giovedì 27 giugno 2024

Giuseppe Marussig

Giuseppe Marussig (1893-1938) nacque a Fort Opus in Dalmazia, dove il padre Niccolò Marusich, di Borgo Erizzo, era insegnante alla scuola elementare. La madre Maria Franičević-Cippico, probabilmente anche lei insegnante di professione, proveniva da una delle sette località situate tra Spalato e Traù denominate Castella. Di lei, però, sono rimasti pochi dati, dato che molto presto fu costretta a lasciare la famiglia non potendo sopportare le accuse di infedeltà con cui la tormentava il marito. La mancanza dell'amore materno segnò il giovane Giuseppe, che diede tutta la colpa al padre e conseguentemente fece tutto contro la sua volontà. 

Nelle lotte politiche tra i partiti italiano e croato che segnarono il periodo del primo anteguerra in Dalmazia egli si oppose al padre che si dichiarò croato, e si schierò con il partito italiano, cambiando persino il cognome paterno Marusich in Marussig. 

Si dedicò abbastanza giovane alla letteratura, pubblicando nel giornale zaratino «Il Dalmata» le novelle Troppo tardi e Offerta e articoli di attualità o su autori italiani contemporanei, e tenendo conferenze su vari argomenti di letteratura, arte e cultura. Essendo malato, trascorse gli anni della prima guerra mondiale per lo più in ospedale. Cercando di cambiare l'immagine di bohémien o vagabondo che di lui si era creata in Dalmazia, dopo la guerra si trasferì a Roma, dove svolse la carriera di giornalista, critico letterario e scrittore. Pur vivendo lontano, rimase in contatto con la Dalmazia pubblicando articoli di critica letteraria e di cultura su periodici zaratini e recandosi a Zara per tenere conferenze su vari argomenti.

A Roma assai presto si fece strada nel vivace ambiente culturale della capitale. Dopo due anni di lavoro al «Popolo romano», fu invitato a collaborare alla «Nuova Antologia», sulla quale pubblicò il suo romanzo Uomini di confine, la prima parte del romanzo incompiuto Risveglio e articoli in cui trattava vari argomenti letterari e culturali, e occasionalmente riportava dai giornali croati notizie su interessanti eventi culturali o conferenze riguardanti i rapporti tra l'Occidente e l'Oriente. 

Lavorò anche all'Ufficio Storico della Marina (dal gennaio 1927 al settembre 1931), poi nel Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda, trasformato poi nel Ministero per la Cultura Popolare. Verso la fine della sua esistenza, già minato dalla malattia che lo condusse a una morte prematura, lavorò come speaker alla Radio dell'E.I.A.R. Frequentò circoli di letterati e critici e fece amicizia con noti rappresentanti della vita culturale romana, tra cui Lucio D'Ambra e Cesare Giulio Viola, dimostrandosi «un eccellente amico, prodigo nei consigli, amore e attenzione». Però anche in questo ambiente visse amare esperienze non sapendo essere un giornalista militante. Descrivendo il suo carattere, la malattia e le ragioni per cui non poteva essere diverso, il giornalista Oscar Randi, come in precedenza Ildebrando Tacconi, accenna al suo temperamento, alla sua origine albanese e alla crescita nell'ambiente dalmata. 

Menziona inoltre la continua tragedia famigliare, morale, fisica e politica, che, insieme a una serie di delusioni amorose nell'adolescenza, fu causa di alcuni tentativi di suicidio.

Marussig stesso si autodefiniva esule e nel descrivere il suo sacrificio per l'Italia usava parole che assomigliavano a quelle di Niccolò Tommaseo:

Io sono esule di Dalmazia. E se la mia vita di esule ha potuto aver qualche volta le apparenze del vagabondaggio, le mie origini e la mia natura non sono di vagabondo. Per l'Italia ho patito il carcere. Per l'Italia ho lasciato con dolore la mia terra e la mia famiglia. Per l'Italia ho subito molte umiliazioni. Se non ho dato alla patria la vita, le ho dato forse la salute. Non me ne glorio. Ho fatto solo una parte del mio dovere. Ma insomma, ho fatto il mio dovere.

L'attività del Marussig letterato è contrassegnata dal libro di novelle I due specchi e dal romanzo autobiografico Uomini di confine. Si è distinto anche come critico letterario, pubblicando numerosi articoli su riviste e giornali del tempo. Una parte dei suoi contributi è stata raccolta nel volume Scrittori di oggi, che contiene giudizi critici su alcune significative voci letterarie del tempo come Federigo Tozzi, Guido Gozzano, Luigi Pirandello, Arturo Colautti ed altri.

Tra le novelle raccolte nel libro I due specchi, per lo più a sfondo sentimentale e filosofico, spicca La verità, di stampo autobiografico, nella quale Marussig «espande il suo cruccio segreto per la fatale incomprensione, che gli dilaniò la famiglia ed amareggio la sua fanciullezza». La novella, che ha lo stesso protagonista del romanzo Uomini di confine, è scritta in forma dialogata. Il giovane Giulio fa una profonda analisi della propria vita, in particolare del rapporto con il padre, cercando di rintracciare le radici e le cause della sua inquietudine e dell'implicita accusa nei confronti del padre per l'allontanamento della madre dalla famiglia. Nel protagonista si riconosce l'autore stesso, che nella finzione narrativa traspone l'incomprensione e l'accusa nei confronti del padre, il quale cerca di spiegare le ragioni del proprio comportamento, cui segue quella conciliazione tra padre e figlio che nella vita reale non si realizzerà mai.

Uomini di confine da un lato rappresenta significativamente la produzione letteraria zaratina della fine Ottocento e della prima metà del Novecento, geograficamente ma anche psicologicamente una letteratura di confine; dall'altro riflette le tendenze della letteratura europea contemporanea e l'atmosfera generale del decadentismo. Ciò si vede non solo nel titolo del romanzo, ma, come è stato detto, anche nel complesso tema dell'uomo segnato da rapporti difficili sul piano individuale e sociale, alla ricerca delle proprie radici e del tempo perduto. Il protagonista Giulio Negri è in cerca della patria perduta (Fort Opus in Dalmazia, sul fiume Narenta) e indaga le radici della sua 'malattia', soprattutto il rapporto difficile con il padre a causa del quale era stato costretto ad abbandonare il luogo nativo. A differenza della novella La verità, dove l'indagine si fa attraverso il dialogo con il padre, in questo romanzo l'autore sceglie un altro interlocutore. Dopo molti anni di vita lontano da Fort Opus, il protagonista visita lo zio materno Giuseppe ormai vecchio e malato, con cui discute della sua famiglia e della vita in genere, arrivando attraverso il colloquio a fare in un certo senso luce sulla sua esistenza tormentata. È un groviglio interiore che la fuga dal luogo nativo non riesce a sciogliere, perché l'uomo è segnato per sempre dall'ambiente di provenienza, al quale bisogna tornare per ritrovare la pace:

Si parte un giorno dal proprio paese; ci si butta nella vita con uno sforzo di volontà che somiglia a un lancio; si dimentica il luogo della propria origine; e si va, si va. Dove? Così si va; spinti da un'inquietudine che non può avere un nome certo, come non ha un valore chiaro. [...]

Si va; e il nostro cammino è una continua menzogna: oblio del nostro luogo natale; vergogna della semplicità dalla quale siam pur venuti alla nuova vita non semplice né sincera; negazione dei nostri veri bisogni e tentativi di creare, per forza di volontà, altri bisogni, solo apparentemente meno vili, più difficili, più nobili.

Menzogna, menzogna. Si sogna una vita falsamente eroica; si insegue il falso ideale di un eroismo sovrumano; e, poiché non si può cancellare il proprio nome, ecco si cancella il nome del proprio luogo e si prende un pugno di quella terra benedetta dalla quale si è sorti e dove sono seppelliti i propri avi, dove riposa tutta la gente del proprio sangue, e la si butta al vento, con la speranza che quella nuvoletta di polvere diventi il principio della nube misteriosa della gloria.

No, no, bisognava tornare, tornare anche con la mente, anche con lo spirito, alla propria terra; bisognava, lì, nella propria terra, in mezzo alla propria gente, fare un onesto esame di coscienza; bisognava purificarsi: riconoscere di avere operato male, pentirsene, fare il proponimento di vivere un'altra vita; un'altra vita, seppur minore, certo più onesta.

Tutto il romanzo è permeato di nostalgia, inquietudine e del pessimismo relativo alla patria perduta, e al faticoso processo di abbandono e oblio, e particolarmente al ritorno alle radici, che sembra quasi impossibile: «Spesso, assai spesso, tornare al luogo da dove si è partiti, è compiere il viaggio più difficile, perché la verità non è sempre davanti a noi».

Attraverso l'autoanalisi Giulio riesce a scoprire un'altra causa del suo disagio esistenziale: oltre alla sindrome della patria perduta, è pervaso anche da un'inquietudine interiore, ereditaria, determinata dall'appartenenza a quella terra di confine, quell'ambiente in cui per secoli s'intrecciano gli influssi dell'Oriente e dell'Occidente:

Destino di una famiglia, soltanto? No. Più vasto di una casa era quel dramma: vasto quanto tutta quella loro terra, quanto tutta quell'ultima Dalmazia, sperduta, lì, al confine di due civiltà contrarie, campo di battaglia di tutte le guerre cruente e incruente di due stirpi diverse e avverse.

Non si può senza danno vivere secoli e secoli su un lembo di terra dove sempre si sono scontrati l'Occidente e l'Oriente; dove sempre hanno conteso genti di sangue nemico. [...] Popolo senza pace, il loro; povero piccolo dimenticato popolo che senza pace nasceva e senza pace moriva, condannato a consumarsi in quella sua inquietudine perenne. [...]

Tristi frutti di cento incroci, frutti avvelenati di quella terra, vissuti sempre in quella zona dove stirpi nemiche avevan lasciato per secoli e secoli e tuttora lasciavan i propri detriti come il mare lascia i suoi su certe spiagge disperate, quegli uomini dovevano spendere la maggiore e la miglior parte della propria forza solo per camminare. Non era naturale, poi, che a ogni impresa giungessero già stanchi?

Un momento decisivo del viaggio introspettivo del protagonista verso la soluzione della sua crisi è il viaggio reale che fa con lo zio a Mostar: «questo lembo d'Oriente, che abbiamo qui, a due passi». La città con il suo ponte di origine ottomana è rappresentata come un luogo di incontro e influssi reciproci della civiltà occidentale e da quella orientale, dove il confine fisico (il fiume Narenta) viene superato dal legame spirituale tra i popoli che vi convivono:

Per noi, qui, è un'altra cosa. Questo popolo ci è tanto vicino, vive su la nostra stessa terra.
Che siamo andati noi verso di lui o che sia venuto lui verso di noi o contro di noi, poco importa. Il confine, questa sottile ma profonda linea che spartisce rigidamente i diritti, non sempre separa nettamente anche le anime. Noi siamo legati ormai da una parentela ideale a questa gente. Secoli e secoli abbiamo respirato vicino a loro e un certo influsso nella nostra vita lo devono avere avuto.

Trovando, attraverso il colloquio con lo zio e l'introspezione, una parte delle risposte ai suoi tormenti e la causa del suo male oscuro, il protagonista riesce ad acquistare un relativo equilibrio, riconoscendo la propria sensibilità affine a quella di un artista decadente, consapevole della 'malattia' dell'uomo moderno:

Egli sapeva finalmente la causa della sua inquietudine; sapeva l'origine e la qualità della forza che l'aveva mosso e poi l'aveva aiutato ad andare; sapeva quale sentimento non gli aveva permesso di riposare, di aspettare, di raccogliersi. [...]
Egli aveva avuto la fortuna che pochi uomini hanno: di conoscersi, di capirsi, di vedere la propria vita come si vede quella di una perfetta creatura poetica.

Alla complessità del tema trattato corrisponde la struttura e il tono del romanzo. Lucio D'Ambra lo descrive «scontroso nei modi, patetico nel fondo, sensibilmente umano, con questa caratteristica: che, pauroso della retorica, raggiungeva in ogni pagina la poesia quanto più tentava, pudico e schivo, di sfuggirla». Cesare Giulio Viola, invece, parlando dell'importanza del romanzo nella produzione letteraria italiana ed europea e nel clima culturale del tempo, lo vede come il riflesso della crisi generale causata dalle vicende storico-politiche del tempo, che, come sempre, colpisce in particolare le zone di confine:

È il libro della crisi spirituale che nella smembrata Europa colpì tutti gli uomini che si trovarono con un piede da una parte e uno dall'altra in quel riassetto che la guerra credé di portare nel mondo, a prezzo di tanto sangue, e in nome di tante pretese equiparazioni. Nacque, allora, più vivo il problema degli uomini di confine: uomini senza unità che avevano aspirato a un'unità; nei quali si perpetuava il conflitto di sentimenti e di pensieri contrari, in cui parlarono le parole diverse di una stessa passione, le ore o le stagioni diverse di una stessa vita. Confusioni di sangue, di razza, di tradizioni, che cercarono un ubi consistam spirituale, una tregua all'affanno di secoli. Uomini spaesati, non paghi del proprio paese, e non accolti nella cerchia d'una agognata patria ideale.

Di Marussig e del suo romanzo si sono occupati anche i critici zaratini. Marco Perlini, in un suo saggio sugli scrittori dalmati, trova analogie nel temperamento e nel modo di scrivere tra vari rappresentanti della vita letteraria e culturale passata e contemporanea, menzionando appunto Marussig, che, come molti altri dalmati (san Girolamo, Tommaseo, Colautti), errava lontano dalla patria. Nel romanzo Uomini di confine, secondo Perlini, sono raccolte tutte le insicurezze, i dubbi, le nostalgie, le aspirazioni, le amarezze, le contraddizioni e gli entusiasmi della gente nata al confine tra due culture. Ildebrando Tacconi in uno dei suoi studi sulla letteratura dalmata annovera Marussig tra i più significativi scrittori dalmati e definisce la sua opera «inquieta e tormentata», la quale, oltre ad essere di valore artistico, è anche «documento umano, legato alla crisi politica d'Europa», che Marussig sentiva profondamente e il tormento che in lui essa suscitava lo esprimeva anche nei suoi articoli politici, nelle novelle e negli scritti critici.

Testimonianza di Sergio Baratto

Sergio Baratto, esule da Fiume, narra la fuga della sua famiglia e del sacrificio dello zio Albino Baratto, immolatosi eroicamente per difendere l'ultima bandiera italiana che sventolò sulla città di Fiume.

"Quella che andrò ad esporvi vuole essere una semplice testimonianza di un esule nato il 7 agosto 1933 nella italianissima città di Fiume.

Rappresento uno di quei 350.000 esuli che sono stati costretti ad abbandonare la propria casa e i propri affetti per sfuggire alla bestiale pulizia etnica eseguita dalle bande comuniste di Tito nei nostri confronti.

Io e la mia famiglia, padre, madre e tre figli, vivevamo felici e sereni in una bellissima casa, circondata da un bellissimo giardino, ricordo che dalla mia camera sporgendomi dalla finestra potevo raccogliere da alcuni alberi che la circondavano le albicocche e le ciliege, mentre d'estate entravano in casa i profumi dei fiori che crescevano nel giardino.

Poi, la sera dell'8 settembre 1943, il Maresciallo Badoglio annunciò a sorpresa la firma dell'armistizio e questa serenità cessò bruscamente.

Il nostro esercito si sbandò e le bande slovene cominciarono ad invadere le zone interne dell'Istria. Poi in seguito, come se i nostri guai non bastassero, sulla città di Fiume cominciarono i bombardamenti da parte dei nostri "nuovi alleati".

Ricordo la notte del 9 gennaio 1944, quando iniziò l'inferno sulla città, aerei inglesi e americani cominciarono a bombardare il porto e la zona industriale, ricordo la raffineria ROMSA che bruciava, ci vollero più di 15 giorni per spegnere l'incendio e ricordo che il calore delle fiamme faceva germogliare i fiori sulle piante dei giardini.

Purtroppo quella notte la nostra casa, distante qualche chilometro dalla raffineria, rimase danneggiata dal bombardamento e di conseguenza fummo costretti ad andare a vivere in una vecchia casa di ringhiera di proprietà di una mia zia, casa che non aveva le comodità della nostra ma aveva il grosso vantaggio di essere posta vicino ad un rifugio antiaereo scavato nella montagna, che ci permise di evitare i rischi che gli ulteriori bombardamenti su Fiume ci avrebbero procurato se fossimo rimasti a vivere nella nostra casa lesionata vicino alla ROMSA.

E dopo varie nefaste vicissitudini, arrivò la notte del 3 maggio 1945 quando le bande armate comuniste occuparono definitivamente la città di Fiume.

Quella notte, io e i miei genitori la passammo chiusi nella cantina del caseggiato dove abitavamo e le finestre protette da sacchi di sabbia, tutti abbracciati, mentre fuori imperversavano i combattimenti tra i tedeschi in ritirata e le bande partigiane di Tito. Alla fine i tedeschi, dopo aver fatto saltare le attrezzature portuali, i ponti e incendiato alcuni edifici, abbandonarono la città, non prima però di aver fatto esplodere la polveriera che si trovava in località Valscurigne, a circa 3 Km dalla nostra casa; le deflagrazioni fecero tremare per un paio d'ore le mura del caseggiato, al punto che ci sembrò che da un momento all'altro tutto l'edificio ci crollasse addosso.

Dopo un breve periodo di tempo la vita a Fiume, nonostante gli arresti e le uccisioni, iniziò faticosamente a riprendere, mio padre ricominciò l'attività lavorativa alla ROMSA, attività che consisteva in 9/10 ore di duro lavoro da svolgere con il massimo entusiasmo, perché dicevano serviva per l'edificazione del socialismo, ma che in parole povere serviva unicamente ad insegnare agli slavi come far funzionare le fabbriche di cui si erano impadroniti e, come se non bastasse, alla sera era assolutamente obbligatoria una riunione politica alla quale mio padre si rifiutava di assistere.

Per sua e nostra fortuna fu avvisato in tempo da un amico (rari in quel periodo) di aver visto il suo nome in una lista tra coloro che dovevano essere inviati con la famiglia nell'isola lager di Goli Otok (Isola Calva), oggi rinomata località turistica, allora ultimo girone dell'inferno comunista, perché dovevamo subire una fase di rieducazione.

Eravamo nel settembre del 1946.

Non so come, mio padre venne a conoscenza che un camioncino sgangherato carico di masserizie varie doveva partire nel tardo pomeriggio da Fiume verso Trieste, riuscì in breve tempo a contattare l'autista, il quale accettò di accompagnarci grazie al pagamento di una lauta ricompensa.

Ricordo perfettamente quei momenti, io non mi rendevo conto dei rischi ai quali andavamo incontro, ma vedevo dipinto nel volto di mio padre e di mia madre, che stringevano a sé la sorellina più piccola, l'ansia e la paura. Stavamo abbandonando per sempre la nostra amata città di Fiume, la nostra bella casa e con essa gli affetti e le piccole cose care, le tradizioni, i sapori, gli odori della terra in cui eravamo cresciuti, i colori, le vie, la gente, il nostro dialetto, ogni tanto mia madre si voltava per guardarla, forse sperava che un giorno ci sarebbe ritornata, ma credo, osservando le lacrime che le rigavano il volto, che fosse già convinta che non l'avrebbe rivista mai più, e infatti fu così.

Partimmo nel tardo pomeriggio, la serata era grigia e piovosa, caricammo in fretta le quattro borse che avevamo riempito soltanto di pochi oggetti personali e qualche indumento pesante necessario per trascorrere l'inverno.

(Non mi sono mai separato da quelle quattro borse, mi ci sono affezionato, è come se dentro di esse avessi voluto conservare per non dimenticare le sofferenze di una intera generazione.)

Salimmo sul camioncino e l'autista ci consigliò di posizionarci dietro a dei mobili e di rimanere in silenzio e ben nascosti nel caso ci fermassero le pattuglie partigiane di Tito, che generalmente scorrazzavano nelle zone interne dell'Istria.

Durante il viaggio rimanemmo terrorizzati ma in assoluto silenzio, ben consapevoli che se ci scoprivano il nostro viaggio sarebbe finito in una foiba.

Ogni tanto il camioncino si fermava, sentivamo le voci dei partigiani titini che parlavano in slavo con l'autista, il quale per nostra fortuna sapeva parlare bene la loro lingua, una sola volta qualcuno alzò il telo del camioncino ma lo rinchiuse subito, borbottando parole che noi non comprendevamo.

Grazie a Dio, dopo un viaggio allucinante durato più di tre ore per compiere circa 100 Km, arrivammo a notte inoltrata a Trieste, scesi dal camioncino, notai che il volto dei miei genitori appariva finalmente rilassato, eravamo salvi, l'incubo era finito. Quella notte fummo accolti in un istituto di suore, che ci sfamarono e ci fecero dormire in uno stanzone dove già riposavano altri profughi.

Il giorno dopo, non so come, mia madre venne a conoscenza che in quel di Brindisi esisteva un collegio che ospitava i figli maschi dei profughi Istriani, Fiumani e Dalmati. Smaltite tutte le pratiche e ottenuti i documenti necessari, partii da Trieste da solo in una mattinata piovosa e arrivai a Brindisi nel tardo pomeriggio del giorno dopo, sporco, affamato, stanco e con le ossa rotte a causa dalla notte passata a dormire sulle panche in legno del treno. Dopo aver percorso a piedi la strada che mi distanziava dalla stazione di Brindisi, il collegio "Niccolò Tommaseo" che mi apparve era molto bello e per di più, una volta entrato, mi resi conto che era già frequentato da circa 300 ragazzi istriani che parlavano il mio dialetto, mi sembrò di essere tornato a Fiume, casa mia. 

Inizialmente è stata dura, si cercava con fatica di passare le giornate serenamente, ma i nostri pensieri continuamente rivolti verso la famiglia forzatamente abbandonata ci facevano piombare in uno stato di profonda tristezza, qualcuno cercava di farci ridere raccontando delle sciocchezze, ma era solo un modo come un altro per farci evitare di piangere. Piano piano, però, mi abituai a convivere con questa nuova famiglia e ai ferrei orari che scandivano le nostre giornate. Ricordo, non proprio la fame, ma tanto appetito e i ceci troppo presenti nel menù per essere graditi. Nei momenti della ricreazione ci univamo spesso a cantare le canzoni della nostra terra nel nostro bel dialetto, momenti che ci facevano dimenticare per un momento la famiglia lontana.

Alla fine di questa esperienza, dal collegio Niccolò Tommaseo di Brindisi uscì una generazione di giovani Istriani, Fiumani e Dalmati, conosciuti oggi come i "MULI DEL TOMMASEO", che hanno fatto onore alle loro origini nel mondo intero, non dimenticando mai di essere italiani, solo italiani.

Nel frattempo mio padre, camminando un giorno per le calli di Venezia nella disperata speranza di trovare un qualsiasi lavoro che gli permettesse di mantenere la sua famiglia, incontrò fortunatamente un dirigente della raffineria ROMSA di Fiume, che riconoscendolo lo abbracciò e gli propose un posto di lavoro all'ANIC di Novara. La mia famiglia a quel punto si trasferì e trovò alloggio in una casa di campagna situata alla periferia della città.

Qui purtroppo fummo nuovamente costretti a vivere con la paura. Dico fummo perché in quell'agosto del '47 con loro c'ero anch'io in vacanza estiva. Mia madre mi mandò i soldi per pagarmi il viaggio Brindisi-Novara e ritorno, e così fu la prima volta che dopo la partenza da Fiume la mia famiglia poté ritornare per alcuni giorni nuovamente unita.

La proprietaria dalla casa aveva un figlio di circa venti/venticinque anni, militante comunista, tutte le volte che passava davanti alla nostra porta urlava "Sporchi fascisti vi ammazzeremo tutti". Mia madre spaventata stringeva le mie due sorelle al petto, mentre mio padre voleva uscire per rispondere in qualche modo a quelle invettive, fortunatamente mia madre riusciva sempre a convincerlo di non fare sciocchezze.

Rimasi sconvolto da questi fatti, perché a Brindisi queste cose non succedevano. Anzi devo dire la verità, a Brindisi non ci sono mai stati episodi di ostilità nei nostri confronti.

Ricordo, con particolare emozione, il giorno in cui un'anziana signora mi fermò chiedendomi se per caso noi ragazzi fossimo i figli dei fascisti uccisi in Istria, alla mia risposta negativa mi guardò con tenerezza, mi fece una carezza e se ne andò in silenzio. Un gesto umano di una donna brindisina nei riguardi di un piccolo esule fiumano che mi commosse e che non dimenticherò mai, in quel momento per me era stato come ricevere una carezza da parte di mia madre lontana.

Questi episodi di ostilità verso la mia famiglia si sono profondamente sedimentati nella mia memoria e hanno notevolmente contribuito a farmi prendere un orientamento di vita nettamente anticomunista, orientamento già sviluppato nell'impatto che ebbi a Fiume sotto il regime comunista di Tito.

Fortunatamente la permanenza dei miei a Novara si limitò a qualche mese, perché a mio padre fu proposto un lavoro nella raffineria di Tagliabue di Villa Santa, un paese vicino alla città di Monza, gli promisero una casa, un ottimo lavoro con un ottimo stipendio, e mio padre accettò.

Il primo impianto di raffinazione della raffineria lo si deve a mio padre, fu lui unitamente ad altri profughi fiumani, tutti dipendente della ROMSA di Fiume, a costruirlo e ad inaugurarlo mettendolo in funzione nel 1948. A questo punto i miei decisero che per me era arrivato il momento di abbandonare il collegio di Brindisi al fine di ricomporre la famiglia e di ricominciare la nostra vita finalmente uniti.

Gli abitanti di Villasanta, pur non accogliendoci con particolari slanci di solidarietà, ci evitarono però le umiliazioni che i miei subirono in altre località italiane.

Noi ci rendevamo conto che i tempi erano duri per tutti e la gente afflitta da mille problemi, ma capimmo anche che il rancore nei nostri confronti non arrivava da tutta la gente ma da una minoranza ubriacata da una pesante campagna propagandistica di diffamazione che la sinistra, protesa a salvaguardare l'immagine del comunismo in Italia, ci indicava al pubblico ludibrio come ricchi fascisti che fuggivano dalle magnifiche sorti progressiste del comunismo di Tito, mentre in realtà chi fuggiva era l'imprenditore, il nobile, il professionista, l'operaio, il contadino, il pescatore, in poche parole la rappresentanza del tessuto sociale di una intera regione che cercava soltanto di vivere libera da italiani in terra italiana.

Grazie a Dio dopo le elezioni politiche del '48, che andarono fortunatamente come tutti sappiamo, io e la mia famiglia, perfettamente integrati con gli abitanti di Villasanta, potemmo vivere pacificamente e serenamente per circa 10 anni in questo paese, trasformatosi oggi in una splendida cittadina.

In seguito i miei si trasferirono definitivamente a Milano, avevano trovato finalmente una casa confortevole, anche se inserita in un contesto che non si adeguava perfettamente alle loro abitudini fiumane.

Io non seguii i miei perché allora lavoravo all'ufficio studi della moto Gilera di Arcore e pertanto preferii rimanere a vivere a Monza, integrandomi anche qui perfettamente con i monzesi, tanto che mi sono sempre ritenuto e mi ritengo tuttora un monzese d'adozione, non dimenticherò mai però le mie origini di esule fiumano.

Attualmente vivo con la mia nuova famiglia in un delizioso paesino della verde Brianza in provincia di Lecco.

Probabilmente ora qualcuno di voi si chiederà cosa rimane dopo tanti anni ad una persona costretta da vicende storiche e politiche a lasciare la casa e i suoi affetti?

Posso dirvi che sicuramente rimangono i ricordi, il rimpianto, la nostalgia, ma soprattutto rimane in noi la voglia di raccontare a voi per condividere con voi una triste pagina di storia italiana per molto, troppo tempo dimenticata. Voi dovete sapere che il popolo Istriano, Fiumano e Dalmata, nonostante la tragedia che lo ha duramente colpito, non si è mai piegato e non è stato mai messo in ginocchio da nessuno.

Io oggi, nonostante tutto, mi sento un privilegiato, perché in un angolo di questo pianeta c'è la mia Fiume, che nessuno mai mi potrà togliere perché appartiene alla mia vita e alla mia memoria. Appartiene ai miei cari che mi hanno preceduto e che hanno calpestato il suo suolo, al mio papà e alla mia mamma, che purtroppo non ci sono più, al loro amore che ha dato vita a me e alle mie sorelle e a tutto l'amore che ci ha legato in una famiglia felice.

Ma mi dovete permettere di dire con fermezza che questa nostra città appartiene per diritto agli eroi Fiumani, tra i quali includo orgogliosamente mio zio BARATTO ALBINO, trucidato a Fiume nel 1945 dai partigiani comunisti di Tito.

Ho impiegato quasi settant'anni di ricerche, ma sono riuscito finalmente a scoprire la verità sulla sua morte eroica, peccato che mio padre non c'è più, ne sarebbe stato fiero come lo sono io in questo momento.

A tal proposito il "Centro Studi Adriatici" di Roma ha pubblicato quanto segue:

"Ricordiamo il sacrificio del sottufficiale della Milizia Albino Baratto, nato a Zara nel 1902, residente a Fiume sin dall'infanzia. Circondato, il 28 aprile 1945, dagli slavi si difese sino all'estremo. Ferito ripetutamente continuò a combattere manovrando da solo l'ultima mitragliatrice rimasta al suo reparto ormai distrutto, finché rimasto senza munizioni venne catturato e massacrato".

Per questo motivo, ci tengo a sottolinearlo, gli è stato conferito nel 2015 un riconoscimento e una medaglia commemorativa da parte del Presidente della Repubblica Italiana. Un eroe che ha immolato la sua vita per difendere l'ultima bandiera italiana che sventolò sulla mia amata città di Fiume. Ma noi allora come oggi non eravamo e non siamo importanti per nessuno, purtroppo l'odio verso di noi non è ancora sopito, ancora oggi troviamo nella nostra Patria italiana ostilità e indifferenza a causa di una verità negata e mistificata dalla falsa storiografia dei cosiddetti vincitori, verità poi sottaciuta da una classe politica imbecille, vile e traditrice. Cercavamo rifugio in quel che restava della nostra Patria italiana e trovavamo non solo indifferenza, ma anche e soprattutto ostilità e rancore da parte dei comunisti italiani.

Queste cose mi addolorano, al punto che in certi momenti con fatica trattengo le lacrime... lacrime di rabbia. Nel nostro bel dialetto fiumano si usa dire che "quando se diventa veci xe gà la voia de pianzer come i fioi". Se per causa di questi ingiusti comportamenti da parte delle autorità comunali e nazionali nei nostri confronti mi viene la voglia di piangere come un bambino, non è perché sono diventato vecchio, ma perché ancora oggi, dopo settant'anni da quando siamo stati costretti a lasciare la nostra casa, i nostri affetti, le nostre tradizioni, il nostro dialetto e la nostra gente, continuiamo ad essere maltrattati come italiani esuli in terra straniera.

"Sergio Baratto, esule fiumano di prima generazione, nato a Fiume il 7 agosto 1933. Abitavo alla case Romsa in via Locatelli 3, oggi purtroppo via Ulica Ivana Susnja."


La difesa di una convivenza distrutta dalle spinte nazionalistiche

IL SINDACO BAJAMONTI DI SPALATO DIFESE LA CONVIVENZA TRA ITALIANI, CROATI E SERBI

Le elezioni del 1882 si svolsero sotto le minacce della gendarmeria e delle cannoniere della Marina austriaca per rompere l'unità, la fratellanza e la tolleranza del Regno di Dalmazia.

Renzo de'Vidovich

Leggo con mal celata preoccupazione l'articolo apparso sull'edizione on-line della Slobodna Dalmacija del 28 ottobre u.s. intestato "Deposta la corona in ricordo della vittoria dei popolari a Spalato" e ripreso nelle pagine web del Comune di Spalato con il titolo "Deposta una corona sulla targa in ricordo della prima amministrazione croata del Comune di Spalato", nel quale sono riportate grossolane inesattezze che sono state stigmatizzate a Trieste dagli esuli dalmati e dal quotidiano di Fiume degli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia La Voce del Popolo. 

Va, innanzitutto precisato che le elezioni comunali del 28 ottobre 1882 si svolsero in un clima fortemente intimidatorio contro il Podestà Antonio de'Bajamonti, amato da tutti gli spalatini, ai quali donò l'intero suo patrimonio per finanziare le opere pubbliche ancor'oggi usate, il quale era a capo di una coalizione di croati, italiani, serbi ed albanesi che si battevano per l'unità ed il rispetto delle diverse culture nazionali esistenti nella nazione dalmata. Questo raggruppamento politico, denominato Liberalna Unija - Unione liberale, si batteva anche per l'autonomia del Regno di Dalmazia. La gendarmeria austriaca non si risparmiò in quegli anni nel colpire il "Mirabile Podestà" di Spalato Antonio de'Bajamonti, che non usava il prefisso nobiliare "de", "von" o "od" per non subire i ricatti della Corte di Vienna, che pretendeva una particolare fedeltà dei nobili all'Imperatore. Nei giorni che precedettero le votazioni due navi da guerra austriache furono all'ancora nel porto di Spalato con i cannoni puntati sulla città ad alzo zero. In queste condizioni vinse il Partito nazionalista croato filo austriaco, ma da questa vittoria la cultura croata ben poco ottenne.

Furono, quindi, chiuse le scuole italiane ed eliminata la lingua italiana nelle comunicazioni dei cittadini con il Comune di Spalato. Iniziò, quindi, l'esilio degli italiani di Spalato e delle altre città dalmate dove l'Austria ed il clero sobillavano i croati per far vincere il Partito popolare anti-italiano.

Dalle dichiarazioni riportate dal Suo giornale sembrerebbe che Spalato avesse ottenuto finalmente in quell'occasione scuole croate e la possibilità di parlare in croato nel Comune, cosa assolutamente non vera, perché Bajamonti ed il suo Partito autonomista mai si sognarono di discriminare la lingua e la cultura croata. Vero è, anzi, che gli italiani si batterono perché fosse riconosciuta dignità internazionale alla lingua che sarà chiamata poi serbo-croata, ed il Tommaseo già nel 1849 pubblicò la seconda edizione delle Iskrice in lingua croata, oltre che in italiano, latino, greco e francese per conferire dignità e livello europeo alle lingue slave.

In realtà, dunque, i veri croati poco hanno da festeggiare per la vittoria ottenuta per conto degli austriaci nel 1882, ma molto hanno da lamentarsi gli italiani che videro chiudere perfino la scuola dove studiarono due dei più grandi letterati italiani ed europei del tempo, i dalmati Ugo Foscolo e Niccolò Tommaseo.

Cosi Josip Vrandečić scrive del periodo "...per Bajamonti proprio la città di Spalato rappresentava la città del futuro, roccaforte liberale della cittadinanza dalmata imprenditoriale e del libero pensiero, il quale in opposizione alla burocratica Zara doveva diventare di nuovo punto d'incontro del commercio balcanico con l'Italia, come nei tempi dell'antica Salona".

In seguito alla vittoria comunale austro-croata, gli italiani discriminati e privi di scuole, uffici pubblici, biblioteche e di ogni altra istituzione culturale, commerciale ed economica, cominciarono ad abbandonare la città di Spalato. Ad esempio, la famiglia spalatina degli Stock, che portò la sua attività a Trieste e fondò le Distillerie Stock note in tutto il mondo per il Maraschino, il Cognac, Stock Medicinal, 1884, ecc.. Sta di fatto che Spalato si impoverì e divenne più facilmente preda della deutsche kultur, come fosse un reperto archeologico della Civiltà danubiana del Sego e della Birra, e non una gemma della Civiltà mediterranea dell'Olio e del Vino.


Oggi, lo scontro tra questi due modi di intendere la civiltà si verifica nuovamente in Dalmazia e frau Merkel ritenta ciò che non era riuscito a Franz Joseph der Erste, che invano tentò di germanizzare la romanità e cancellare la libertà ed il modo di essere della Serenissima Repubblica di Venezia.

Il 28 ottobre del 1882 ricorda anche il 28 ottobre 1922. Dopo la vittoria austro-croata nel Comune di Spalato, nacque esattamente 40 anni dopo il fascismo in Italia e questo scherzo della storia smentisce la tesi titina secondo la quale la persecuzione degli italiani di Dalmazia cominciò a causa del fascismo. Cominciò sotto il dominio dell'Impero e con la connivenza di una minoranza del popolo croato, almeno quarant'anni prima della nascita del fascismo.

La lapide per la vittoria del Partito nazionalista croato e l'autore delle tesi storicamente poco fondate

I tre esodi

I PRIMI DUE ESODI DEGLI ITALIANI DALLA DALMAZIA, IN ΕΡΟCA PREFASCISTA, VOLUTI DALL'AUSTRIA E DAL REGNO DI JUGOSLAVIA, IL TERZO ESODO PROVOCATO DAI COMUNISTI DI ΤΙΤΟ

Le manifestazioni ufficiali del 10 febbraio sono state aperte a Trieste da una conferenza tenutasi nella sala maggiore della Lega Nazionale con un titolo che non lascia dubbi coloro che ogni anno vengono a raсcontarci la storiella dell'esodo provocato dalla spontanea reazione popolare contro gli italiani, a causa della guerra fascista, debbono sapere che i due maggiori esodi dalla Dalmazia hanno avuto luogo ben prima che naseesse il fascismo e senza che vi fossero provo cazioni di alcun genere. Il tema del Convegno pubblicato con grande evidenza da Il Piccolo (e inviato per conoscenza a tutti i giornali, Tv, Mass media italiani e, soprat- tutto, alle autorità preposte alle commemorazioni del Giorno del Ricordo) sembra aver ottenuto l'effetto deside rato. Non abbiamo notizia, se non di gruppuscoli marginali, che abbiano sostenuto le vecchie tesi di Tito Finalmente, si è capito che il precedente, storicamente provato inerente la pesante snazionalizzazione della Dalmazia e, in minor misura, le angherie attuate in Istria, a Fiume, a Trieste, Gorizia, nel Trentino ed in altri territori abitati dagli italiani nell'Impero Austro-Ungarico, erano avvenuti senza che si potesse incolpare il fascismo che non era ancora nato. La snazionalizzazione attuata dal 1920 al 1940 dal Regno di Jugoslavia riguardò — come è noto — solo la Dalmazia perché gli altri territori erano stati liberati e facevano parte del Regno d'Italia.

Lavy Mario Sardos Albertini ha aperto la riunione con una documentata relazione sulle angherie attuate dall'Austria e dal Regno di Jugoslavia che costrinsero anche suo nonno, sua madre ed il resto della famiglia Marin a lasciare l'isola di Clarino-Zlarino insieme a molte altre famiglie italiane, per cui sono documentati ben due esodi prefascisti Infine, quello attuato dalla Federativa comunista jugoslava di Tito fu dunque per i Dalmati il terzo esodo, sicuramente il più cruento e più drammatico che riguardo principalmente Zara, Lagosta, Arbe, Veglia, Cherso e Lussino, ma numericamente fu il meno significativo, perché l'Austria-Ungheria ed il Regno della Jugoslavia avevano già compiuto un lavoro di pulizia etnica molto accurato e ben rifinito.

Ha preso, quindi, la parola l'on. Renzo de' Vidovich che ha rilevato con amarezza come l'azione dell'Austria-Ungheria, volta a snazionalizzare la Dalmazia ed a sradicare la sua classe dirigente di cultura veneta, sia stata attuata attraverso un ben congeniato strumento politico basato su un fatto molto poco noto: la maggior parte delle spese per il mantenimento delle scuole dell'Impero era a carico dei Comuni, per cui bastava che un'amministrazione comunale passasse dal Partito autonomista dalmata, (che accomunava insieme italiani, croati, serbi, montenegrini, morlacchi, albanesi, ecc.) al Partito popolare croato, (formalmente appoggiato da un basso clero succube a Vienna, nonostante la dirigenza croata fosse composta da elementi violentemente nazionalisti), per chiudere le scuole italiane, eliminare dalle amministrazioni pubbliche la lingua italiana e costringere all'esilio il ceto impiegatizio veneto. Tutto ciò metteva in grave crisi le comunità italiane del luogo.

L'azione di snazionalizzazione ebbe luogo già prima del 1861, quando nacque a Firenze il Regno d'Italia e Casa Savoia dichiarò esplicitamente di volere l'Unità d'Italia. Solo da quella data risulta che i Dalmati italiani abbiano cominciato a guardare verso l'Italia e non più verso un Impero, sempre più nazionalista e filo tedesco.

Nel giro di poco più di vent'anni, con le angherie che ha ben descritto Mario Sardos Albertini e subite anche dalla sua famiglia, ma soprattutto chiudendo le scuole ed estirpando dagli enti pubblici la lingua italiana, si costrinsero le famiglie italiane più agiate, che potevano mandare a studiare i figli in quelle città dell'Impero che avevano conservato le amministrazioni comunali italiane (ad esempio, Enzo Bettiza appartenente ad una delle famiglie più ricche di Spalato studiò a Zara), o di trasferirsi a Zara, Lussino e soprattutto a Trieste Questo spiega perché molti triestini abbiano almeno un nonno dalmata! Formalmente l'Impero asburgico poteva essere accusato solo delle angherie nei confronti degli italiani, attuate attraverso la gendar meria austro-ungarica, come testimoniato dai libri di Virginio Gayda L'Italia d'oltre confine: Le Province italiane d'Austria, 1914 e La Dalmazia, pubblicato nel 1915.

In realtà, l'amministrazione austriaca è stata spesso determinante nel far vincere le elezioni comunali al Partito popolare croato o, peggio ancora, al Partito del diritto croato. Una volta espugnati i comuni, le nuove amministrazioni comunali provvedevano immediatamente a chiudere le scuole italiane, anche quelle più antiche e famose, senza che l'amministrazione centrale di Vienna potesse essere accusata di niente, Sono, quindi, incomprensibili per coloro che ignorino questa tecnica, le ragioni di un esodo degli italiani della Dalmazia verso altre città appartenenti all Impero, ma dotate di amministrazioni comunali italiane ed anche verso le Americhe, già nell'800 (Primo esodo). Nel libro Dalmazia, Regione d'Europa dove ho pubblicato anche una lettera inviata all'allora Presidente della Repubblica Cossiga del 21 agosto 1991, ho documentato che, dopo aver colpito gli italiani, gran parte delle isole della Dalmazia pur abitate da secoli furono del tutto abbandonate dalle popolazioni. Anche da quelle slave, perché, una volta allontanati i professionisti italiani (medici, ingegneri, geometri, capomastri, costruttori di barche e di navi) e gli imprenditori (costruttori di case, commercianti che importavano derrate alimentari, abbigliamento e tutti gli altri generi di prima necessità ed esportavano le produzioni locali) le isole erano diventate invivibili e sono state percià abbandonate anche dalle popolazioni croate che cercarono fortuna nelle lontane Americhe, nella Nuova Zelanda e nell'Australia Questa è la tragedia della Dalmazia, sciaguratamente guidata da una classe dirigente austriaca miope che credeva di poter attuare la politica del divide et impera per sopravvivere per chissà quanti anni, senza rendersi conto che tagliava il ramo sul quale era seduta. Era destinata a precipi-tare come poi inevitabilmente avvenne De Vidovich ha, infine, ricordato che la persecuzione continuò durante il Regno di Jugoslavia, ideata e diretta da Vasa Čubrilović, un esponente della parte più conservatrice e reazionaria del Regno di Jugoslavia che, perseverò nella propria attività anche durante il periodo della Repubblica Socialista Federativa di Tito che lo tenne in grande con siderazione fino al punto di nominarlo Ministro federale!

Insomma, il più cieco nazionalismo, (che la maggioranza degli studiosi ritiene più vicina al filone del razzismo biologico che non a quello del nazionalismo, pur estremista ma costruito su basi culturali), è legato da un filo rosso che attraverso i periodi in cui la Dalmazia fu governata dall'Austria-Ungheria, dal Regno di Jugoslavia e dalla Federativa comunista di Tito almeno per quanto concerne la politica di snazionalizzazione ai danni degli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia.

CHIUSERO A SPALATO PERFINO LA SCUOLA DOVE STUDIARONO FOSCOLO E TOMMASEO

Dopo che il Partito croato strappò a Rajamonti, con il pesante appoggio della gendarmeria e della Marina di guerra imperiale l'amministrazione comunale di Spalato fu tolto l'insegnamento della lingua italiana perfino nella scuola che è stata frequentata dal poeta Ugo Foscolo, di antica famiglia dalmata veneziana, e dal grande sehenicense Niccolò Tommaseo.

VASA ČUBRILOVIĆ IDEÒ LA PULIZIA ETNICA DEGLI ALBANESI E DEGLI ITALIANI NEL REGNO DI JUGOSLAVIA E NELLA FEDERATIVA SOCIALISTA DI TITO, DI CUI FU MINISTRO!

Vasa Čubrilović, già fra gli attentatori di Francesco Ferdinando, sale alle cronache del Regno di Jugoslavia del 1937 quando pubblica il suo Memorandum sulla espulsione degli albanesi. Non una parola sugli italiani di Dalmazia perché, al tempo, il Regno di Jugoslavia aveva firmato accordi con l'Italia fascista (Ciano- Stojadinović) e l'Italia non avrebbe tollerato dichiarazioni contro gli italiani allora rimasti solo in Dalmazia perché l'Istria, Fiume, Zara, Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa facevano parte del Regno d'Italia. Ma, sorprendendo tutti, il sostenitore della razza slava, diventa il beniamino di Tito che non si farà scrupolo di utilizzare le sue teorie non solo contro gli albanesi, ma anche e soprattutto contro gli italiani d'Istria, Fiume e Dalmazia e contro tedeschi, rumeni e ungheresi.

Già il 3 novembre 1944 scrive Il problema delle minoranze nella nuova Jugoslavia, nel quale propone al Governo provvisorio "la deportazione forzata di tutte le minoranze non slave" (dell'ordine di alcuni milioni di jugoslavi di razza "...impura..."). Afferma, senza infingimenti "che la Jugoslavia potrà godere di pace e prosperità solo se etnicamente pura, eliminando le ragioni di controversie tra la Jugoslavia ed i paesi confinanti". Nel 1945 è Ministro federale e diventa membro del Partito comunista jugoslavo. È nominato Decano della Facoltà di Lettere e Filosofia di Belgrado, di cui è anche commissario politico del partito di Tito. È Ministro di Tito dal 1946 al 1950. II KPJ lo nomina professore ordinario per rivedere in senso marxista la storia della Jugoslavia e riceve un gran numero di premi e riconoscimenti dal regime titoista.

Esalta l'utilità di queste guerre che consentono rapidamente di eliminare le popolazioni non slave "in maniera pianificata e senza pietà, per essere ripopolata con elementi nazionali". Ha ricoperto l'incarico di Supervisore delle Parti settentrionali della Jugoslavia, dove le popolazioni germaniche della Vojvodina e delle altre regioni vicine sono state totalmente eliminate. Ancora nel 1987 riceve l'onorificenza massima jugoslava della Stella rossa con fascia. Stranamente, gli studiosi italiani di storia non hanno mai parlato di questo personaggio. Solo quando l'on. Marucci Vascon ha pubblicato il Libro bianco sul problema dei profughi italiani dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia ne hanno fatto cenno in striminzite note a piè di pagina. A quanto ci risulta, anche i tedeschi, albanesi, rumeni e ungheresi non hanno denunciato l'ideologo della pulizia etnica jugoslava.

La rivoluzione comunista rese più tragico l'ultimo esodo del '45

II Presidente della Lega, Paolo Sardos Albertini, ha sottolineato le specificità del terzo esodo dei Dalmati italiani e cioè quello verificatosi a seguito del secondo conflitto mondiale ad opera del Maresciallo Tito.

Rispetto alle vicende precedenti va evidenziato che diverse sono state le vittime e cioè oltre agli Italiani di Dalmazia anche quelli dell'Istria e di Fiume. E inoltre vi è stato un largo coinvolgimento anche di Slavi (di Dalmazia e non solo).

Un'altra specificità va individuata nei metodi seguiti: l'eliminazione fisica e l'esproprio dei beni.

Tutto ciò evidenzia la natura intrinsecamente diversa dell'Esodo a causa Tito da quelli precedenti.

Natura diversa perché la logica che lo guidava non era quella del conflitto tra etnie, bensì quella della rivoluzione comunista che Josip Broz stava realizzando ed in nome della quale il percorso obbligato era appunto quello del terrore.

I Dalmati, come gli Istriani e i Fiumani, gli Italiani come i Croati, gli Sloveni e i Serbi tutti dovevano venire assoggettati al regime del terrore strumento indispensabile per costruire il nuovo stato comunista.

Un reggimento italiano di Dalmati 1805-1814

VOL.  XI  DELLA  III SERIE  XXXIX  DELLA   RACCOLTA

ARCHEOGRAFO TRIESTINO

RACCOLTA

DI

MEMORIE NOTIZIE DOCUMENTI

PARTICOLARMENTE

PER SERVIRE ALLA STORIA DELLA

REGIONE GIULIA

EDITRICE LA  SOCIETÀ DI MINERVA

MCMXXIV  –  1924

COLONNELLO VITTORIO ADAMI
 
Un reggimento italiano di Dalmati

1805-1814

Documenti e notizie sono stati estratti dall'Archivio di Stato. Milano - Ministero della Guerra - Cartelle 413, 414 e 415.

Quando la Dalmazia, con decreto del 30 marzo 1806, venne unita al Regno d'Italia, esistevano già in quella regione alcuni reparti di soldati reclutati territorialmente che presta­vano servizio come fanteria di marina. Con essi, nel mese di settembre 1805, vennero costituiti tre battaglioni, due dei quali furono inviati a Mantova, e poi, con decreto del Principe Vice-Re in data 17 febbraio 1806, fusi in un solo battaglione di nove compagnie, con la denominazione di 1°-Battaglione Dalmata. Era comandato dal Capo di Battaglione Cristianopoli proveniente dall'esercito austriaco.

L'organizzazione di questo battaglione era stata affidata al generale di brigata Milossevich, al quale il Ministero della Guerra del Regno d'Italia mandava, in data 12 marzo 1806, le seguenti istruzioni: 

"Dietro ordine di S. A. I. il principe Eugenio Napoleone di Francia, vice Re d'Italia, si compiacerà, signor Generale, di recarsi a Mantova ove giunto prenderà il comando superiore del battaglione dalmatino, si occuperà particolarmente di stabilire una regolare amministrazione in quel Corpo, farà confezionare sotto gli occhi propri gli effetti di vestiario, provvederà all’istruzione incominciando dai più minuti dettagli ed in ispecie agli ufficiali, ed ali' interna disci­plina, rendendomi conto ogni settimana dei progressi che ne risulteranno in tutte le parti della presente incombenza."

Uno di questi reparti di Dalmati aveva spontaneamente domandato di far parte dell'esercito italiano. Ne ricaviamo la notizia dalla seguente lettera dello stesso comandante capi­tano Cristianopoli, scritta al Ministro della Guerra:

"Fu nel giorno 13 gennajo decorso che questo Secondo Dalmata Bat­taglione si abdicò al servìzio della Casa d'Austria e spontaneamente si dedicò al nuovo Augusto Sovrano della sua Patria. La divota mia persona fu quella che ha il vanto di aver presentato al Generale Lauriston in Venezia i voti unanimi della soldatesca e de’ pochi ufficiali, bassi ufficiali, tamburi e pifferi, sudditi austriaci, di restare più oltre uniti al battaglione. Rimarchi però V. E. che gli ufficiali e bassi ufficiali austriaci hanno fatto di tutto per sedurre la gente del battaglione e non senza gran fatica mi è riuscito di stornare le cattive conseguenze pur troppo terribili. Il 25 gennaio ricevetti l'ordine di recarmi a Mantova".

 
L'impressione avuta dal generale Milossevich di questi soldati dalmati fu ottima. Nella relazione che egli trasmette al Ministero della Guerra in data 1° aprile 1806, dopo aver dimostrato la necessità di sostituire con elementi italiani alcuni sottufficiali austriaci rimasti al battaglione, dice: 

"Riguardo ai soldati posso assicurare V. E. che essi sono figli non degeneri degli antichi Iancovich e Castrioti, de' quali la storia fa ono­revole menzione. La loro taglia, la robusta loro costituzione, la semplicità di carattere, il loro attaccamento ed ubbidienza per chi sa dirigerli e governarli potrebbero assicurare in pari tempo del loro valore".

Il terzo dei battaglioni dalmati proveniente dal servizio austriaco, formato su sei compagnie, aveva continuato a prestare servizio come fanteria di marina. Anch' esso venne riorganizzato dal generale di Brigata Milossevich e prese la denominazione di 2° Battaglione Dalmata. Fu inviato di guar­nigione a Venezia ed i suoi distaccamenti presero parte a varie operazioni di guerra corsara.

In vista dei buoni risultati dati dai primi due battaglioni Napoleone decise di costituire una Legione Dalmati. Infatti il 31 maggio 1806 egli emanava il seguente decreto:


REGNO D'ITALIA

NAPOLEONE

per la Grazia di Dio e per la Costituzione, Imperatore de' Francesi, Re d'Italia, abbiamo decretato   e decretiamo quanto segue:

TITOLO   I.

Art. 1.

Sarà formata una legione in Dalmazia composta di quattro battaglioni, che porterà il nome di Legione Reale Dalmatina.

Art. 2.

Questa Legione sarà comandata da un Colonnello, un Maggiore, un Quartier maestro, da tutti i Capi Operai e dal Tamburo maggiore, in con­formità dì quanto è stabilito relativamente all' organizzazione di un Reggi­mento di fanteria leggera del nostro Regno d'Italia.

Art. 3.

Ogni battaglione sarà comandato da un capo Battaglione, da un Aiutante maggiore, da un Aiutante sott'officiale. Avrà sei compagnie delle quali una di Granatieri, ed una di Volteggiatori.

Art. 4.

Ogni compagnia sarà composta di un Capitano, un Tenente, un Sotto­tenente, un Sergente Maggiore, un Coporal foriere, quattro sergenti, otto Coporali, due Tamburini, due Zappatori e 100 soldati.

Art. 5.

L'uniforme e l'armamento della Legione di Dalmazia corrisponderanno all' Uniforme e all'Armamento della Fanteria leggiera. Il nostro Ministro della Guerra potrà tuttavia far vestire questa Legione nella maniera più conforme alla natura del paese, e coi panni che lo stesso paese somministra.

Art. 6.

La metà degli ufficiali sarà tratta dalla nostra armata d'Italia e nel caso d'insufficienza, dalla nostra armata Francese. L'altra metà sarà presa fra i nativi del paese.

Art. 7.

La metà de' Sotto Ufficiali potrà esser presa egualmente tra le armate di Francia e di Italia.

Art. 8. Tutti ì soldati saranno presi fra i nativi del paese.

Art. 9.

Tutti i regolamenti relativi alla disciplina e al soldo saranno quegli stessi della nostra Armata d'Italia.

Art. 10.

Il consiglio d'Amministrazione, e i due primi battaglioni saranno formati a Zara.

Gli altri due battaglioni saranno formati a Spalato.


TITOLO   II.

Art 11.

Sarà formato in Istria un battaglione organizzato in tutto, come il battaglione della Legione Reale Dalmatina. Questo battaglione porterà il nome dì Battaglione Reale d'Istria.

Art. 12. Sarà comandato un Capo di Battaglione.

Art. 13. Si riunirà a Parenzo.

Art. 14.

I  nostri  Ministri della Guerra, delle finanze, e del tesoro Pubblico del nostro Regno d'Italia sono  incaricati ciascuno in ciò che lo riguarda, della esecuzione  del  presente  decreto, che sarà pubblicato nel Bolettino delle leggi.

Dato da S. Cloud il di 31 maggio 1806.

firm. Napoleone.

Il Ministro Segretario di stato:

                                                              A.ALDINI.



Il 7 luglio 1806 il Ministro della  Guerra affidava l'incarico di costituire la legione Dalmata al Generale Milossevich: 

"La prevengo signor Generale che  S. A.  I. il Vice-re, con suo decreto delli 8 corrente  ha  nominato alcuni ufficiali per la Legione Reale Dalmatina, ed ha determinato che Ella ne faccia provvisoriamente le funzioni di colonnello. E’ intenzione di S. A. I., che Ella si renda sollecitamente in Dalmazia per accelerare l'organizzazione della Legione".


La formazione dei nuovi battaglioni non fu tanto sollecita, essi non furono pronti che nei primi mesi del 1808. Un nuovo decreto stabiliva che la Dalmazia dovesse fornire alla Legione 2700 uomini e che i centri di reclutamento fossero Zara e Spalato. Il contingente era diviso fra i vari comuni. Per raggiungere il numero degli uomini stabilito per ogni comune si provvedeva prima con arruolamenti volontari, non bastando questi, al sorteggio. Gli estratti a sorte potevano anche farsi sostituire. La durata del servizio fu stabilita in 5 anni. I bat­taglioni erano formati da sei compagnie le compagnie si distinguevano in compagnie di Carabinieri, Cacciatori e Vol­teggiatori.                  


L'uniforme dei soldati dalmati era la seguente: abito corto di panno verde coi risvolti rossi alle falde anteriori, abbottonato fin sopra la cintura con 9 grossi bottoni bianchi e foderato di stoffa di colore scarlatto, paramani di panno scarlatto a puntai chiusi da tre bottoni, colletto dritto pure scarlatto. Le compagnie volteggiatori avevano però il colletto di panno color giallo canarino. Sulle spalle due spallette di colore scarlatto gialle per le compagnie volteggiatori, verdi, per i cacciatori. Sottoveste di panno bianco con maniche.


Pantaloni di panno verde, chiusi al disopra del malleolo con tre bottoni. Cappello rotondo rilevato con asola bianca al lato sinistro, nappina rossa per i carabinieri, gialla per i vol­teggiatori e verde per i cacciatori. Berretto di fatica di panno rosso alla foggia di quello usato nel paese.


I due nuovi battaglioni costituiti presero la denominazione di terzo e quarto battaglione del Reggimento Reale Dalmata. Il terzo era comandato dal capo di battaglione Cristianopoli ed il quarto da Catturitz. Con decreto sovrano del 26 giugno 1808 fu nominato comandante del reggimento il colonnello Cav. Moroni.


Ai primi di giugno del 1808 il 3° battaglione venne trasferito a Cattaro ed essendosi nel mese dì settembre ribel­lato il comune di Braich, un distaccamento di 150 uomini di quello stesso battaglione, al comando del capitano Bajo venne mandato contro i rivoltosi unitamente ad altre truppe ed ebbe, durante quell'operazione, alcune perdite.


Nel mese di dicembre il battaglione lasciò Cattaro e si trasferì a Brescia, dove poco dopo venne raggiunto dai bat­taglioni 1° e 2°. Il 4° era rimasto a Zara. Il terzo battaglione dopo aver rifornito di uomini di altri due fu trasferito a Venezia per il servizio marittimo.


In esecuzione degli ordini datati da Milano li 24 marzo 1809, nei primi giorni di aprile i due battaglioni dalmati 1° e 2° si prepararono per entrare in campagna e lasciata Brescia si trasferirono a Monselice seguendo l'itinerario di Castiglione, Goito, Mantova, Sanguinetto, Legnago ed Este. A Monselice furono passati in rivista dal Ministro della Guerra che ebbe motivo di lodare il contegno e la prestanza dei soldati dalmati.


In seguito agli ordini dell'Aiutante Comandante Martel, capo dello Stato Maggiore della Divisione Severoli, della quale i due battaglioni facevano parte, questi partirono per Treviso passando per Padova e continuarono poscia la loro marcia per Conegliano e Bibiano. La sera del 15 aprile bivaccarono davanti a Brugnera e la mattina successiva tre compagnie del 1° battaglione e tre del secondo si portarono avanti con la Divisione Severoli e presero parte alla battaglia di Fontana Fredda. I due battaglioni si batterono molto bene dimostrando fermezza e sangue freddo. In modo particolare si distinsero le compagnie di carabinieri e volteggiatori le quali essendo state spinte in avanti distese in tiragliatori caricarono vigorosamente il nemico e l'obbligarono a ripiegare. L'azione costò ad essi molte perdite: 30 morti, 76 feriti e 92 prigionieri, fra i quali il capitano Maina, il tenente Draghicevich dei Cara­binieri, che fu anche leggermente ferito, ed il tenente dei volteggiatori Cavani.


Il mattino del 17 aprile i due battaglioni, unitamente col resto dell'armata, si ritirarono sul Piave e la medesima sera bivaccarono a due miglia da questo fiume.


Il giorno 19 imbarcatisi a Mestre i due battaglioni si transferirono a Venezia dove presidiarono il forte di Malghera. Il forte non essendo ancora in istato di efficenza una parte della guarnigione venne occupata nei lavori di difesa ed in modo particolare nel tagliare gli alberi che ne coprivano la fronte verso Mestre. Mentre i Dalmati erano intenti a questi lavori, il nemico si avvicinò improvvisamente al forte per tentare d'impossessarsene, ma i soldati avvertiti in tempo, gettati gli attrezzi da lavoro e impugnate le armi, si portarono sui parapetti ed impegnarono un vivissimo combattimento. Le operazioni del nemico erano dirette dall'arciduca Giovanni che erasi posto in osservazione all' ultima casa sulla strada che conduce a Mestre. Tutti i suoi sforzi però riuscirono inutili e l'azione durata sino a sera finì con la completa scon­fitta del nemico che dovette lasciare sul campo 500 tra morti e feriti. I Dalmati pur avendo subito lievi perdite si condussero con grande fermezza e valore.


Il 3 maggio il 1° battaglione fu portato alla forza di 635 uomini e rimase a Malghera, mentre il 2° si trasferì a Chioggia. Il giorno 5 anche il 1° battaglione lasciò Malghera e partì per Mestre dove giunto il colonnello del reggimento dalmata ricevette l'ordine di prendere il comando di una brigata composta di due battaglioni del 7° Reggimento Ita­liano e del 1° Battaglione Dalmata. Lo stesso giorno questa brigata continuò la marcia verso Treviso che era occupata dal nemico.


Il 6 maggio essendosi il nemico ritirato dalla città il Battaglione Dalmata attraversò Treviso e si diresse verso il ponte sul Piave a due miglia del quale circa prese posizione. Qui non vi furono azioni ed il giorno 7 essendo stata sciolta la brigata di manovra il 1° Battaglione Dalmata passò alla Divisione del Generale Fontanelli, per ordine del quale il bat­taglione si trasferì a Treviso. Frattanto il colonnello coman­dante il reggimento aveva chiesto al Generale Fontanelli di poter richiamare da Chioggia il 2° Battaglione Dalmata.


Il 7 maggio il 1° battaglione partì da Treviso con la Divisione Fontanelli e si diresse sul Piave verso Maserada. Il giorno 9 venne compiuta la difficile operazione del passaggio a guado del fiume Piave, operazione non scevra di pericoli per l'altezza delle acque e la forza della corrente.


Passato il Piave venne intrapresa la marcia verso Porto Buffolo passando per Corago. Il giorno 11 il battaglione giungeva a Gradisca sul Tagliamento. Anche questo fiume venne passato a guado. Qui è opportuno ricordare una cir­costanza che fa molto onore ai Dalmati.


Il battaglione essendo giunto a Gradisca senza i viveri il generale Fontanelli aveva ordinato di comandare alcuni uomini di fatica necessari per l'incetta, mentre il battaglione sarebbe rimasto in attesa sulla riva del fiume prima di com­piere il guado. A mezzogiorno i viveri non erano ancora giunti e poiché nelle ore pomeridiane le acque ingrossate avrebbero reso molto più difficili le operazioni del guado, il colonnello fu obbligato a ordinare il passaggio del fiume pur essendo i soldati senza viveri. Gli uomini di fatica giunsero più tardi quando tutto il battaglione era già al di là, e quando il fiume era già ingrossato. Questi uomini oltre alle loro armi ed allo zaino avevano ciascuno  un grosso  sacco di viveri. Come avventurarsi in quelle gonfie acque? Ebbene, essi non esitarono un  momento,  entrarono nel fiume e dopo sforzi inauditi   raggiunsero la riva opposta con tutti i viveri per il battaglione.


L'11 maggio il battaglione bivaccò a Dignano, il giorno 12 era a Venzone, il 14 a Calpolaro, il 16  a Reisfeldt. Qui giunto ricevette l'ordine  dal Generale Bonfanti di attaccare il nemico che era trincerato sulle alture di Tarvisio. Fu questa un' operazione molto difficile perché il nemico occupava una posizione montuosa e fortissima, e riparata sul fronte e sui fianchi da trincee ed abbattute di alberi che costituivano un ostacolo per le truppe attaccanti. Il colonnello distaccò due compagnie sulla destra per attaccare il nemico alle spalle ed egli col resto del battaglione marciò sulla fronte della posi­zione. L'azione fu vivacissima e durò due ore. Benché il nemico avesse anche il vantaggio della posizione dominante e fosse superiore in forze, dovette, di fronte all' intrepida vigoria dei Dalmati, battere in ritirata. Questi ebbero 86 feriti fra i quali il tenente Ferrero, che comandava i carabinieri, e 27 morti. La brillante operazione ebbe coronamento il mattino successivo con la presa di alcuni fortini che erano ancora rimasti pre­sidiati dal nemico. Dopo di che il battaglione si rimise in marcia e la sera del 18 giungeva in prossimità di Villaco dove bivaccò presso il ponte avanti alla città.


Il secondo battaglione frattanto avendo ricevuto ordine di raggiungere il reggimento il 3 maggio partiva da Venezia, il 5 era a Chioggia, il 16 a Brondolo, il 18 a Treviso, il 19 a Conegliano, il 20 a Pordenone e il 21 a Bertiollo, ove trovò il colonnello comandante del reggimento che era venuto ad incontrarlo. Il quale lasciate tre compagnie agli ordini del Capo Battaglione Cristianopoli con l'incarico di muovere sopra Moggio, egli con le rimanenti tre si diresse su Tolmezzo. Qui giunto il colonnello venne assicurato da quel podestà che gli austriaci all' avvicinarsi delle forze italiane avevano com­pletamente evacuato il cantone di Rigolato e si erano ritirati sui monti dietro Paluzza. Allora egli parti alla volta di questo paese dove giungeva la sera del 25. Il giorno successivo arri­vavano in rinforzo delle sue truppe 450 uomini del 3° Reggimento -fanteria leggero, comandati dal Capo di battaglione Olivier e provenienti da Palmanova.


Assunte informazioni il colonnello Moroni venne a sapere che un corpo di Tirolesi occupava il passo di Monte Croce e che un distaccamento di Croati era accantonato all'albergo Stalli ai piedi della montagna nel versante opposto. La posi­zione occupata dai Tirolesi era troppo forte perché il Colonnello potesse sperare di prenderla attaccandola di fronte e perciò, dopo aver sentito i pratici dei luoghi, decise di procedere alle seguenti operazioni: un distaccamento di 150 uomini doveva portarsi ai piedi del passo di Monte Croce e simulare un attacco da quella parte, mentre egli col grosso delle forze avrebbe tentato di valicare la catena alpina al Passo di Pai Grande e prendere cosi il nemico alle spalle. Questa strada tracciata da un difficilissimo sentiero ancora coperto di neve era molto aspra, ma le numerose difficoltà incontrate non ispaventarono i bravi Dalmati che verso le tre pomeridiane riuscivano a superare la vetta dei monti e scendere nel ver­sante opposto dopo aver fugato le pattuglie nemiche. Giunto a Stalli il colonnello trovò questa località occupata da un battaglione di Croati e da 500 Tirolesi. Malgrado la superio­rità delle forze nemiche e la loro migliore posizione il colonnello decise di prendere l'offensiva e dopo aver ordinato a due compagnie di compiere un movimento aggirante egli mosse, alla testa delle sue truppe, ali' attacco del fronte nemico. Il coraggio e la foga degli assalitori sgomentò gli austriaci che dopo una breve resistenza volsero in precipitosa fuga verso Muda (Mauten). Fatta in questa località una breve sosta segui­tarono la ritirata sino a Oberdrauburg dove vi era un corpo austriaco di riserva.


Dopo questa brillante operazione il colonnello considerando che il territorio italiano era ormai completamente eva­cuato dal nemico e che per conseguenza la sua missione era compiuta, decise di raggiungere il grosso dell'armata confor­memente agli ordini del Generale Baraguy d'Hillier. Gli rima­neva ora di scegliere la strada più sicura e più breve per eseguire un tale movimento: ritornando a Paluzza per seguire la via della Pontebba, avrebbe, con questa marcia retrogada, impiegato un tempo enorme, mentre invece si presentava immensamente più breve e diretto il trasferimento a Villaco per St. Hermagor. Ma in quest' ultima località vi era un corpo dì 600-700 austriaci che bisognava prima sconfiggere. Senza esitare il colonnello scelse questa seconda via; congedò il Capo battaglione Olivier che con i suoi uomini del 3° Fan­teria leggero fece ritorno nel Friuli  per il passo di Monte Croce, ed egli marciò risolutamenta verso St. Hermagor. Non ebbe bisogno di combattere perché gli austriaci non appena ebbero notizia dell'avvicinarsi degli italiani abbandonarono quella località e si rifugiarono nel forte di Schaffemburg. Così i Dalmati poterono entrare tranquillamente in St. Her­magor ed impossessarsi di un magazzino, di armi e buffetterie abbandonato dagli austriaci.


Dopo tante vicende di combattimenti e fatiche sarebbe stato giusto concedere a questo valoroso battaglione un po' di riposo. Ma non fu cosi, dopo un giorno di sosta a Villaco si rimise in marcia diretto in Ungheria.


Il 31 maggio era a St. Veit, il 1° giugno a Friesach, il 2 a Hundsmarch, il 3 a Knittelfeld, il 4 a Leoben, il 5 a Bruck, il 6 a Mürzzuschlag, il 7 a Gloggnitz, l'8 a Neustadt, il 9 a Odemburg, il 10 a Güns, l’11 a Steinamanger, il 12 a Papa, il 13 al Sobborgo di Schambatz davanti a Raab, dove venne raggiunto dal 1° battaglione che aveva compiuto un diverso itinerario.


Questa lunga serie di marcie terminò con l'incontro del nemico che era concentrato nei pressi di Papa e di Raab. Gli italiani erano forti di due Divisioni, a ciascuna delle quali era aggregato un battaglione di Dalmati. Tutte le truppe italiane il 14 giugno si diressero sopra Raab, dove alla distanza di qualche miglio dalla piazza il nemico si era ben trincerato e attendeva di pie fermo la battaglia. Mentre una divisione si era avanzata per iniziare l'attacco, l'altra comandata da Servoli ebbe ordine di marciare ammassata, in formazione di colonna di battaglioni. Giunto a contatto del nemico venne ordinato alla prima Brigata di portarsi avanti, ma il movi­mento non potè svilupparsi perché il nemico trincerato dietro una strada coperta opponeva una tenace resistenza; venne allora dato l'ordine alla 2a Brigata, della quale faceva parte il 1° Battaglione dalmato, di portarsi sulla destra e di spie­garsi allo scopo di minacciare il nemico sul suo fianco. La mossa ebbe felice risultato e dopo una vivacissima resistenza il nemico fu costretto a battere in ritirata. Il Battaglione dalmato si distinse in modo particolare avendo egli solo cattu­rato oltre 200 prigionieri. Ebbe però 8 morti e 35 feriti fra i quali 3 ufficiali.


Rimaneva però ancora in piedi la fortezza di Raab che fini però per capitolare dopo dodici giorni d'investimento.


Il 28 giugno la Divisione si pose in marcia diretta a Presburgo dove arrivò il 1° luglio. I due Battaglioni dalmati occu­pavano un importante e difficile posizione di fronte a quella che il nemico teneva al di qua del Danubio. I nostri erano separati dagli avamposti nemici da un piccolo braccio del Danubio ed erano completamente allo scoperto tanto che erano stati obbligati a scavare delle buche per tenersi al riparo. i movimenti dovevano farsi di notte perché di giorno chi si mostrava era indubbiamente fatto bersaglio al tiro del nemico. I soldati soffrivano molto anche per l'aria insalubre della località e per la scarsità del vitto, essendo il loro pane stato ridotto a un quarto di razione ; eppure non si lagnavano. Il 10 luglio sei compagnie con un' improvvisa azione riuscirono ad impadronirsi dì un' isola che si trovava alla destra della posizione di modo che Presburgo restò bloccata unicamente ad opera dei Battaglioni dalmati. Il giorno successivo il colon­nello del Reggimento dalmata messosi alla testa di quattro compagnie marciò verso il primo ridotto nemico e se ne impossessava dopo vivissimo combattimento. La compagnia zappatori che aveva seguito la colonna d'attacco si dette immediatamente ad eseguire lavori di copertura; tuttavia il mantenere il conquistato ridotto non fu cosa agevole essendo battuto da quelli posteriori che lo dominavano. Quest'opera­zione costò ai dalmati 3 morti e 24 feriti. Il giorno 12 gli austriaci abbandonarono tutti i trinceramenti sulla riva destra del fiume dopo di che tagliarono il ponte.


Il 13 giungeva la nuova dell' armistizio e così per qualche tempo queste brave truppe poterono godere una meritata tregua. Tregua però non voleva dire riposo, perché il giorno successivo i due battaglioni si rimettono in marcia. Il 19 luglio sono a Neustadt, il 23 a Leoben ed il 28 a Klagenfurt. Ma anche di qui sollecita partenza. 11 29 il Comandante della Divisione, Generale Rusca, ordina ai due battaglioni di por­tarsi immediatemente a Villaco e di raggiungere il giorno 30 Spital. Il generale Rusca coi due battaglioni dalmati e le altre truppe che aveva ai suoi ordini prese posizione al Ponte della Drava vicino a Scossemburg che era occupato dagli austriaci. Il 1° agosto tutta la Divisione mosse all'attacco ed obbligò gli austriaci ad evacuare il villaggio ed a ritirarsi in disordine.


Frattanto era incominciato il moto insurrezionale dei Tirolesi e i Dalmati erano venuti a trovarsi vicino ai centri di rivolta. Incominciarono allora le operazioni di repressione alle quali furono particolarmente adibiti i nostri due batta­glioni. Fu questa una guerra insidiosa e difficile nella quale i bravi Dalmati dovettero mettere alla prova le loro belle qualità di fermezza e di valore. Le operazioni si svolsero quasi tutte verso Spital, Scossemburg e al Ponte di Moell. Il giorno 8 settembre i battaglioni dalmati giungevano a Brunico nell’Alto Adige per dare inizio anche qui alle operazioni di repressione alla rivolta. Il giorno successivo i battaglioni par­tivano da Brunico per Untervintl, disturbati durante la marcia dagli insorti che nascosti nei boschi delle alture francheggianti la strada bersagliavano con colpi di fucile le truppe che mar­ciavano lungo la strada. Il giorno 12 settembre i battaglioni giunti a Bressanone rientrarono agli ordini del generale Severoli. Il 16 erano a Chiusa di Bressanone ed il giorno stesso il 1° battaglione partì per Bolzano. Qui giunto occupò la frazione di Gries di dove staccò due compagnie comandate dal capitano Vucassinovich al ponte dell'Adige ed un'altra compagnia comandata dal capitano Cambiotti a San Giorgio. Il 18 il secondo battaglione raggiungeva il primo a Gries.


Il mattino del 19 il colonnello fu avvertito che il posto di San Giorgio era stato attaccato dagli insorti. Si portò allora sul posto con un rinforzo di truppe, ma giunto colà il nemico era già stato respinto. Il medesimo giorno per ordine del generale Severoli fu inviata la compagnia dei volteggiatori del secondo battaglione al castello di Rafenstein sulla destra del fiume Talfer ad un'ora di Gries. Lo stesso giorno 19 verso sera i rivoltosi attaccarono nuovamente il posto di San Giorgio; il fuoco fu estremamente vivo, e benché il nemico fosse in forze superiori, fu battuto e respinto. I Dalmati ebbero 1 morto e 7 feriti. La notte del 20 il primo battaglione al comando del colonnello partì da Gries per trovarsi allo spuntar del giorno a Jenesien. Passando per San Giorgio si unirono al battaglione le compagnie che erano colà dislocate. La marcia fu molestata dai rivoltosi che occupavano le alture sopra San Giorgio e ai piedi delle quali doveva passare il battaglione. I Dalmati però ebbero presto ragione di questi insorti che ven­nero posti in fuga sulla stessa via che seguiva il battaglione.


I  Tirolesi giunti a Jenesien furono accolti a colpi di fucile dai soldati del secondo battaglione del primo di Linea e vennero così a trovarsi fra due fuochi. Le montagne che circondavano Jenesien erano tutte occupate dagli insorti che vedendo avvi­cinarsi gli italiani in iscarso numero, poco dopo il mezzogiorno del 20, scesero  numerosi   ad  attaccarli.  Il  combattimento fu lungo ed  accanito e fini con la vittoria degli italiani, i quali ebbero quattro morti  ed  otto   feriti. La  sera il battaglione rientrava  a  Gries dove  venne  preoccupata  la  posizione di San Giorgio.


II  28 novembre le compagnie Carabinieri dei due batta­glioni e la prima del secondo battaglione unitamente ad altre due compagnie scelte del primo Reggimento Cacciatori Napo­litani si costituiscono, al comando  del   capitano  Rinapitz, in colonna mobile  allo scopo di riattivare le comunicazioni con Bressanone interrotte dagli insorti. Arrivata la colonna a Kolman fu attaccata dai rivoltosi i quali furono però in breve battuti e volti in fuga. Nella notte la colonna proseguì la sua marcia verso Bressanone ma fu  continuamente molestata dai tiratori nemici appostati a destra e a sinistra della strada che da Kolman va  alla  Chiusa. Qui  giunta la colonna trovò la strada ostruita  da  una  barricata, ma questa venne superata ed abbattuta dopo di che gli italiani giunsero a Bressanone.


Il 3 dicembre essendo venuto a conoscenza del comando che gli insorti stavano per abbruciare il Ponte di Blumau, venne mandato a quella volta il Capo battaglione Perrin con 200 uomini del primo battaglione, ma era troppo tardi :quando giunsero colà il ponte già ardeva, per cui alle truppe non rimase che di far ritorno a Bolzano.


Il 4 dicembre i due battaglioni dalmati partirono da Bolzano diretti a Klobenstein unitamente al primo reggimento di linea; la sera pernottarono a Saubach, proseguirono quindi per la Chiusa ove incontrarono i tirolesi che si erano appo­stati sulle alture e nel forte. Il primo battaglione prese posi­zione su di un'altura alla destra del borgo della Chiusa ed il colonnello alla testa del secondo battaglione passò il ponte a passo di carica. In meno di un' ora sia il ponte che le posi­zioni del nemico erano conquistate alla baionetta. Il primo battaglione restò alla Chiusa occupando con quattro compa­gnie il forte e con le altre due il ponte e le porte del borgo. Il resto della colonna marciò col colonnello sopra Felthurns e verso le ore tre pomeridiane del 6 dicembre arrivò a Bressanone. Il mattino successivo un distaccamento di 225 uomini agli ordini del capitano Grisogono assieme ad una colonna francese si recava ad occupare Muhlbach. Il 20 dicembre i due battaglioni dalmati erano concentrati a Muhlbach.


Nei primi giorni del gennaio del 1810 i battaglioni, dopo aver compiuto una serie di operazioni di polizia fra i rivoltosi e molti trasferimenti, dei quali si può avere notizia consul­tando il diario pubblicato in appendice, lasciano l'Alto Adige e scendono nel Trentino. Ritornano poi ancora per qualche tempo nell' Alto Adige e finalmente il 16 marzo ricevono l'ordine di rientrare Venezia.

La regina dell' Adriatico accolse i Dalmati con solenni manifestazioni. Essendo tutte le truppe riunite nella piazzetta di San Marco, presente una folla grandissima di popolo il Podestà Renier pronunziò il seguente discorso:


Dalmati valorosi!

"Voi ritornate adorni di quella gloria a cui vi trasse l'esempio del Maggiore fra gli Eroi. Voi avete adempite le alte sue brame, e portate in varie guise contrassegnata la sovrana soddisfazione. Questa città, avvezza ben da gran tempo ad inneggiare delle lodi vostre e dei vostri trionfi ; questa città a voi sempre con tanti rapporti legata si è fatta la cura più ardente di seguitarvi sui campi d'onore. Essa vide con esultanza che i pericoli fra i quali foste agitati a null'altro servirono che ad accrescere l'intrepidezza vostra, il vostro coraggio.

Io destinato per sovrana grazia a rappresentarla unito a questi miei zelanti concittadini, sento il più dolce dell' anima ncll' incontrarvi primiero e nell' offrirvi in suo nome per tutti voi e al distinto vostro Capo il suo giubilo, le sue felicitazioni, i suoi voti."

 

Al Podestà rispose il colonnello col seguente discorso che contiene una concezione politica che ci è molto cara:
 

"Io e tutti gl’ individui del Reggimento che ho l'onore di comandare siamo talmente penetrati dei grati sentimenti che venite d'esternarci che noi non sapressimo con quai termini esprimervene la nostra sensibilità e gratitudine. È ben dolce per i Dalmati il rammentare i sacri vincoli che li hanno per lungo tempo uniti a questa città antica Regina dell'Adriatico, riguardandola essi come loro primitiva madre politica ed i suoi cittadini come lor fratelli primogeniti.

Animati questi giovani guerrieri da quel connaturale marzial valore che tanto distinse i loro maggiori, hanno affrontato, devo dirlo, con una fermezza degna d'ammirazione tutti i pericoli che si sono presentati nella passata campagna sulle sponde della Piave, in quella del Tagliamento, della Sava, della Drava, del Danubio dell'Eisak.

Ciascuno di noi desidera di cuore che i popoli della bella Italia godano d'un tranquillo e lungo riposo all' ombra della pace, ma se la combinazione dei tempi lo esigessero, i Dalmati attaccati sinceramente al Governo saranno sempre pronti a versare il loro sangue per la difesa dello Stato e per la gloria dell'Augusto nostro Sovrano."


Molto brevemente aggiungeremo che in seguito il Reggimento dalmata partecipò alle campagne di Russia nel 1812 ed a quella di Germania nel 1813. In questa ebbe tali perdite che i tre battaglioni che componevano il Reggimento si ridus­sero complessivamente ad una sola compagnia la quale il 25 febbraio 1813 era sull'Oder.


I battaglioni furono di guarnigione a Venezia, Mantova, Bergamo, Brescia, Treviso e Civitavecchia.


Sarebbe troppo lungo seguire tutte le peregrinazioni e raccontare le vicende di questo reggimento: ci basti far rile­vare che esso fu nello spirito e nella forma un reggimento italiano. A questo proposito non sarà inopportuno ricordare un atto di militare virtù compiuto dai soldati di un batta­glione che si trovava a Venezia e che è descritto nella seguente lettera:

VENEZIA, li 2 febb. 1813.

Il quarto battaglione  del   reggimento Reale Dalmate a S. E. il Sig. Conte Ministro della Guerra e Marina 

Milano.

Eccellenza,

II  quarto battaglione di Reali Dalmati, acceso esso pure di quel nobile entusiasmo patrio   che  arde  in tutti i  cori sacri a Napoleone, alla Patria, non sa rimanersi trepido spettatore dell' altrui divozioni al maggiore dei Re.

Esso non offre né armi né cavalli, ma bensì tutti gli individui che lo compóngono, il loro core, le loro braccia.

Toglieteci, Eccellenza, a queste venete lagune, sospingeteci sul campo dell' onore : ardiamo d'impazienza di vendicare l’ affronto che la stagione ha fatto all' arma nostra, di cooperare noi pure a rinchiudere nei loro antri quegli orsi del Nord che la cecità e il delirio ha arrotato al carro de' mercedanti di Londra, di combattere sotto gli occhi di Napoleone, provargli che non siamo degeneri degli antichi nostri padri i Liburni, i Japigi ed aggiungere un ramo di quercia al glorioso serto di cui i nostri connazionali si cinsero il capo a Tarvis, a Reval e sul Danubio.

Gradisca, Eccellenza, la nostra divozione e rispetto.

Il capo battaglione fatto organo dei sentimenti del quarto reale Dalmato.

TORDO.


Per dare un' idea della Composizione del reggimento nei riguardi del reclutamento degli ufficiali diamo in appendice l'elenco degli ufficiali componenti il reggimento stesso nell’anno 1811.


Come si disse, il reggimento venne sciolto nel 1814, mentre aveva il suo deposito a Verolanuova. Il 28 settembre 1814 il generale in capo dell' Armata d'Italia emanava le seguenti disposizioni per lo scioglimento del corpo:


"Il reggimento italiano dalmata, passato in seguito della rivista tenutasi col giorno 9 di agosto p. p. sotto l'amministrazione e soldo del governo Austriaco, sarà disciolto per ordine del Supremo Consiglio Aulico di Guerra a Gorizia in modo tale:

I.  che gli uomini dal sergente abbasso originari della Dalmazia, Ragusa ed Albania saranno aggregati all'I. R. Battaglione austriaco Dalmato.

II.  che gli ufficiali che non voglinno continuare in servizio o che per altre  circostanze  desiderano le loro   dimissioni, si lasceranno liberamente sortire accordando un  trimestre di paga a quelli che siano privi di mezzi.

III. finalmente chi di quelli ufficiali di stato maggiore ed altri che di­chiarano di voler continuare in servizio, sia trasmessa al Consiglio aulico di guerra una dettagliata tabella contenente oltre i loro nomi, la Patria, le lingue e le cognizioni militari che possiedono, gli anni di servizio ed il reg­gimento austriaco al quale desiderano passare, atteso che pochi soltanti potranno essere aggregati al battaglione austriaco della Dalmazia stazionante in Zara essendosi già coperte tutte le piazze. Questi ufficiali dovranno in seguito attendere a Gorizià la destinazione che verrà loro data dal Consiglio Aulico di guerra.

"Ciò è parimenti riferibile ai signori Tenente Colonnello Ghetto, Capitano Vocasinovich e Sottotenente Eonichich adetti al dianzi reggimento dalmata italiano, giacché anch' essi al pari degli altri, si devono considerare passati provvisoriamente col 18 agosto al servizio e soldo austriaco e sol­tanto destinati in via interinale a Monza per la resa dei conti, il che per altro il Comando Generale dell' Armata non ebbe a conoscere che dall' odierno rapporto direttamente inoltrato dal predetto signor Tenente Colonnello.

Qualora poi li summentovati tre ufficiali non potessero immediata­mente trasferirsi a Gorizia, non rimarrebbe altro espediente che quello di rimettere col mezzo di cotesta I. R. Commissione la suindicata tabella colla indicazione del tempo che loro possa tuttavia essere necessario di tratte­nersi a Monza onde poter tosto disporre per il loro congedo e trasmettere la tabella al Supremo Consiglio di Guerra.

Frattanto non vi sarà aicun ostacolo ad accordare, quando ne fac­ciano domanda a questo Comando Generale, il pagamento delle loro paghe dal 9 Agosto a tutto Settembre corrente sul piede di pace austriaco in conto del dianzi Reggimento Dalmato Italiano, che per ordine del Supremo Consiglio Aulico di Guerra, in data 1 Settembre deve essere disciolto ; soltanto dovrà il Capitano Vukassinovich giustificare se egli sia capitano di 1* 2* o 3* Classe, mentre non avrebbe diritto alla paga di capitano effet­tivo austriaco che nel primo caso, ed altrimenti gli competerebbe soltanto il soldo di tenente capitano, al sottotenente Eonichich quella di alfiere austriaco ed al tenente colonnello Ghetto quella di effettivo tenente colon­nello austriaco.

Codesta I. R. Commissione vorrà quindi dare le occorrenti disposi­zioni e comunicarne al più presto il risultato a questo Comando." 

Milano, li 28 Settembre 1814. 

In nome del Generale in Capo

Barone de Vovach.


E così essicò una delle maggiori fonti d'italianità in Dalmazia. Di questa come di altre istituzioni con significato italiano noi dobbiamo essere riconoscenti a Napoleone. E vero che egli dette agli Italiani soltanto una parvenza di libertà, è vero che quel suo esercito italiano era fatto per succhiare il miglior sangue alla nazione, è vero che egli depredò le ric­chezze artistiche del paese, ma è pur vero che con quelle larvate forme di unità e d'indipendenza egli ridestò negli Italiani quella sensazione che da tanti secoli si era in essi sopita: la sensazione della libertà politica, la sensazione della grande Patria. Perché furono appunto le istituzioni civili e militari di carattere italiano da lui create che costituirono il germe di quei primi moti di libertà, l'alba dei quali sorgeva appunto quando principiava per il grande Capitano l'eterna notte.(1)

 
(1) Napoleone con decreto delli 25 Maggio 1807 aveva stabilito che in ciascuno dei tre licei-convitti di Venezia, Verona e Novara ed in altri due che aveva progettato d'istituire, tre posti, con intera pensione gratuita a carico del Governo, fossero assicurati ai giovani della Dalmazia.

Questo è un altro dei provvedimenti che provano come Napoleone avesse concepita la Dalmazia italiana e non altrimenti.


ELENCO DEGLI UFFICIALI COMPONENTI IL REGGIMENTO DALMATA

ANNO 1811

Colonnello Lorot Martino, Francese. Maggiore Gheltof Spiridione, Corfù. Capo   Battaci. Cristianopolì Vinc.,Cattaro. Capo Battagl. Catturitz Gerasimo,Corfù. Capo Battagl. Perrin Giov.Batt.,Francese. Capo Battaglione Goulet Pietro,

Francese. Capitano Mastro Tesoriere Bianchi Federico,Milano. Chirurgo Maggiore Costanzi Gior­gio, Corfù. Chirurgo Aiut. Maggiore Mandonico Agostino, Crema. Chirurgo Aiut. Maggiore Ragazzini Giovanni, Zara. Chirurgo Aiut. Maggiore Gìbellini Vincenzo, Spezzano (Modena). Capitano Aiut. Magg. Testi Marino,Verona.

Capitano Vucetich Giorgio, Cattaro. Capitano Maina Giov. 1°, Cattaro. Capitano  Gicanovich  Natale, Gragiani (Montenegro). Capitano Felicinovich Giorgio, Zara. Capitano Zulatti Nicola, Corfù. Capitano Radonich Andrea, Cettigne (Montenegro).

Capitano Mortin Carlo, Parigi. Capitano Trautman Giov.,Transilvania. Capitano Resich Nicola, Cattaro. Capitano Gambotti Spiridione,Zara. Capitano Maina Giov. 2°, Cattaro. Capitano Carrara Francesco, Palmanova. Capitano Lupi Giacomo, Lesina. Capitano Bajo Antonio, Corfù. Capitano Veruncich Matteo, Signo(Dalmazia).

Capitano Sardo Nicola, Catania. Capitano Grisogano Lorenzo, Spa­lato.

Capitano Knapich Giov., Orsenigo. Capitano Miovilovich Pietro, Cat­taro. Capitano Bollizza Nicola, Cattaro. Capitano Lodena Pietro, Cattaro. Capitano Fantinato Gius.,Castelnovo d'Albania. Capitano Vucassinovich Spiridione, Cattaro.

Capitano Radovani Spiridione, Cat­taro. Capitano Ferrero Filippo,Carignano Torinese. Capitano Draghichevich Giovanni, Spalato. Capitano Mathieu Giuseppe, Luxemburg. Tenente Zavoreo Leone, Zara. Tenente Signoretti Vincenzo, Zara. Tenente   Vucassinovich Giovanni, Cattaro. Tenente Mudiano Alessandro,Corfù. Tenente Morosini Nicola, Zante. Tenente Tacco Natale, Zara. Tenente Medin Giovanni, Albania. Tenente Canani Luigi, Mantova. Tenente Caldana Girolamo, Corfù. Tenente D'Antoni Aless., Corfù. Tenente Fantinato Pietro, Cattaro. Tenente Thor Francesco, Alto Reno. Ten. Vucassinovich Giorgio, Corfù. Tenente Andreani Paolo, Roma. Tenente Micolovìch  Antonio, Pinguente (Istria) Tenente Allexich Giorgio, Cefalonia. Tenente Tonij Carlo, Cefalonia. Tenente Zulatti Vincenzo, Cattaro. Tenente Rosani Agostino, Cattaro. Tenente Cippico Marco, Traù. Tenente Dabovich Gregorio, Corfù. Tenente Stipanovich Nicola, Zara. Tenente Resich Giovanni, Cefalonia. Tenente Bolubanovich Vinc., Zara. Sottotenente Marconati Vincenzo, Zara. Sottotenente Leva Giorgio, Knin (Dalmazia). Sottoten. Boniotti Diaspe, Padova. Sottoten. Fontana  Nicola, Castelnovo d'Albania. Sottoten., Ivanovich Daniele, Udine. Sottotenente Linghini Ant., Trieste, Sottotenente  Mandorsi Giuseppe, Luxemburg. Sottoten. Pasini Gaetano, Brescia. Sottotenente Berettini Sebastiano, Santa Maura (Isole Ionie). Sottotenente Orlandi Francesco,

Viterbo. Sottotenente Petricevich Giovanni, Cattaro. Sottoten. Davita Stefano, Spalato. Sottotenente Ginni Marzio, Abbadia d'Albania. Sottotenente Iovii Filippo, Castelnovo d'Albania. Sottoten. Gelmi Leonardo, Mantova, Sottoten. Napich Francesco, Corfù. Sottotenente   Molinari    Girolamo, Marano.

Sottotenente Collini Stefano, Gargnano. Sottoten.  Tiboldi  Ambrosio, Ber­gamo. Sottotenente Combatti Francesco, Sant' Eufemia di Brescia. Sottotenente Busicchio Ant., Zara. Sottoten. Antelini Girolamo, Corfù. Sottotenente Bustaffa   Girolamo, Mantova. Sottoten. Moretti Spirid., Corfù, Sottotenente Zamboni Paolo, Budua d'Albania. Sottotenente Brunetich Ant., Zara. Sottotenente  Fiori Alberto, Valle d'Istria. Sottoten.Contier Giacomo, Fran­cese. Sottotenente Tampieri Girolamo, Staconza. Sottotenente Antomacchì Giovanni, Loreto di Corsica. Sottotenente Baldi Giov., Losanna. Sottoten. Valerio Michele, Venezia, Sottoten. Tomichich Stellio, Galovaz di Dalmazia. Sottotenente Echli Giuseppe, Corfù. Sottotenente Duval Luigi, Francese. Sottonenente Molin Santo, Corfù. Sottotenente Piccioli Gius., Modena. Sottotenente Stanchi Giov., Novara. Sottotenente Caristo Melchiorre, Venezia. Sottoten. Baio Alessandro, Corfù. Capo di Battaglione Tordo Gius., Toretta (Alpi marittime).

 

DIARIO DEL REGGIMENTO DALMATA

dall'11 dicembre 1809 al 25 marzo 1810.

1809,  dicembre, 11 : Sessanta individui del distaccamento di Mühlbach partirono per Bruneck onde scortare dei viveri. —  12 : Rientro. — 13-16 : Nulla di nuovo. — 17 : Un caporale, ed otto cacciatori del distaccamento di Mühlbach partirono per Bruneck onde scortare dei viveri. — Nella notte parti un distaccamento di 24 uomini a requisizione dèi giudice di Mühlbach per andare in alcuni villaggi sulla montagna a 5 ore di distanza, ed eseguire il fermo di alcuni paesani sospetti, un solo dei quali fu arrestato. — 18: I due distaccamenti suddetti rientrarono a Mühlbach. Verso mezzogiorno partì da Mühlbach un coporale, e 4 cacciatori per iscortare a Brixen il paesano ar­restato la notte precedente. — II medesimo giorno alle 3 ore p. m. furono pure distaccati da Mühlbach 35 uomini comandati, provenienti dalla parte di Bruneck. — 19 : Rientrarono li detti distaccamenti. — 20 : II resto del 2° battaglione ch' era a Brixen si rese a Mühlbach, ove arrivarono pure  le 4 compagnie del 1° battaglione provenienti da Klausen. — Il secondo partì da Mühlbach alle due ore  p. m. per Vals, un distaccamento di 30 uomini comandati da un ufficiale del 1° battaglione partì da Mühlbach per Bruneck, scortando due pezzi d'artiglieria. — 27 : Partì da Bruneck e fu diviso  nei villaggi di Hofern, Mühlen,  Mühlwald per disarmo dei medesimi. —  29: Rientrò a S. Lorenzo.   —  30 :  Centocinquanta  uomini  comandati da  un ufficiale del  1° battaglione partirono da  S. Lorenzo per iscortare  sino a Mühlbach vari carri di armi e due paesani tirolesi prigionieri. — Lo stesso giorno un distaccamento eguale del 2° battaglione partì da Mühlbach per scortare sino a Brixen le armi ed i prigionieri suddetti. —- 31 : Questi due distaccamenti rientrarono nei rispettivi loro battaglioni, cioè uno a S. Lorenzo, e l'altro a Mühlbach.                        


1810,  gennaio, 1 : Un coporale con 10 cacciatori accompagnò da S. Lo­renzo a Mühlbach un convoglio di viveri. — 2: Rientrò. — Lo stesso giorno un distaccamento d'egual numero del 2° battaglione scortò lo stesso con­voglio da Mühlbach a Brixen da dove rientrò lo stesso giorno. — Un altro distaccamento d' egual numero del 1° battaglione scortò da S. Lorenzo a Mühlbach un convoglio di viveri il quale fu poi rilevato da un altro simile distaccamento del 2° battaglione e lo accompagnò sino  a Brixen. — Il  1° battaglione partì da S. Lorenzo per li villaggi di Kiens, Obervintl, Terenten, Hofern e Pfalzen ali' oggetto di disarmarli. — 3 : Li suddetti distaccamenti rientrarono ne" rispettivi loro battaglioni. — 4: II 1" battaglione rientrò da Miilhbach per Klausen. Il 1" da S. Lorenzo si rese a Mühlbach  — 5: II 2° andò a Bozen, il 1" a Klausen. — 6°: 11 2° a Neumarkt,  il 1° a Bozen, — 7: 11 2« a S. Michele, il 1» a Levico. — 8: 11 2° a Trento, il 1° a S. Michele. — La sera un altro distaccamento di  12  uomini ed un ufficiale scortò a Mühlbach il curato di Vals stato arrestato per ordine del signor Colonnello Generale Baraguy d'Hillier.

Il 1° battaglione durante il suo soggiorno a Klausen ha fatto per ordine del signor Generale Bertoletti i seguenti movimenti : dicembre, 8 : Centocinquanta uomini partirono da Klausen sud. per Giadin, Nandel onde requisire le armi. — La medesima sera rientrò. — 12 : Un distac­camento eguale parti verso Lazfons, Giurdins, Verdings per obbligare gli abitanti di quei paesi a palesare ove fosse nascosto un pezzo d'ar­tiglieria. — Rientrò la medesima sera. — 14: Un altro distaccamento di 100 uomini si portò nei paesi al disopra della montagna di Klausen per requisire le armi e le munizioni. — Rientrò la medesima sera. — 17 : Un distaccamento di 60 uomini partì nuovamente per Lazfons in traccia del nominato cannone. — 19 : La compagnia dei cannonieri partì da Bolzano per Trento. — 21 : Rientrò a Mühlbach il distaccamento di 30 uomini par­tito li 20 da Bruneck. — Un caporale con quattro carabinieri scortò a Brixen il curato di Vals. — Rientrò la sera stessa. — Rientrò egualmente a Mühlbach il 2» battaglione che era partito li 20 per Vals. — 23 : II 1° battaglione partì per San Lorenzo. — 24 : Un caporale e quattro cacciatori scortarono a Brixen 35 buoi appartenenti all'Armata.  — 25 : Rientrò.

1810, gennaio, 26 : Un distaccamento di 200 uomini partì da San Lorenzo per Bruneck. 9: Il 2° a Levico, il 10 a Trento.—10: II 2° a Borgo Val Sugana, il 1° a Pergine. Una compagnia di questo battaglione fu distaccata a Civezzano due a Levico e tre restarono a Pergine suddetto. — 11:2 compagnie del 2° battaglione restarono a Borgo con lo Stato Maggiore : due a Strigno, una a Telve ed una a Scurella. — Lo stesso giorno la compagnia dei can­nonieri di Rovereto andò a Trento. — 12 : A Pergine. — 14 : La metà di queste compagnie andò a Borgo. —15-18 : Nessun movimento. — 19 : Di notte un distaccamento di 50 carabinieri si portò alla casa di Masso di Moretta in distanza circa due ore da Pergine per arrestare un certo Andrea Morei, capo insorgente. La medesima sera rientrò in Pergine stessa. — 20-26: Nessun movimento. — 27: Il 1° battaglione partì da Pergine, e pernottò a S. Michele. — 28: Il 2° da Borgo andò a Pergine. — II 1° a Ora, il 2° a Lavis. — 29: II 2° a Caldaro, ove ebbe ordine di restare, fino a nuove disposizioni. — 11 1° a Bolzano. — 30: Il 1° battaglione andò a Brixen. — 31 :  A Bruneck. Quattro compagnie ne occuparono il forte.

1810, febbraio, 1 : La l° e la 2° compagnia del 1° battaglione si portò a Niederdorf. — 2 : Andò al Castello di Lienfels. — 3 : Il 2° battaglione parti da Caldaro, e si rese a Bolzano. — 4: Il Tenente Caldana con 34 cannonieri da Bruneck ritornò a Brixen coi cavalli d'artiglieria restato, essendo nel forte di Bruneck il Tenente Molinari con 16 cannonieri, — 5-7: Nulla di nuovo. — 8: Il 2° battaglione da Bolzano si portò a Klausen. — 9-13 : Nulla di nuovo. — 14 : Il 2° battaglione ritornò da Klausen a Bolzano. Le due compagnie del 1° battaglione ch'erano distaccate al forte di Lienfels andarono a Niederdorf. — 15 : Arrivarono a Bruneck dove raggiunsero il il resto del battaglione. — 16: II 1° battaglione parti da Bruneck per Brixen, lasciando a Bruneck la 3° compagnia. — 17 : Giunse a Bolzano, lasciato avendo a Brixen la 4° compagnia. — Il 2° battaglione partì da Bolzano per Neumarkt. — 18 : Le quattro compagnie del 1° battaglione ch' erano a Bolzano vennero distribuite, 1 a Neumarkt e 3 a Salorno. — II 2° bat­taglione si rese a Lavis lasciato avendo a S. Michele la compagnia dei volteggiatori. — 19-28: Nulla di nuovo.

1810, marzo, 1-3: Nulla di nuovo. — 4 : La 3°compagnia che era stata a Bruneck, partì per Brixen. — 5 : Il 2° battaglione che occupava a Lavis e S. Michele partì par Pergine ove restarono le due compagnie scelte, ed una del centro con lo Stato Maggiore, e le altre tre si portarono a Levico. — La 3° compagnia del 1° battaglione restata a Brixen, venne a Bolzano. — 6 : La detta compagnia da Bolzano si portò a Ora. — 7 : La 4° compagnia da Brixen andò a Bolzano. — 8 : La compagnia stessa arrivò a Neumarkt. — 9-14: Nulla di nuovo. — 15: La compagnia dei cannonieri di Bolzano venne a Neumarkt. — 16 : Dietro gli ordini di S. E. il Generale Baraguy d'Hillior i. due battaglioni partirono per Venezia per le tappe prescritte. Il 2° battaglione da Pergine a Levico, si rese a Borgo, il 1° unitamente alta Compagnia dei cannonieri di Salorno e di Neumarkt, andò a S. Michele e Lavis. — 17 : Il 2° a Primolano, il 1° a Pergine. — 18 : Il 2° a Bassano, il 1° a Borgo. — 19 : Il 2° a Castelfranco, il 1° a Primolano. — 20 : Il 2° soggiornò a Castelfranco suddetto, il 1° arrivò a Bassano. — 21 : Il 2° a Treviso, il 1° soggiornò a Bassano suddetto. — 22 : Il 2° arrivò a Mestre, il 1° a Castelfranco. — 23 : II 2» a Venezia, i! 1° a Treviso. — 24 : A Mestre. — 25 : A Venezia. I due battaglioni arrivarono a Venezia.

Il distaccamento del 4° battaglione ch'era a Lussino comandato dal signor Capitano Zaratovich, e Sottotenente Stegnaich dei carabinieri dopo una difesa di due giorni fu fatto prigioniero li 10 maggio 1807 dagl’ inglesi ed austriaci, i primi condussero seco i signori Ufficiali i quali sono tutt'ora prigionieri, i secondi si condussero li soldati.

Le quattro compagnie dei cacciatori del 4° aumentati con duecento coscritti del 1809, durante la campagna di detto anno, erano di guarnigione due nella Piazza di Zar a col Maggiore del reggimento, e due a Ragusa sullo scoglio detto Croma col Comandante Cattwitz.

Quelle di Zara fecero parte di due sortite allorché gl’austriaci bloccarono quella Piazza, e li soldati dimostrarono la loro divozione ai sovrano battendosi coraggiosamente quantunque dalla parte nemica vi fossero dei capi d'insorgenti dalmati dei loro stessi villaggi i quali li allettavano di unirsi a loro.

Il 4° battaglione parti dalla Dalmazia e si unì agl'altri tre in Venezia li  22  luglio 1810.

Il 1° settembre 1809 fu organizzata la compagnia reggimentaria e fu disciolta li 16 maggio 1810. È stata quindi riorganizzata come attrovasi attualmente il 1° agosto detto anno.