronfia impalcatura dell'austriacantismo, in quanto è molto strano che una città che s'era data “spontaneamente” agli austriaci nel 1382, qualche decennio dopo fosse ridotta a uno sparuto e miserevole borgo di poche migliaia di abitanti perchè la più parte venne massacrata dagli austriaci stessi per annientare la fazione fioloveneziana che evidentemente era molto di più di una fazione. E da questo sfacelo (la “destruziòn de Trieste”, come fu chiamata), la povera città si risollevò molto tardi e gradualmente, non prima dell'avvento dell'imperatrice Maria Teresa (1717-1780).


Ecco perché a questa Trieste immemore di oggi va ricordato ciò che era ieri, quando come un martello percuoteva il fianco dell'Austria, già esasperata da un Risorgimento che nel 1866 le aveva tolto Udine e il Veneto. Con ciò Francesco Giuseppe sperava d'aver pareggiato i conti, e che Trieste, Fiume, l'Istria, la Dalmazia e il Tirolo del Sud avrebbero accettato, volenti o nolenti, di rimanere tagliate fuori dalla naturale madrepatria Italia. E sperò invano. Le dimostrazioni d'italianità si moltiplicarono e inalberarono, e con esse gli arresti, i processi, le condanne, i sequestri di giornali, le chiusure coatte di centri sociali sospetti, come la “Società Triestina di ginnastica”, palestra d'irredentismo ben più che di esercizi fisici, o la “Società Pro Patria” il cui nome parla da solo e fu sciolta più volte, assieme alla “Società del Progresso”, la “Società Minerva”, la “Società Operaia”, la “Lega nazionale (che al suo nascere nel 1891 già contava 10.000 iscritti), per non parlare degli scioglimenti del Consiglio municipale, come avvenne il 22 novembre 1878, allorchè il consiglio stesso si rifiutò di stanziare una somma per ricevere con onore i soldati austriaci reduci dalla campagna di Bosnia.


Se oggi a Trieste sfilano i titini, gli slavofili, le stelle rosse jugoslave e qualche neoasburgico che ha dimenticato che il Carnevale cade a febbraio, e in certe scuole si fa di tutto per sviare i nostri ragazzi, la colpa è soprattutto nostra: nel momento stesso in cui non reagiamo, infatti, il nemico avanza, imponendo le sue istanze e facendosi largo grazie al silenzio e all'ignavia. Nella smemoratezza della Storia, gli avventurieri sgomitano sempre più spavaldi. La Storia stessa è destinata a essere mangiata dal tempo se gli storici vengono meno al proprio dovere: essi hanno una grande responsabilità di fronte alle generazioni perchè sono i trasmettitori della memoria, dalla quale dipende anche l'autostima di un popolo, il suo ritrovarsi e riconoscersi attorno a principi comuni che sono tramandati dal passato e costituiscono le basi della sua identità, nonostante la temperie di tutti i travagli storici.





Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.