domenica 31 dicembre 2023

Fino alla fine: Licio Visintini e Giovanni Magro

Dal diario del Tenente di Vascello Licio Visintini, nato nel 1915 a Parenzo, fondatore della "Squadriglia dell'Orsa Maggiore"(gruppo di incursori della Xª Flottiglia MAS), due Medaglie d'Argento ed una Medaglia d'Oro al Valor Militare.

7 Dicembre 1942: ore 17.00 "Gli apparecchi sono pronti e le cariche sono innescate.

Si possono vedere i tre SLC allineati in fila, davanti all'acqua, e sembrano tre piccoli

temibili vascelli. Usciremo in mare ed in tutti i modi siamo risoluti a vendere molto

cara la nostra pellaccia. Gli obiettivi sono: - Corazzata "Nelson": io

- Portaerei "Formidable": Manisco

- Portaerei "Furious": Cella

"Credo di aver previsto tutto. Comunque ho la coscienza perfettamente tranquilla perché so di avere dedicato tutto me stesso per il raggiungimento ed il successo di questa operazione. Prima di partire rivolgo una preghiera a Dio affinché coroni le nostre fatiche col premio della vittoria e affinché guardi benignamente l'Italia e la mia mutilata famiglia. Viva l'Italia".

Il Tenente di Vascello Lico Visintini uscì dal Piroscafo "Olterra" alle 23.15 del 7 dicembre 1942 a bordo del SLC 228, assieme al Sottocapo Palombaro Giovanni Magro, in direzione delle ostruzioni del porto di Gibilterra, battute dal fascio dei proiettori e vigilate febbrilmente dalle vedette inglesi, sotto gli schianti delle bombe di profondità lanciate a brevissimi intervalli. Nella fase più delicata della missione, dopo aver superato le più difficili ostruzioni esterne ed essere entrati nel porto, Visintini e Magro trovarono la morte nella deflagrazione di cariche esplosive lanciate in mare dalle imbarcazioni inglesi di vigilanza agli sbarramenti foranei.

Entrambi vennero insigniti della Medaglia d'Oro al Valor Militare alla Memoria.

«…Noi piccolissimi vogliamo colpirvi audacemente nel cuore e in ciò che costituisce il vostro maggior orgoglio. E attendiamo, da questo gesto, che il mondo si decida una buona volta a comprendere di che stoffa sono gli Italiani.»

(Licio Visintini)

Il plebiscito negato (2)

Un manifesto affisso a Milano ai primi di novembre del 1946 invocò, come unica garanzia di salvezza, il diritto all’autodeterminazione dei popoli previsto dalla Carta atlantica.

In vista del 3 novembre 1946, mesta ricorrenza dell’arrivo a Trieste delle truppe italiane nel 1918, il Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara, presieduto dal capitano Lino Drabeni, esule zaratino, stampò e affisse a Milano un manifesto che invocava il plebiscito per la Venezia Giulia. Da allora se n’era persa traccia, ma la Redazione de “L’Arena di Pola”, avendolo avuto in copia da un’abbonata, lo propone ai lettori nella pagina a fianco.

In alto campeggiava una frase attribuita a Roosevelt, Churchill, Stalin e Truman e riportata anche in inglese: «Non approveremo nessuna modificazione territoriale che non sia in accordo con il desiderio liberamente espresso dalle popolazioni interessate». Si trattava del secondo degli otto «principi comuni della politica nazionale dei loro rispettivi Paesi» che il 14 agosto 1941 il presidente americano Roosevelt e il primo ministro britannico Churchill annunciarono al mondo dalla corazzata “Prince of Wales”, al largo dell’isola canadese di Terranova. Tali principi costituirono quella che passò poi alla storia con il nome di «Carta atlantica».

I fatti successivi dimostrarono che in realtà si trattava soprattutto di propaganda bellica. Ma quel documento, mai discusso dai Parlamenti americano e britannico, era pur sempre la base politica su cui si stava cementando l’alleanza tra le due potenze anglo-sassoni. E non solo: infatti, nel giro di pochi mesi la Carta atlantica divenne la piattaforma ideologica di tutti gli Stati belligeranti contro la Germania, l’Italia e, dopo Pearl Harbor, il Giappone, nonché contro i loro sodali. Il 24 settembre 1941 vi aderirono 15 Governi, effettivi o in esilio: Australia, Belgio, Canada, Cecoslovacchia, Francia, Grecia, Jugoslavia, Lussemburgo, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Sudafrica e URSS.

Il 1° gennaio 1942, quando gli USA erano appena entrati in guerra, i plenipotenziari di 26 Paesi, tra cui il Governo in esilio della Jugoslavia monarchica, sottoscrissero alla Casa bianca la «Dichiarazione delle Nazioni unite», dichiarando solennemente di aver «accettato un comune programma di propositi e principi contenuto nella Dichiarazione del Presidente degli Stati Uniti d’America e del Primo Ministro del Regno di Gran Bretagna e Irlanda del Nord in data 14 agosto 1941, nota col nome di Carta Atlantica».

Altri 21 Paesi aderirono successivamente a tale Dichiarazione delle Nazioni Unite. Tutto sembrava perciò far supporre che la Carta atlantica dovesse costituire la pietra miliare del futuro “nuovo ordine mondiale”, da codificare nei trattati di pace post-bellici. Il suo contributo politico alla vittoria alleata fu perciò notevole, tanto più che i paesi aderenti al Patto tripartito, malgrado le insistenze di Mussolini, non seppero reagire con un contro-manifesto.

Ma del principio di autodeterminazione dei popoli proclamato dalla Carta atlantica non vi era traccia nel Trattato di pace tra le 21 Potenze alleate e associate e l’Italia che dal 4 novembre 1946 a New York il Consiglio dei ministri degli esteri di USA, URSS, Regno Unito e Francia avrebbe dovuto prendere in esame, dopo la Conferenza della pace di Parigi, per una stesura definitiva prima della firma finale.

Una proposta di plebiscito per l’area contesa tra la linea sovietica e quella americana, da effettuarsi sotto la supervisione dei Quattro Grandi previo sgombero delle truppe jugoslave e italiane, era stata effettivamente avanzata a Parigi, durante una precedente seduta del Consiglio, dal segretario di Stato americano Byrnes il 4 maggio 1946, suscitando la controproposta del commissario del popolo agli esteri sovietico Molotov, il quale aveva chiesto che la consultazione riguardasse anche i territori a est della linea americana fino ai confini italo-jugoslavi del 1924. Il ministro degli esteri francese Bidault aveva suggerito che, indipendentemente dall’estensione dell’area sottoposta a plebiscito, l’esito del voto venisse considerato non a blocco, bensì per zone omogenee. Ma il mancato accordo tra Byrnes e Molotov e l’opposizione del ministro degli esteri britannico Bevin fecero tramontare tale ipotesi.

Dopo lunghe trattative, il 3 luglio 1946 i Quattro Grandi annunciarono di aver trovato un’intesa sul nuovo confine italo-jugoslavo: sarebbe stata la linea francese da Tarvisio a Monfalcone, mentre l’area tra il Timavo e il Quieto avrebbe dovuto costituire il Territorio libero di Trieste (TLT). La Conferenza della pace di Parigi (29 luglio – 15 ottobre 1946) ratificò tale decisione.

A nulla valse la lettera che l’11 settembre 1946 l’on. Ivanoe Bonomi, a nome della delegazione italiana, inviò alla Commissione politico-territoriale per l’Italia in cui chiedeva di «raccomandare al Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri che la linea etnica destinata a divenire la linea di frontiera fra i due Paesi» venisse determinata «sulla base d’una libera consultazione della volontà delle popolazioni interessate». Tale plebiscito avrebbe dovuto svolgersi in un’area non precisata della Venezia Giulia «con tutte le garanzie che accompagnano i plebisciti nelle zone che formano oggetto d’una contestazione internazionale, garanzia che sole possono assicurare la libera espressione del voto da parte delle popolazioni interessate secondo i principi della Carta Atlantica».

Tale richiesta fu presentata sei giorni dopo la firma dell’Accordo De Gasperi – Gruber, ormai era tardi. Per giunta l’Italia non riuscì nemmeno a far presentare da qualche Potenza “amica” un emendamento che recepisse tale richiesta. I Quattro Grandi non vollero saperne di rimettere in discussione l’accordo faticosamente raggiunto il 3 luglio e pertanto respinsero l’idea, evitando persino di prenderla in considerazione ed esortando il Governo italiano a desistere.

Intanto però la proposta lanciata da Byrnes il 4 maggio aveva galvanizzato i CLN di Pola e dell’Istria (Zona B), che cominciarono a mobilitarsi in suo favore, malgrado le perplessità di molti esponenti dei CLN di Gorizia e Trieste e del Comitato giuliano di Roma. I primi in assoluto a schierarsi per il plebiscito furono il 6 maggio 1946 i socialisti polesi. Il giorno precedente “L’Arena di Pola” l’aveva salutato con favore, cosa che continuò sempre a fare con coerenza.

Il 10 giugno 1946, durante un’affollata manifestazione di piazza, gli italiani di Pola inneggiarono sia alla Repubblica appena proclamata in Italia sia al plebiscito. E il 26 giugno il riuscitissimo sciopero-serrata cittadino volle «affermare ancora una volta alle Nazioni Unite che le popolazioni di Pola e dell’Istria sud-occidentale sono compattamente e unicamente italiane e che intendono decidere esse sole, direttamente, a mezzo plebiscito delle loro sorte a venire».

Il 29 luglio, in concomitanza con l’avvio della Conferenza della pace, si tenne in tutta Italia uno sciopero generale di un’ora indetto dalla CGIL per chiedere la linea etnica o il plebiscito sia nella Venezia Giulia che nell’alta Val Roia rivendicata dalla Francia. Ma intanto le decisioni del 3 luglio avevano indotto il CLN goriziano e, in misura minore, anche quello triestino, oltre che il Comitato giuliano di Roma, a trattare con diffidenza l’idea del plebiscito, in quanto avrebbe potuto mettere in forse il risultato per loro già acquisito. I dissidi intestini indebolirono il fronte democratico-patriottico giuliano, contribuendo a impedire che la richiesta di plebiscito invocata dagli istriani fosse recepita dal titubante De Gasperi.

Tale premessa aiuta meglio a capire il tono polemico dei telegrammi, pubblicati su questo manifesto, che i CLN clandestini di Capodistria, Buie, Pirano, Dignano, Pola, Rovigno, Parenzo e Cherso-Lussino avevano inviato al presidente-ministro De Gasperi quando era in corso a Parigi la Conferenza della pace.

Così il CLN clandestino di Capodistria, dichiarando inaccettabile la soluzione del TLT e il distacco del resto dell’Istria, deplorò l’incomprensione del Governo e della delegazione italiana verso il dramma e l’angoscia dell’Istria, sollecitando ancora una volta a rivendicare il diritto di autodecisione delle genti istriane minacciate nella propria libertà nazionale, politica ed economica.

Il CLN clandestino di Buie, respingendo sdegnosamente il «turpe mercato parigino», chiese che i buiesi potessero decidere da sé la propria sorte.

Il CLN clandestino di Pirano, qualificando come inaccettabile la il distacco dalla madrepatria e come inumano l’abbandono delle consorelle città istriane, lamentò l’incomprensione del Governo per l’angoscioso dramma delle «italianissime città istriane» e pretendeva che questi richiedesse il plebiscito conformemente alla Carta atlantica.

Il CLN clandestino di Dignano, ripudiando il «baratto di Parigi» come degno di Brenno, del Barbarossa o della Santa Alleanza, chiese per l’ultima volta il diritto di autodecisione per la sua popolazione.

Il CLN di Rovigno rivolse un «ultimo disperato appello» a nome della popolazione «totalmente esodante» perché il plebiscito «ripetutamente invocato» dalle popolazioni giuliane venisse chiesto e agitato al fine di ottenerlo davvero a «non per sola azione reclamistica». Il Comitato ricordava la «terribile tragedia» presente e futura delle nostre genti, che vedevano nel plebiscito l’«unica certa garanzia di salvezza», e si appellava al senso di umanità che nei confronti di tali genti avrebbe dovuto animare il Governo. Le genti istriane – continuava il telegramma – desideravano che il Governo facesse tutto il possibile a questo scopo «per non ritenerlo negatore» dell’unico loro diritto.

Il CLN di Parenzo, deplorando l’«insufficiente agitazione» per la richiesta di plebiscito, insistette ancora perché il Governo richiedesse «formalmente ed energicamente» per le genti giulie il diritto all’autodecisione conforme alla Carta atlantica, come unico modo per risolvere chiaramente il problema senza lasciare la porta aperta a possibili ulteriori peggioramenti della situazione istriana.

Il CLN di Lussino et Cherso, affermando che le due isole, «vessillifere pure d’italianità» attraverso i secoli, figlie di Roma e Venezia, stavano venendo «vendute» alla Jugoslavia contro la volontà della stragrande maggioranza della loro popolazione, invocarono il plebiscito conformemente ai principi della Carta atlantica «altamente proclamati» dalle vittoriose nazioni democratiche a tutela dei «sacrosanti diritti umani».

Nella parte centrale del manifesto era riportata in un riquadro la nota di protesta inoltrata il 26 settembre 1946 alla Segreteria generale della Conferenza della pace dai delegati dei vari CLN giuliani, compresi quelli di Fiume e Zara ma non quello di Gorizia. Il documento venne redatto dopo un lungo e animato dibattito all’interno della delegazione giuliana a Parigi, dove i delegati goriziani fecero muro contro ogni ipotesi di rimettere in dubbio tramite il voto popolare l’assegnazione di una parte dell’Isontino all’Italia.

La nota, scritta in termini molto sinceri, dignitosi ed espliciti, denunciava il fatto che le decisioni prese a Parigi violavano sia il principio di autodecisione sancito dalla Carta atlantica, sia quello della «linea etnica», adottato il 19 settembre 1945 dal Consiglio dei ministri degli esteri di Londra, sia le risultanze dell’indagine della Commissione di esperti che tra il 9 marzo e il 5 aprile 1946 aveva visitato alcune aree del Friuli orientale e della Venezia Giulia per appurarne la composizione nazionale. I firmatari affermavano categoricamente che il diritto di pronunziarsi sul destino della Venezia Giulia spettava soltanto ai suoi abitanti, i quali non intendevano sopportare «le conseguenze nefaste delle decisioni anti-democratiche dei diplomatici riuniti al Lussemburgo», che cercavano di accordarsi «a spese delle popolazioni, come se si trattasse di cose e non di uomini liberi». Deplorando questo «turpe mercato», dichiararono di non riconoscere «a nessun Paese e a nessun diplomatico il diritto di disporre arbitrariamente della loro sorte» e proclamarono che non avrebbero accettato nessuna sistemazione territoriale della Venezia Giulia che non fosse il risultato di un libero plebiscito.

Tale nota era stata stesa dopo che, il 24 settembre, alcuni delegati giuliani aveva convinto Bonomi a perorare sul serio la causa del plebiscito, ottenendo da questi l’impegno a recarsi subito a Roma per ricevere l’autorizzazione a procedere secondo i loro intendimenti, se condivisi dal Governo. Tuttavia, mentre la delegazione giuliana discuteva sui contenuti della nota, a Roma il Governo decise di accantonare la mai troppo pubblicizzata richiesta di plebiscito, piegandosi in tal modo alle pressioni che specie da Washington stavano giungendo affinché non si disturbassero i quattro “manovratori”. La conseguenza fu che già il 26 settembre il Governo italiano tentò di congedare anticipatamente la delegazione giuliana, la quale “non rispondeva ai comandi”, e il 2 ottobre Giuseppe Saragat, presidente dell’Assemblea costituente, arrivò a Parigi per liquidare la richiesta di plebiscito, sostenendo che il Governo italiano l’avrebbe potuta sollevare solo se fosse saltato l’accordo fra i Quattro. Saragat spiegò che non conveniva all’Italia «scombussolare l’opera dei Grandi» perché il plebiscito non avrebbe potuto essere concesso per la Venezia Giulia senza che venisse concessero altrove, sconvolgendo con ciò l’intero assetto post-bellico verticisticamente deciso dai Grandi.

Il manifesto fu dunque un disperato grido di dolore e di rabbia per la condanna a morte che il popolo istriano, fiumano e zaratino stava subendo ad opera di quegli stessi che, ipocritamente, avevano proclamato il democratico diritto di autodeterminazione dei popoli.

Da notare che tutti i telegrammi riportati nel manifesto sono rivolti ad Alcide De Gasperi, che però il 19 ottobre 1946 era stato sostituito quale ministro degli esteri dal segretario socialista Pietro Nenni. Questi, recependo le istanze istriane, trasmise il 3 novembre alla delegazione italiana una comunicazione per il Consiglio dei ministri degli esteri di New York dove il Governo italiano insisteva perché nella delimitazione della frontiera orientale si procedesse «secondo il criterio della linea etnica fissato dalla Conferenza dei Quattro a Londra nel settembre 1945, ricorrendo al plebiscito nelle zone contestate secondo la richiesta delle popolazioni istriane e la proposta formulata alla Conferenza di Parigi della delegazione italiana». Nenni rivendicava tale principio anche nella eventualità della creazione del TLT, chiedendo che le popolazioni dell’Istria sud-occidentale comprese tra Parenzo e Pola potessero esprimersi tramite un voto per esservi incluse.

Il ministro Nenni, con il suo attivismo e il suo linguaggio più coraggioso, aveva dunque risollevato un po’ il morale e le speranze degli istriani. Una conseguenza ne fu anche tale inequivoco manifesto, tutto rivolto contro De Gasperi e implicitamente a sostegno della nuova linea di Nenni.

Il 3 novembre 1946 una manifestazione in piazza Duomo a Milano espresse solidarietà con gli italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara ed invocò il plebiscito, ricordando sia le centinaia di migliaia di connazionali che nella Prima guerra mondiale avevano dato la vita per liberare quelle terre sia le migliaia di patrioti che nella Seconda guerra mondiale si erano sacrificati per liberare l’Italia dall’invasore tedesco.

Ma in realtà ormai si era davvero fuori tempo massimo. Anche i tentativi di contatti bilaterali con gli jugoslavi, cui a fine novembre venne prospettata l’ipotesi del plebiscito, non portarono ad alcun esito. Il 13 dicembre 1946, dopo ulteriori defatiganti negoziati, l’accordo fra i Quattro a New York diede il via libera definitivo all’intero trattato di pace, stabilendo che avrebbe dovuto essere firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

A quel punto non sembrava esserci davvero più nulla da fare per la salvezza dell’italianità dell’Istria, di Fiume e di Zara, a meno di una rottura fra i Quattro, che però giunse solo più tardi con la «Guerra fredda». Allora sia alcuni soggetti politici sia lo stesso Governo italiano chiesero in più occasioni il plebiscito, ma questa volta solo per la Zona B del TLT.



venerdì 29 dicembre 2023

Italia di Gio. Ant. Magini data in luce da Fabio suo figliuolo (Bologna 1620; ristampe dei 1632 e 1642) comprendente anche l'Istria








Questo prezioso cimelio di cui l'I.G.M. possiede l'unico esemplare finora noto in Italia e all'estero, costituisce uno dei più importanti documenti cartografici dei secoli XVI-XVII. L'esistenza di questa carta, costruita dal celebre astronomo e geografo padovano Giovanni A. Magini (1555-1617), venne affermata da A. Favaro nel suo studio "Carteggio inedito di Ticone Brah, Giovanni Keplero e di altri celebri astronomi e matematici dei secoli XVI e XVII con Giovanni Antonio Magini (Bologna, Zanichelli, 1886), ma nonostante le ricerche fatte nella carta rimase irreperibile, finché, nel 1917, dietro indicazione del Prof. Attilio Mori, si ebbe modo di rintracciarne un unico esemplare di proprietà privata di poi acquistato dall'I.G.M. e quivi conservato sotto cristallo in cornice. (v. "L'Universo" 1920, Almagi R., La carta d'Italia di G. A. Magini 1608 e il B. S. G. It., 1919, pagg. 458-59). La carta consta di sei fogli riuniti delle dimensioni complessive entro il campo disegnato di cm. 105x84, incisi da B. Wright. Sotto al titolo trovasi la seguente dedica: "Al Ser.mo S.r mio S.re et p.rone col.mo il Sig.r Don Francesco Gonzaga Principe di Mantoua et Monferrato, etc. La presente mia Italia si come da principio destinai di farla comparire al Mondo sotto la protettione di V. A. Ser per maggior segno della mia continuata servitù, e della debita osservanza verso di lei, così sono cstretto di darla in luce più presto di quello, ch'io disegnava, per hauer io veduto, che altri con più audacia, che sapere si haueva ultim.te pubblicata una grande molto sconcia, difettosa et copiosa d'errori; anzi per pi evidente segno della sua molto poca cognitione di Geografia falsamente commensurata onde io spero che il Mondo ricever volentieri la presente mia fatica, conosciuta l'accuratezza di essa, usata da tanti anni in qua, e ci per capara della descritione Historica et Geografica che in grosso volume di foglio reale sono per dar presto fuori si come spero, che da V.A. sar con la solita sua, benignit ricevuta et gradita alla quale pregando il colmo d'ogni felicità io humil. riuerenza di Bologna li 20 ottobre 1608 D. V. A. Ser.ma Humiliss.o et deuotiss.o Ser.re Gio Ant.o Magini". Segue in basso la firma dell'incisore "Beniamin Wright Londinensis Anglus Fecit Bononiae" e quindi a destra il seguente avviso de "L'intagliatore a i studiosi lettori" "Hauendo io da un'altra maggior tavola et assai copiosa de luoghi del S.r dottor Magini ridotto la presente in minor forma, acci riuscisse pi commoda mi ha bisognato tralasciare alle volte fuori de i luoghi che per l'angustia del sito non ci poteuano capire e si hauer tal volta lasciati fuori de i pi degni in uece di quelli che sono di manco consideratione, se bene per ho procurato ad ogni mio potere di far capire in questa tavola non solo tutte le città ma ancora tutte le terre et castelli principali, hauendone tenuta particolare cura l'istesso autore tuttoche egli fosse a questo istesso tempo molto occupato in far stampare il suo Primo Mobile Di più voglio auertire ch'ho fatta la separatione de i stati d'Italia con due sorti di ponti, cio con ponti più grossi di quei stati, ch'hanno bisogno d'altra divisione per maggior chiarezza, si come sono il Stato della Chiesa, il Dominio Veneto, il Stato di Milano, Gran Ducato di Toscana, et il Regno di Napoli, li quali hanno poi le loro particolari divisioni di ponti più piccoli si come certi altri stati d'Italia. Et volentieri ancora hauerei fatto la separatione di certi piccoli Dominij, si non fossi restato per la troppo confusione li quali poi si vedranno molto ben distinti nelle tavole dell'Italia in libro dell'istesso autore". In basso a destra doveva trovarsi un'altra leggenda, forse relativa agli abitati, con annessa indubbiamente la scala; essa per del tutto scomparsa poich l'esemplare assai danneggiato in questo lato tanto che rimangono pure guaste parti della Sicilia, della Calabria e della Sardegna. Questa Italia del Magini, che quindi riduzione di una maggiore assai più ricca di nomi, non che l'insieme di tutte le carte delle quali si compone il celebre Atlante dello stesso autore e pubblicato dal di lui figlio Fabio nel 1620. Il Magini si valse per questa sua grandiosa opera di uno svariato materiale cartografico spesso inedito, da lui pazientemente raccolto presso i singoli stati italiani, e il disegno che ne risulta supera di gran lunga tutte le produzioni contemporanee anche per la maggiore precisione delle basi astronomiche. Si rileva particolarmente il progresso della rappresentazione nel disegno dell'Italia Meridionale che col Magini acquista una forma assai vicina a quella delle carte moderne, nell'evidenza data alla catena alpina e a quella appenninica, nella presenza di vari nomi orografici del tutto mancanti o rarissimi nelle carte anteriori, nel ricco dettagliato quadro della idrografia cui l'autore pose particolare cura e nella ricchezza di nomi infinitamente pi numerosi che non nelle carte del Gastaldi (1561) e del Mercatore (1589). Grandissima poi la cura posta al tracciato dei confini politici. La carta reca la graduazione marginale di 5' in 5' tanto in latitudine (3715' - 4645') quanto in longitudine (2830' - 4535'). Circa lo studio particolare delle fonti e del contenuto della carta si rimanda senz'altro all'opera magistrale di R. Almagi "L'Italia" di Giovanni Antonio Magini e la Cartografia dell'Italia nei secoli XVI e XVII. (Napoli, Città di Castello, Firenze, 1922). Della carta del Magini vennero fatte varie riproduzioni pure eccezionalmente rare, due delle quali, la "Nova Descittion d'Italia di Gio. Antonio Magini" pubblicata ad Amsterdam da Clemente de Jonghe, e la "Descriptio Italiae Autore Antonio Magino" edita da Johannis Visscher nel 1650, conservate nel Museo Britannico, ed una pubblicata da Giusto Sadeler col titolo "Italia Nova di Gio. Antonio Magino nuovamente corretta in Venetia l'anno 1662". Essa venne inoltre inserita, pur senza nome d'autore, in vari atlanti stranieri come quelli dell'Hondio, Bleau, Janson, Visscher, Seutter, esercitando quindi una larghissima influenza sulla cartografia del seicento e settecento.

Giuseppe Tosi

Giuseppe Tosi nacque a Pola nel 1890. Si diplomò maestro ed insegnò nella scuola elementare di Volosca (Abbazia) nel golfo del Carnaro. 

Tosi parlava ai suoi alunni dell'Italia, di Dante, Mazzini e spesso fu ammonito e diffidato dalle autorità austriache, soprattutto durante la guerra del 1915-1918. Dopo la guerra Tosi dedicò tutta la sua attività all'educazione civile, morale e patriottica dei giovani ai quali insegnò il culto della patria e della religione. Nel 1940 per i suoi meriti fu insignito di medaglia d'oro dal Ministero della Pubblica Istruzione e, in seguito, nominato Ispettore scolastico. Quando nel 1945 l'Istria fu invasa dai partigiani di Tito, egli non volle lasciare la sua terra, poiché convinto che, non avendo mai fatto del male a nessuno, non aveva nulla da temere. Ma, prelevato a tradimento, venne fustigato a sangue e trucidato. Un compagno di carcere ne descrisse le ultime ore di vita: "Fu percosso a morte. Grondante di sangue chiese un po' d'acqua. Uno dei suoi carnefici riempì un bicchiere con il sangue che grondava dalle sue ferite e lo porse al morente imprecando. Tosi lo bevve e disse di non aver mai bevuto un vino migliore. Un altro sgherro prese la pistola e gli sparò". (Roberta Fidanzia, "II Quartiere Giuliano-Dalmata di Roma tra memoria e attualità")

La memoria di Giuseppe Tosi fu coltivata, e trasmessa ai suoi piccoli alunni, dal maestro Ludovico Zeriav fulgida figura di insegnate che tanti contribuì nell'educazione dei piccoli profughi. Al maestro Zeriav si deve anche la diffusione, tra gli alunni dell'omonima scuola, dell'Inno a Giuseppe Tosi musicato dal Maestro Carlo Fabretto su parole di Silvio Crechich su armonia dello stesso maestro Zeriav:

Come riscalda il cuore

Fiamma che ognor sfavilla

O ravvivato fiore s'aderge a nova stilla

Così il tuo gesto o Tosi

Arma la nostra fede

E onoriam il lito

Che a te la vita diede

La sul Liburnico mare conteso

Veglia del martire lo spirito offeso

E a tanto spasimo s'unisce il cor

Dell'altre vittime cinte d'allor.

 


Odio titino, una reazione alle «violenze italiane»

Il 27 Agosto 1941 il Partito Comunista sloveno (KPS) fondava la sua “intelligence”, ovvero la Varnostno-obveščevalna služba (VOS), sostituita poi nel 1944 dall’OZNA.

Il nuovo organismo era stato istituito meno di un mese prima dei due famigerati decreti del 16 settembre 1941, emanati dal partito e grazie ai quali qualunque partigiano comunista sul territorio sloveno poteva uccidere sul posto qualsiasi persona non appartenente all’Osvobodilna fronta (OF) - ovvero la stragrande maggioranza degli sloveni, in quel momento - venisse sorpresa con un’arma di qualsivoglia tipo in mano. 

In questo modo” ha spiegato in una conferenza stampa Jože Dežman, Presidente della Commissione di Stato slovena per lo scoprimento delle fosse comuni del dopoguerra - “il KPS e l'OF si appropriarono con la forza e completamente illegalmente della rivolta contro l'occupante e della presa del potere, che poi hanno iniziato ad attuare in modo conseguente e violento”.

Il compito della intelligence era quello di "rintracciare e distruggere" i veri o presunti oppositori del Partito Comunista e del movimento partigiano. 

Nel breve periodo agosto 1941 - luglio 1942, i membri del VOS hanno liquidato almeno 941 persone soltanto in Slovenia e le vittime furono in primis rappresentanti di spicco delle autorità prebelliche, possidenti e grandi agricoltori, sacerdoti, intellettuali, imprenditori e tutti coloro che si opponevano apertamente alla rivoluzione comunista. 

Tutte queste vittime erano esclusivamente slovene, e la maggior parte di queste uccisioni, così come le tante stragi che seguirono nel 1943 e fino al 1945, furono per decenni subdolamente messe in conto ed attribuite (la similitudine con il massacro di Katyn è immediata!) specialmente ai soldati italiani (fino all’autunno 1943) e ai tedeschi che occupavano il territorio.

“Nel febbraio 1944 fu abolito il VOS e nel maggio di quello stesso anno fu istituito il "Dipartimento per la Protezione della Nazione", cioè l'OZNA” - spiega ancora Dežman -; “le formazioni militari del VOS furono così ridistribuite in unità dell'Esercito di sicurezza dello Stato (VDV), ovvero unità speciali per combattere i traditori nazionali. Successivamente furono ribattezzati KNOJ o Corpo della Difesa Nazionale della Jugoslavia”.

Prosegue Dežman: “Il periodo più spaventoso fu il cosiddetto trimestre di sangue, maggio, giugno e luglio 1945, subito dopo la guerra. L'OZNA pianificò ed eseguì le più estese uccisioni extragiudiziali nella storia delle nazioni jugoslave. Fu un genocidio organizzato contro sloveni, croati, serbi e membri di altre nazioni dell'ex stato comune, nonché le minoranze che vivevano nel territorio di quel paese all'epoca. Terrore rivoluzionario con la dottrina della "lotta di classe", che è il fondamento dell'ideologia comunista.

Senza processo, civili e soldati, donne e bambini furono massacrati. La nazione croata ha subito il maggior numero di vittime. Nella sola Slovenia ci sono 700 massacri compiuti nel dopoguerra, mentre in Croazia più di 900 fosse comuni e cimiteri. 

In Serbia, invece, finora sono stati scoperte 552 fosse comuni, con circa 130.000 vittime, ma le ricerche sono state appena avviate”.

Foto: Un'altra fossa comune scoperta in Slovenia nei pressi di Mostec (Čatež ob Savi), non lontano dal confine con la Croazia.



Il plebiscito negato (Unione degli Istriani)

Dai nostri archivi, vi offriamo uno spunto di riflessione rispetto al mancato plebiscito per l'Istria, ceduta alla Jugoslavia nel 1947 senza che la popolazione sia stata interpellata.

Ovviamente nessuno lo voleva un plebiscito, e nemmeno il Presidente del Consiglio dei Ministri di allora, Alcide De Gasperi, temendo che lo stesso venisse chiesto anche per l'Alto Adige.

E difatti, a testimonianza dell'ulteriore beffa a nostro danno, il plebiscito per l'Istria venne richiesto (e respinto anche perché inteso, appunto, come furbata) soltanto quando fu certo che l'Alto Adige non sarebbe stato messo in discussione, ovvero dopo la sottoscrizione degli accordi con Karl Gruber, firmati il 5 settembre 1946.

Il Comitato di Liberazione Nazionale dell'Istria, invece, che sperava nell'agognato referendum, dopo un sondaggio clandestino, aveva inviato con lettera del 25 giugno 1946, al Presidente del Consiglio De Gasperi, questa sua valutazione, con l'interessante documento nella foto elencante gli esiti stimati di come la popolazione avrebbe votato.

Signor Presidente,

i Comitati di Liberazione Nazionale clandestini dei comuni di Capodistria (per sé e per quelli facenti parte del mandamento di Villa Decani, Maresego, Monte di Capodistria), Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Orsera, Rovigno (per sé e per Gimino, Valle e Canfanaro), Pinguente (per sé e per Rozzo e Lanischie), Pisino, Montona e Cherso (Ossero inclusa), Lussinpiccolo (Neresine e Lussingrande comprese), che agiscono nelle loro sedi in stretto collegamento con i rispettivi fiduciari distaccati a Trieste, adempiendo alle richieste della S.V. in occasione della recente visita a Roma, presentano i dati di previsione, dopo aver ricordato il loro diritto al plebiscito come unico mezzo di garanzia di rispetto della volontà delle popolazioni dell’Istria, di come verrebbe espressa la volontà degli istriani nell’auspicata autodeterminazione, che dovrebbe essere richiesta dal patrio governo per gli italiani soggetti ad un regime che non consente loro di parlare ove non venisse applicata nei confronti della Venezia Giulia la “Linea Wilson” riformulata dagli Stati Uniti d’America.


I dati di previsione che presentiamo si fondano:

  • 1) sulla composizione etnica dell’Istria come risulta accertata nei censimenti degli anni 1910 (austro-ungarico) e del 1921 (italiano);
  • 2) sulle informazioni che si sono potute raccogliere fra la popolazione italiana, ma anche slava, per mezzo delle persone più in vista delle varie località, riservatamente interpellate da esponenti del C.L.N. clandestino sul posto;
  • 3) sull’esito della petizione delle autorità d’occupazione nello scorso inverno, che dovrebbe essere pronta per essere presentata alla Conferenza della Pace;
  • 4) sulla partecipazione (molto scarsa) e sull’indifferenza della popolazione nelle elezioni amministrative sui generis effettuata nel territorio istriano nel precedente autunno;
  • 5) nella renitenza palese di tutta la popolazione verso le innovazioni del nuovo ordinamento politico di tipo poliziesco;
  • 6) sul carattere della popolazione sia italiana che slava, sui suoi usi e costumi e sulla cultura millenaria.


I dati che vengono resi noti si riferiscono ai comuni che operano in seno al C.L.N. dell’Istria che ha sede a Trieste, attraverso i rispettivi C.L.N. clandestini presenti nelle città sotto occupazione jugoslava.

La percentuale degli elettori pro Italia, a causa dell’intollerabile regime in atto, supererebbe nei comuni considerati il 70%. Tale percentuale è stata ottenuta con attenzione a criteri superprudenziali ed è valutabile di pieno affidamento in caso di plebiscito. Si è tenuto conto che in certi comuni con classe operaia sottoposta a speciale opera di propaganda e ad attenta vigilanza il vero sentimento della popolazione può essere contraddittorio.

Considerazioni sull’epoca in cui si dovrebbe tenere il plebiscito: è ovvio che le operazioni preliminari dovrebbero cominciare dopo una normalizzazione della situazione della regione. Si ritiene però che esse non dovrebbero essere troppo rinviate nel tempo per ragioni psicologiche. Il ricordo del malgoverno iugoslavo si attenuerebbe in modo da far cambiare opinione ai votanti pro Italia, tenuto conto, inoltre, che gli strati della popolazione non potrebbero trovarsi in una fase definibile di soddisfazione.

Fattore essenziale per l’esito del plebiscito potrebbero essere le dichiarazioni solenni ed impegnative di alti rappresentanti del Governo della Repubblica Italiana di voler concedere in queste terre una particolare ampia autonomia, con parità di diritti a tutti i cittadini, allogeni in primo luogo (lingua, scuole, culture…), oltre a particolari agevolazioni tributarie; nonché un vasto programma di lavori pubblici e di valorizzazione economica della regione con particolare riguardo all’agricoltura, con l’approvazione inoltre d’una legge sulla riforma agraria che assicuri agli agricoltori la proprietà dei terreni da essi lavorati”.

IL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE DELL’ISTRIA


N.B Mancano poi Pola e Fiume, Zara e relativi circondari.

Pola è rimasta sotto l'amministrazione anglo-americana fino al 10.2.1947, quando poi è stata ceduta alla Jugoslavia. Fino al 1954 è rimasta solo Trieste sotto il Governo militare alleato.

Catalogo analitico della stampa periodica istriana (pt.1)

Questo catalogo comprende la stampa periodica istriana dal 1807, anno in cui vede la luce il primo giornale stampato nella regione.


Foglio periodico istriano (Capodistria, 1807)








Il popolano dell'Istria (1851)






L'istriano (1860)