giovedì 27 giugno 2024

Giuseppe Marussig

Giuseppe Marussig (1893-1938) nacque a Fort Opus in Dalmazia, dove il padre Niccolò Marusich, di Borgo Erizzo, era insegnante alla scuola elementare. La madre Maria Franičević-Cippico, probabilmente anche lei insegnante di professione, proveniva da una delle sette località situate tra Spalato e Traù denominate Castella. Di lei, però, sono rimasti pochi dati, dato che molto presto fu costretta a lasciare la famiglia non potendo sopportare le accuse di infedeltà con cui la tormentava il marito. La mancanza dell'amore materno segnò il giovane Giuseppe, che diede tutta la colpa al padre e conseguentemente fece tutto contro la sua volontà. 

Nelle lotte politiche tra i partiti italiano e croato che segnarono il periodo del primo anteguerra in Dalmazia egli si oppose al padre che si dichiarò croato, e si schierò con il partito italiano, cambiando persino il cognome paterno Marusich in Marussig. 

Si dedicò abbastanza giovane alla letteratura, pubblicando nel giornale zaratino «Il Dalmata» le novelle Troppo tardi e Offerta e articoli di attualità o su autori italiani contemporanei, e tenendo conferenze su vari argomenti di letteratura, arte e cultura. Essendo malato, trascorse gli anni della prima guerra mondiale per lo più in ospedale. Cercando di cambiare l'immagine di bohémien o vagabondo che di lui si era creata in Dalmazia, dopo la guerra si trasferì a Roma, dove svolse la carriera di giornalista, critico letterario e scrittore. Pur vivendo lontano, rimase in contatto con la Dalmazia pubblicando articoli di critica letteraria e di cultura su periodici zaratini e recandosi a Zara per tenere conferenze su vari argomenti.

A Roma assai presto si fece strada nel vivace ambiente culturale della capitale. Dopo due anni di lavoro al «Popolo romano», fu invitato a collaborare alla «Nuova Antologia», sulla quale pubblicò il suo romanzo Uomini di confine, la prima parte del romanzo incompiuto Risveglio e articoli in cui trattava vari argomenti letterari e culturali, e occasionalmente riportava dai giornali croati notizie su interessanti eventi culturali o conferenze riguardanti i rapporti tra l'Occidente e l'Oriente. 

Lavorò anche all'Ufficio Storico della Marina (dal gennaio 1927 al settembre 1931), poi nel Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda, trasformato poi nel Ministero per la Cultura Popolare. Verso la fine della sua esistenza, già minato dalla malattia che lo condusse a una morte prematura, lavorò come speaker alla Radio dell'E.I.A.R. Frequentò circoli di letterati e critici e fece amicizia con noti rappresentanti della vita culturale romana, tra cui Lucio D'Ambra e Cesare Giulio Viola, dimostrandosi «un eccellente amico, prodigo nei consigli, amore e attenzione». Però anche in questo ambiente visse amare esperienze non sapendo essere un giornalista militante. Descrivendo il suo carattere, la malattia e le ragioni per cui non poteva essere diverso, il giornalista Oscar Randi, come in precedenza Ildebrando Tacconi, accenna al suo temperamento, alla sua origine albanese e alla crescita nell'ambiente dalmata. 

Menziona inoltre la continua tragedia famigliare, morale, fisica e politica, che, insieme a una serie di delusioni amorose nell'adolescenza, fu causa di alcuni tentativi di suicidio.

Marussig stesso si autodefiniva esule e nel descrivere il suo sacrificio per l'Italia usava parole che assomigliavano a quelle di Niccolò Tommaseo:

Io sono esule di Dalmazia. E se la mia vita di esule ha potuto aver qualche volta le apparenze del vagabondaggio, le mie origini e la mia natura non sono di vagabondo. Per l'Italia ho patito il carcere. Per l'Italia ho lasciato con dolore la mia terra e la mia famiglia. Per l'Italia ho subito molte umiliazioni. Se non ho dato alla patria la vita, le ho dato forse la salute. Non me ne glorio. Ho fatto solo una parte del mio dovere. Ma insomma, ho fatto il mio dovere.

L'attività del Marussig letterato è contrassegnata dal libro di novelle I due specchi e dal romanzo autobiografico Uomini di confine. Si è distinto anche come critico letterario, pubblicando numerosi articoli su riviste e giornali del tempo. Una parte dei suoi contributi è stata raccolta nel volume Scrittori di oggi, che contiene giudizi critici su alcune significative voci letterarie del tempo come Federigo Tozzi, Guido Gozzano, Luigi Pirandello, Arturo Colautti ed altri.

Tra le novelle raccolte nel libro I due specchi, per lo più a sfondo sentimentale e filosofico, spicca La verità, di stampo autobiografico, nella quale Marussig «espande il suo cruccio segreto per la fatale incomprensione, che gli dilaniò la famiglia ed amareggio la sua fanciullezza». La novella, che ha lo stesso protagonista del romanzo Uomini di confine, è scritta in forma dialogata. Il giovane Giulio fa una profonda analisi della propria vita, in particolare del rapporto con il padre, cercando di rintracciare le radici e le cause della sua inquietudine e dell'implicita accusa nei confronti del padre per l'allontanamento della madre dalla famiglia. Nel protagonista si riconosce l'autore stesso, che nella finzione narrativa traspone l'incomprensione e l'accusa nei confronti del padre, il quale cerca di spiegare le ragioni del proprio comportamento, cui segue quella conciliazione tra padre e figlio che nella vita reale non si realizzerà mai.

Uomini di confine da un lato rappresenta significativamente la produzione letteraria zaratina della fine Ottocento e della prima metà del Novecento, geograficamente ma anche psicologicamente una letteratura di confine; dall'altro riflette le tendenze della letteratura europea contemporanea e l'atmosfera generale del decadentismo. Ciò si vede non solo nel titolo del romanzo, ma, come è stato detto, anche nel complesso tema dell'uomo segnato da rapporti difficili sul piano individuale e sociale, alla ricerca delle proprie radici e del tempo perduto. Il protagonista Giulio Negri è in cerca della patria perduta (Fort Opus in Dalmazia, sul fiume Narenta) e indaga le radici della sua 'malattia', soprattutto il rapporto difficile con il padre a causa del quale era stato costretto ad abbandonare il luogo nativo. A differenza della novella La verità, dove l'indagine si fa attraverso il dialogo con il padre, in questo romanzo l'autore sceglie un altro interlocutore. Dopo molti anni di vita lontano da Fort Opus, il protagonista visita lo zio materno Giuseppe ormai vecchio e malato, con cui discute della sua famiglia e della vita in genere, arrivando attraverso il colloquio a fare in un certo senso luce sulla sua esistenza tormentata. È un groviglio interiore che la fuga dal luogo nativo non riesce a sciogliere, perché l'uomo è segnato per sempre dall'ambiente di provenienza, al quale bisogna tornare per ritrovare la pace:

Si parte un giorno dal proprio paese; ci si butta nella vita con uno sforzo di volontà che somiglia a un lancio; si dimentica il luogo della propria origine; e si va, si va. Dove? Così si va; spinti da un'inquietudine che non può avere un nome certo, come non ha un valore chiaro. [...]

Si va; e il nostro cammino è una continua menzogna: oblio del nostro luogo natale; vergogna della semplicità dalla quale siam pur venuti alla nuova vita non semplice né sincera; negazione dei nostri veri bisogni e tentativi di creare, per forza di volontà, altri bisogni, solo apparentemente meno vili, più difficili, più nobili.

Menzogna, menzogna. Si sogna una vita falsamente eroica; si insegue il falso ideale di un eroismo sovrumano; e, poiché non si può cancellare il proprio nome, ecco si cancella il nome del proprio luogo e si prende un pugno di quella terra benedetta dalla quale si è sorti e dove sono seppelliti i propri avi, dove riposa tutta la gente del proprio sangue, e la si butta al vento, con la speranza che quella nuvoletta di polvere diventi il principio della nube misteriosa della gloria.

No, no, bisognava tornare, tornare anche con la mente, anche con lo spirito, alla propria terra; bisognava, lì, nella propria terra, in mezzo alla propria gente, fare un onesto esame di coscienza; bisognava purificarsi: riconoscere di avere operato male, pentirsene, fare il proponimento di vivere un'altra vita; un'altra vita, seppur minore, certo più onesta.

Tutto il romanzo è permeato di nostalgia, inquietudine e del pessimismo relativo alla patria perduta, e al faticoso processo di abbandono e oblio, e particolarmente al ritorno alle radici, che sembra quasi impossibile: «Spesso, assai spesso, tornare al luogo da dove si è partiti, è compiere il viaggio più difficile, perché la verità non è sempre davanti a noi».

Attraverso l'autoanalisi Giulio riesce a scoprire un'altra causa del suo disagio esistenziale: oltre alla sindrome della patria perduta, è pervaso anche da un'inquietudine interiore, ereditaria, determinata dall'appartenenza a quella terra di confine, quell'ambiente in cui per secoli s'intrecciano gli influssi dell'Oriente e dell'Occidente:

Destino di una famiglia, soltanto? No. Più vasto di una casa era quel dramma: vasto quanto tutta quella loro terra, quanto tutta quell'ultima Dalmazia, sperduta, lì, al confine di due civiltà contrarie, campo di battaglia di tutte le guerre cruente e incruente di due stirpi diverse e avverse.

Non si può senza danno vivere secoli e secoli su un lembo di terra dove sempre si sono scontrati l'Occidente e l'Oriente; dove sempre hanno conteso genti di sangue nemico. [...] Popolo senza pace, il loro; povero piccolo dimenticato popolo che senza pace nasceva e senza pace moriva, condannato a consumarsi in quella sua inquietudine perenne. [...]

Tristi frutti di cento incroci, frutti avvelenati di quella terra, vissuti sempre in quella zona dove stirpi nemiche avevan lasciato per secoli e secoli e tuttora lasciavan i propri detriti come il mare lascia i suoi su certe spiagge disperate, quegli uomini dovevano spendere la maggiore e la miglior parte della propria forza solo per camminare. Non era naturale, poi, che a ogni impresa giungessero già stanchi?

Un momento decisivo del viaggio introspettivo del protagonista verso la soluzione della sua crisi è il viaggio reale che fa con lo zio a Mostar: «questo lembo d'Oriente, che abbiamo qui, a due passi». La città con il suo ponte di origine ottomana è rappresentata come un luogo di incontro e influssi reciproci della civiltà occidentale e da quella orientale, dove il confine fisico (il fiume Narenta) viene superato dal legame spirituale tra i popoli che vi convivono:

Per noi, qui, è un'altra cosa. Questo popolo ci è tanto vicino, vive su la nostra stessa terra.
Che siamo andati noi verso di lui o che sia venuto lui verso di noi o contro di noi, poco importa. Il confine, questa sottile ma profonda linea che spartisce rigidamente i diritti, non sempre separa nettamente anche le anime. Noi siamo legati ormai da una parentela ideale a questa gente. Secoli e secoli abbiamo respirato vicino a loro e un certo influsso nella nostra vita lo devono avere avuto.

Trovando, attraverso il colloquio con lo zio e l'introspezione, una parte delle risposte ai suoi tormenti e la causa del suo male oscuro, il protagonista riesce ad acquistare un relativo equilibrio, riconoscendo la propria sensibilità affine a quella di un artista decadente, consapevole della 'malattia' dell'uomo moderno:

Egli sapeva finalmente la causa della sua inquietudine; sapeva l'origine e la qualità della forza che l'aveva mosso e poi l'aveva aiutato ad andare; sapeva quale sentimento non gli aveva permesso di riposare, di aspettare, di raccogliersi. [...]
Egli aveva avuto la fortuna che pochi uomini hanno: di conoscersi, di capirsi, di vedere la propria vita come si vede quella di una perfetta creatura poetica.

Alla complessità del tema trattato corrisponde la struttura e il tono del romanzo. Lucio D'Ambra lo descrive «scontroso nei modi, patetico nel fondo, sensibilmente umano, con questa caratteristica: che, pauroso della retorica, raggiungeva in ogni pagina la poesia quanto più tentava, pudico e schivo, di sfuggirla». Cesare Giulio Viola, invece, parlando dell'importanza del romanzo nella produzione letteraria italiana ed europea e nel clima culturale del tempo, lo vede come il riflesso della crisi generale causata dalle vicende storico-politiche del tempo, che, come sempre, colpisce in particolare le zone di confine:

È il libro della crisi spirituale che nella smembrata Europa colpì tutti gli uomini che si trovarono con un piede da una parte e uno dall'altra in quel riassetto che la guerra credé di portare nel mondo, a prezzo di tanto sangue, e in nome di tante pretese equiparazioni. Nacque, allora, più vivo il problema degli uomini di confine: uomini senza unità che avevano aspirato a un'unità; nei quali si perpetuava il conflitto di sentimenti e di pensieri contrari, in cui parlarono le parole diverse di una stessa passione, le ore o le stagioni diverse di una stessa vita. Confusioni di sangue, di razza, di tradizioni, che cercarono un ubi consistam spirituale, una tregua all'affanno di secoli. Uomini spaesati, non paghi del proprio paese, e non accolti nella cerchia d'una agognata patria ideale.

Di Marussig e del suo romanzo si sono occupati anche i critici zaratini. Marco Perlini, in un suo saggio sugli scrittori dalmati, trova analogie nel temperamento e nel modo di scrivere tra vari rappresentanti della vita letteraria e culturale passata e contemporanea, menzionando appunto Marussig, che, come molti altri dalmati (san Girolamo, Tommaseo, Colautti), errava lontano dalla patria. Nel romanzo Uomini di confine, secondo Perlini, sono raccolte tutte le insicurezze, i dubbi, le nostalgie, le aspirazioni, le amarezze, le contraddizioni e gli entusiasmi della gente nata al confine tra due culture. Ildebrando Tacconi in uno dei suoi studi sulla letteratura dalmata annovera Marussig tra i più significativi scrittori dalmati e definisce la sua opera «inquieta e tormentata», la quale, oltre ad essere di valore artistico, è anche «documento umano, legato alla crisi politica d'Europa», che Marussig sentiva profondamente e il tormento che in lui essa suscitava lo esprimeva anche nei suoi articoli politici, nelle novelle e negli scritti critici.

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