giovedì 27 giugno 2024

Testimonianza di Sergio Baratto

Sergio Baratto, esule da Fiume, narra la fuga della sua famiglia e del sacrificio dello zio Albino Baratto, immolatosi eroicamente per difendere l'ultima bandiera italiana che sventolò sulla città di Fiume.

"Quella che andrò ad esporvi vuole essere una semplice testimonianza di un esule nato il 7 agosto 1933 nella italianissima città di Fiume.

Rappresento uno di quei 350.000 esuli che sono stati costretti ad abbandonare la propria casa e i propri affetti per sfuggire alla bestiale pulizia etnica eseguita dalle bande comuniste di Tito nei nostri confronti.

Io e la mia famiglia, padre, madre e tre figli, vivevamo felici e sereni in una bellissima casa, circondata da un bellissimo giardino, ricordo che dalla mia camera sporgendomi dalla finestra potevo raccogliere da alcuni alberi che la circondavano le albicocche e le ciliege, mentre d'estate entravano in casa i profumi dei fiori che crescevano nel giardino.

Poi, la sera dell'8 settembre 1943, il Maresciallo Badoglio annunciò a sorpresa la firma dell'armistizio e questa serenità cessò bruscamente.

Il nostro esercito si sbandò e le bande slovene cominciarono ad invadere le zone interne dell'Istria. Poi in seguito, come se i nostri guai non bastassero, sulla città di Fiume cominciarono i bombardamenti da parte dei nostri "nuovi alleati".

Ricordo la notte del 9 gennaio 1944, quando iniziò l'inferno sulla città, aerei inglesi e americani cominciarono a bombardare il porto e la zona industriale, ricordo la raffineria ROMSA che bruciava, ci vollero più di 15 giorni per spegnere l'incendio e ricordo che il calore delle fiamme faceva germogliare i fiori sulle piante dei giardini.

Purtroppo quella notte la nostra casa, distante qualche chilometro dalla raffineria, rimase danneggiata dal bombardamento e di conseguenza fummo costretti ad andare a vivere in una vecchia casa di ringhiera di proprietà di una mia zia, casa che non aveva le comodità della nostra ma aveva il grosso vantaggio di essere posta vicino ad un rifugio antiaereo scavato nella montagna, che ci permise di evitare i rischi che gli ulteriori bombardamenti su Fiume ci avrebbero procurato se fossimo rimasti a vivere nella nostra casa lesionata vicino alla ROMSA.

E dopo varie nefaste vicissitudini, arrivò la notte del 3 maggio 1945 quando le bande armate comuniste occuparono definitivamente la città di Fiume.

Quella notte, io e i miei genitori la passammo chiusi nella cantina del caseggiato dove abitavamo e le finestre protette da sacchi di sabbia, tutti abbracciati, mentre fuori imperversavano i combattimenti tra i tedeschi in ritirata e le bande partigiane di Tito. Alla fine i tedeschi, dopo aver fatto saltare le attrezzature portuali, i ponti e incendiato alcuni edifici, abbandonarono la città, non prima però di aver fatto esplodere la polveriera che si trovava in località Valscurigne, a circa 3 Km dalla nostra casa; le deflagrazioni fecero tremare per un paio d'ore le mura del caseggiato, al punto che ci sembrò che da un momento all'altro tutto l'edificio ci crollasse addosso.

Dopo un breve periodo di tempo la vita a Fiume, nonostante gli arresti e le uccisioni, iniziò faticosamente a riprendere, mio padre ricominciò l'attività lavorativa alla ROMSA, attività che consisteva in 9/10 ore di duro lavoro da svolgere con il massimo entusiasmo, perché dicevano serviva per l'edificazione del socialismo, ma che in parole povere serviva unicamente ad insegnare agli slavi come far funzionare le fabbriche di cui si erano impadroniti e, come se non bastasse, alla sera era assolutamente obbligatoria una riunione politica alla quale mio padre si rifiutava di assistere.

Per sua e nostra fortuna fu avvisato in tempo da un amico (rari in quel periodo) di aver visto il suo nome in una lista tra coloro che dovevano essere inviati con la famiglia nell'isola lager di Goli Otok (Isola Calva), oggi rinomata località turistica, allora ultimo girone dell'inferno comunista, perché dovevamo subire una fase di rieducazione.

Eravamo nel settembre del 1946.

Non so come, mio padre venne a conoscenza che un camioncino sgangherato carico di masserizie varie doveva partire nel tardo pomeriggio da Fiume verso Trieste, riuscì in breve tempo a contattare l'autista, il quale accettò di accompagnarci grazie al pagamento di una lauta ricompensa.

Ricordo perfettamente quei momenti, io non mi rendevo conto dei rischi ai quali andavamo incontro, ma vedevo dipinto nel volto di mio padre e di mia madre, che stringevano a sé la sorellina più piccola, l'ansia e la paura. Stavamo abbandonando per sempre la nostra amata città di Fiume, la nostra bella casa e con essa gli affetti e le piccole cose care, le tradizioni, i sapori, gli odori della terra in cui eravamo cresciuti, i colori, le vie, la gente, il nostro dialetto, ogni tanto mia madre si voltava per guardarla, forse sperava che un giorno ci sarebbe ritornata, ma credo, osservando le lacrime che le rigavano il volto, che fosse già convinta che non l'avrebbe rivista mai più, e infatti fu così.

Partimmo nel tardo pomeriggio, la serata era grigia e piovosa, caricammo in fretta le quattro borse che avevamo riempito soltanto di pochi oggetti personali e qualche indumento pesante necessario per trascorrere l'inverno.

(Non mi sono mai separato da quelle quattro borse, mi ci sono affezionato, è come se dentro di esse avessi voluto conservare per non dimenticare le sofferenze di una intera generazione.)

Salimmo sul camioncino e l'autista ci consigliò di posizionarci dietro a dei mobili e di rimanere in silenzio e ben nascosti nel caso ci fermassero le pattuglie partigiane di Tito, che generalmente scorrazzavano nelle zone interne dell'Istria.

Durante il viaggio rimanemmo terrorizzati ma in assoluto silenzio, ben consapevoli che se ci scoprivano il nostro viaggio sarebbe finito in una foiba.

Ogni tanto il camioncino si fermava, sentivamo le voci dei partigiani titini che parlavano in slavo con l'autista, il quale per nostra fortuna sapeva parlare bene la loro lingua, una sola volta qualcuno alzò il telo del camioncino ma lo rinchiuse subito, borbottando parole che noi non comprendevamo.

Grazie a Dio, dopo un viaggio allucinante durato più di tre ore per compiere circa 100 Km, arrivammo a notte inoltrata a Trieste, scesi dal camioncino, notai che il volto dei miei genitori appariva finalmente rilassato, eravamo salvi, l'incubo era finito. Quella notte fummo accolti in un istituto di suore, che ci sfamarono e ci fecero dormire in uno stanzone dove già riposavano altri profughi.

Il giorno dopo, non so come, mia madre venne a conoscenza che in quel di Brindisi esisteva un collegio che ospitava i figli maschi dei profughi Istriani, Fiumani e Dalmati. Smaltite tutte le pratiche e ottenuti i documenti necessari, partii da Trieste da solo in una mattinata piovosa e arrivai a Brindisi nel tardo pomeriggio del giorno dopo, sporco, affamato, stanco e con le ossa rotte a causa dalla notte passata a dormire sulle panche in legno del treno. Dopo aver percorso a piedi la strada che mi distanziava dalla stazione di Brindisi, il collegio "Niccolò Tommaseo" che mi apparve era molto bello e per di più, una volta entrato, mi resi conto che era già frequentato da circa 300 ragazzi istriani che parlavano il mio dialetto, mi sembrò di essere tornato a Fiume, casa mia. 

Inizialmente è stata dura, si cercava con fatica di passare le giornate serenamente, ma i nostri pensieri continuamente rivolti verso la famiglia forzatamente abbandonata ci facevano piombare in uno stato di profonda tristezza, qualcuno cercava di farci ridere raccontando delle sciocchezze, ma era solo un modo come un altro per farci evitare di piangere. Piano piano, però, mi abituai a convivere con questa nuova famiglia e ai ferrei orari che scandivano le nostre giornate. Ricordo, non proprio la fame, ma tanto appetito e i ceci troppo presenti nel menù per essere graditi. Nei momenti della ricreazione ci univamo spesso a cantare le canzoni della nostra terra nel nostro bel dialetto, momenti che ci facevano dimenticare per un momento la famiglia lontana.

Alla fine di questa esperienza, dal collegio Niccolò Tommaseo di Brindisi uscì una generazione di giovani Istriani, Fiumani e Dalmati, conosciuti oggi come i "MULI DEL TOMMASEO", che hanno fatto onore alle loro origini nel mondo intero, non dimenticando mai di essere italiani, solo italiani.

Nel frattempo mio padre, camminando un giorno per le calli di Venezia nella disperata speranza di trovare un qualsiasi lavoro che gli permettesse di mantenere la sua famiglia, incontrò fortunatamente un dirigente della raffineria ROMSA di Fiume, che riconoscendolo lo abbracciò e gli propose un posto di lavoro all'ANIC di Novara. La mia famiglia a quel punto si trasferì e trovò alloggio in una casa di campagna situata alla periferia della città.

Qui purtroppo fummo nuovamente costretti a vivere con la paura. Dico fummo perché in quell'agosto del '47 con loro c'ero anch'io in vacanza estiva. Mia madre mi mandò i soldi per pagarmi il viaggio Brindisi-Novara e ritorno, e così fu la prima volta che dopo la partenza da Fiume la mia famiglia poté ritornare per alcuni giorni nuovamente unita.

La proprietaria dalla casa aveva un figlio di circa venti/venticinque anni, militante comunista, tutte le volte che passava davanti alla nostra porta urlava "Sporchi fascisti vi ammazzeremo tutti". Mia madre spaventata stringeva le mie due sorelle al petto, mentre mio padre voleva uscire per rispondere in qualche modo a quelle invettive, fortunatamente mia madre riusciva sempre a convincerlo di non fare sciocchezze.

Rimasi sconvolto da questi fatti, perché a Brindisi queste cose non succedevano. Anzi devo dire la verità, a Brindisi non ci sono mai stati episodi di ostilità nei nostri confronti.

Ricordo, con particolare emozione, il giorno in cui un'anziana signora mi fermò chiedendomi se per caso noi ragazzi fossimo i figli dei fascisti uccisi in Istria, alla mia risposta negativa mi guardò con tenerezza, mi fece una carezza e se ne andò in silenzio. Un gesto umano di una donna brindisina nei riguardi di un piccolo esule fiumano che mi commosse e che non dimenticherò mai, in quel momento per me era stato come ricevere una carezza da parte di mia madre lontana.

Questi episodi di ostilità verso la mia famiglia si sono profondamente sedimentati nella mia memoria e hanno notevolmente contribuito a farmi prendere un orientamento di vita nettamente anticomunista, orientamento già sviluppato nell'impatto che ebbi a Fiume sotto il regime comunista di Tito.

Fortunatamente la permanenza dei miei a Novara si limitò a qualche mese, perché a mio padre fu proposto un lavoro nella raffineria di Tagliabue di Villa Santa, un paese vicino alla città di Monza, gli promisero una casa, un ottimo lavoro con un ottimo stipendio, e mio padre accettò.

Il primo impianto di raffinazione della raffineria lo si deve a mio padre, fu lui unitamente ad altri profughi fiumani, tutti dipendente della ROMSA di Fiume, a costruirlo e ad inaugurarlo mettendolo in funzione nel 1948. A questo punto i miei decisero che per me era arrivato il momento di abbandonare il collegio di Brindisi al fine di ricomporre la famiglia e di ricominciare la nostra vita finalmente uniti.

Gli abitanti di Villasanta, pur non accogliendoci con particolari slanci di solidarietà, ci evitarono però le umiliazioni che i miei subirono in altre località italiane.

Noi ci rendevamo conto che i tempi erano duri per tutti e la gente afflitta da mille problemi, ma capimmo anche che il rancore nei nostri confronti non arrivava da tutta la gente ma da una minoranza ubriacata da una pesante campagna propagandistica di diffamazione che la sinistra, protesa a salvaguardare l'immagine del comunismo in Italia, ci indicava al pubblico ludibrio come ricchi fascisti che fuggivano dalle magnifiche sorti progressiste del comunismo di Tito, mentre in realtà chi fuggiva era l'imprenditore, il nobile, il professionista, l'operaio, il contadino, il pescatore, in poche parole la rappresentanza del tessuto sociale di una intera regione che cercava soltanto di vivere libera da italiani in terra italiana.

Grazie a Dio dopo le elezioni politiche del '48, che andarono fortunatamente come tutti sappiamo, io e la mia famiglia, perfettamente integrati con gli abitanti di Villasanta, potemmo vivere pacificamente e serenamente per circa 10 anni in questo paese, trasformatosi oggi in una splendida cittadina.

In seguito i miei si trasferirono definitivamente a Milano, avevano trovato finalmente una casa confortevole, anche se inserita in un contesto che non si adeguava perfettamente alle loro abitudini fiumane.

Io non seguii i miei perché allora lavoravo all'ufficio studi della moto Gilera di Arcore e pertanto preferii rimanere a vivere a Monza, integrandomi anche qui perfettamente con i monzesi, tanto che mi sono sempre ritenuto e mi ritengo tuttora un monzese d'adozione, non dimenticherò mai però le mie origini di esule fiumano.

Attualmente vivo con la mia nuova famiglia in un delizioso paesino della verde Brianza in provincia di Lecco.

Probabilmente ora qualcuno di voi si chiederà cosa rimane dopo tanti anni ad una persona costretta da vicende storiche e politiche a lasciare la casa e i suoi affetti?

Posso dirvi che sicuramente rimangono i ricordi, il rimpianto, la nostalgia, ma soprattutto rimane in noi la voglia di raccontare a voi per condividere con voi una triste pagina di storia italiana per molto, troppo tempo dimenticata. Voi dovete sapere che il popolo Istriano, Fiumano e Dalmata, nonostante la tragedia che lo ha duramente colpito, non si è mai piegato e non è stato mai messo in ginocchio da nessuno.

Io oggi, nonostante tutto, mi sento un privilegiato, perché in un angolo di questo pianeta c'è la mia Fiume, che nessuno mai mi potrà togliere perché appartiene alla mia vita e alla mia memoria. Appartiene ai miei cari che mi hanno preceduto e che hanno calpestato il suo suolo, al mio papà e alla mia mamma, che purtroppo non ci sono più, al loro amore che ha dato vita a me e alle mie sorelle e a tutto l'amore che ci ha legato in una famiglia felice.

Ma mi dovete permettere di dire con fermezza che questa nostra città appartiene per diritto agli eroi Fiumani, tra i quali includo orgogliosamente mio zio BARATTO ALBINO, trucidato a Fiume nel 1945 dai partigiani comunisti di Tito.

Ho impiegato quasi settant'anni di ricerche, ma sono riuscito finalmente a scoprire la verità sulla sua morte eroica, peccato che mio padre non c'è più, ne sarebbe stato fiero come lo sono io in questo momento.

A tal proposito il "Centro Studi Adriatici" di Roma ha pubblicato quanto segue:

"Ricordiamo il sacrificio del sottufficiale della Milizia Albino Baratto, nato a Zara nel 1902, residente a Fiume sin dall'infanzia. Circondato, il 28 aprile 1945, dagli slavi si difese sino all'estremo. Ferito ripetutamente continuò a combattere manovrando da solo l'ultima mitragliatrice rimasta al suo reparto ormai distrutto, finché rimasto senza munizioni venne catturato e massacrato".

Per questo motivo, ci tengo a sottolinearlo, gli è stato conferito nel 2015 un riconoscimento e una medaglia commemorativa da parte del Presidente della Repubblica Italiana. Un eroe che ha immolato la sua vita per difendere l'ultima bandiera italiana che sventolò sulla mia amata città di Fiume. Ma noi allora come oggi non eravamo e non siamo importanti per nessuno, purtroppo l'odio verso di noi non è ancora sopito, ancora oggi troviamo nella nostra Patria italiana ostilità e indifferenza a causa di una verità negata e mistificata dalla falsa storiografia dei cosiddetti vincitori, verità poi sottaciuta da una classe politica imbecille, vile e traditrice. Cercavamo rifugio in quel che restava della nostra Patria italiana e trovavamo non solo indifferenza, ma anche e soprattutto ostilità e rancore da parte dei comunisti italiani.

Queste cose mi addolorano, al punto che in certi momenti con fatica trattengo le lacrime... lacrime di rabbia. Nel nostro bel dialetto fiumano si usa dire che "quando se diventa veci xe gà la voia de pianzer come i fioi". Se per causa di questi ingiusti comportamenti da parte delle autorità comunali e nazionali nei nostri confronti mi viene la voglia di piangere come un bambino, non è perché sono diventato vecchio, ma perché ancora oggi, dopo settant'anni da quando siamo stati costretti a lasciare la nostra casa, i nostri affetti, le nostre tradizioni, il nostro dialetto e la nostra gente, continuiamo ad essere maltrattati come italiani esuli in terra straniera.

"Sergio Baratto, esule fiumano di prima generazione, nato a Fiume il 7 agosto 1933. Abitavo alla case Romsa in via Locatelli 3, oggi purtroppo via Ulica Ivana Susnja."


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