Un manifesto affisso a Milano ai primi di novembre del 1946 invocò, come unica garanzia di salvezza, il diritto all’autodeterminazione dei popoli previsto dalla Carta atlantica.
In vista del 3 novembre 1946, mesta ricorrenza dell’arrivo a Trieste delle truppe italiane nel 1918, il Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara, presieduto dal capitano Lino Drabeni, esule zaratino, stampò e affisse a Milano un manifesto che invocava il plebiscito per la Venezia Giulia. Da allora se n’era persa traccia, ma la Redazione de “L’Arena di Pola”, avendolo avuto in copia da un’abbonata, lo propone ai lettori nella pagina a fianco.
In alto campeggiava una frase attribuita a Roosevelt, Churchill, Stalin e Truman e riportata anche in inglese: «Non approveremo nessuna modificazione territoriale che non sia in accordo con il desiderio liberamente espresso dalle popolazioni interessate». Si trattava del secondo degli otto «principi comuni della politica nazionale dei loro rispettivi Paesi» che il 14 agosto 1941 il presidente americano Roosevelt e il primo ministro britannico Churchill annunciarono al mondo dalla corazzata “Prince of Wales”, al largo dell’isola canadese di Terranova. Tali principi costituirono quella che passò poi alla storia con il nome di «Carta atlantica».
I fatti successivi dimostrarono che in realtà si trattava soprattutto di propaganda bellica. Ma quel documento, mai discusso dai Parlamenti americano e britannico, era pur sempre la base politica su cui si stava cementando l’alleanza tra le due potenze anglo-sassoni. E non solo: infatti, nel giro di pochi mesi la Carta atlantica divenne la piattaforma ideologica di tutti gli Stati belligeranti contro la Germania, l’Italia e, dopo Pearl Harbor, il Giappone, nonché contro i loro sodali. Il 24 settembre 1941 vi aderirono 15 Governi, effettivi o in esilio: Australia, Belgio, Canada, Cecoslovacchia, Francia, Grecia, Jugoslavia, Lussemburgo, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Sudafrica e URSS.
Il 1° gennaio 1942, quando gli USA erano appena entrati in guerra, i plenipotenziari di 26 Paesi, tra cui il Governo in esilio della Jugoslavia monarchica, sottoscrissero alla Casa bianca la «Dichiarazione delle Nazioni unite», dichiarando solennemente di aver «accettato un comune programma di propositi e principi contenuto nella Dichiarazione del Presidente degli Stati Uniti d’America e del Primo Ministro del Regno di Gran Bretagna e Irlanda del Nord in data 14 agosto 1941, nota col nome di Carta Atlantica».
Altri 21 Paesi aderirono successivamente a tale Dichiarazione delle Nazioni Unite. Tutto sembrava perciò far supporre che la Carta atlantica dovesse costituire la pietra miliare del futuro “nuovo ordine mondiale”, da codificare nei trattati di pace post-bellici. Il suo contributo politico alla vittoria alleata fu perciò notevole, tanto più che i paesi aderenti al Patto tripartito, malgrado le insistenze di Mussolini, non seppero reagire con un contro-manifesto.
Ma del principio di autodeterminazione dei popoli proclamato dalla Carta atlantica non vi era traccia nel Trattato di pace tra le 21 Potenze alleate e associate e l’Italia che dal 4 novembre 1946 a New York il Consiglio dei ministri degli esteri di USA, URSS, Regno Unito e Francia avrebbe dovuto prendere in esame, dopo la Conferenza della pace di Parigi, per una stesura definitiva prima della firma finale.
Una proposta di plebiscito per l’area contesa tra la linea sovietica e quella americana, da effettuarsi sotto la supervisione dei Quattro Grandi previo sgombero delle truppe jugoslave e italiane, era stata effettivamente avanzata a Parigi, durante una precedente seduta del Consiglio, dal segretario di Stato americano Byrnes il 4 maggio 1946, suscitando la controproposta del commissario del popolo agli esteri sovietico Molotov, il quale aveva chiesto che la consultazione riguardasse anche i territori a est della linea americana fino ai confini italo-jugoslavi del 1924. Il ministro degli esteri francese Bidault aveva suggerito che, indipendentemente dall’estensione dell’area sottoposta a plebiscito, l’esito del voto venisse considerato non a blocco, bensì per zone omogenee. Ma il mancato accordo tra Byrnes e Molotov e l’opposizione del ministro degli esteri britannico Bevin fecero tramontare tale ipotesi.
Dopo lunghe trattative, il 3 luglio 1946 i Quattro Grandi annunciarono di aver trovato un’intesa sul nuovo confine italo-jugoslavo: sarebbe stata la linea francese da Tarvisio a Monfalcone, mentre l’area tra il Timavo e il Quieto avrebbe dovuto costituire il Territorio libero di Trieste (TLT). La Conferenza della pace di Parigi (29 luglio – 15 ottobre 1946) ratificò tale decisione.
A nulla valse la lettera che l’11 settembre 1946 l’on. Ivanoe Bonomi, a nome della delegazione italiana, inviò alla Commissione politico-territoriale per l’Italia in cui chiedeva di «raccomandare al Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri che la linea etnica destinata a divenire la linea di frontiera fra i due Paesi» venisse determinata «sulla base d’una libera consultazione della volontà delle popolazioni interessate». Tale plebiscito avrebbe dovuto svolgersi in un’area non precisata della Venezia Giulia «con tutte le garanzie che accompagnano i plebisciti nelle zone che formano oggetto d’una contestazione internazionale, garanzia che sole possono assicurare la libera espressione del voto da parte delle popolazioni interessate secondo i principi della Carta Atlantica».
Tale richiesta fu presentata sei giorni dopo la firma dell’Accordo De Gasperi – Gruber, ormai era tardi. Per giunta l’Italia non riuscì nemmeno a far presentare da qualche Potenza “amica” un emendamento che recepisse tale richiesta. I Quattro Grandi non vollero saperne di rimettere in discussione l’accordo faticosamente raggiunto il 3 luglio e pertanto respinsero l’idea, evitando persino di prenderla in considerazione ed esortando il Governo italiano a desistere.
Intanto però la proposta lanciata da Byrnes il 4 maggio aveva galvanizzato i CLN di Pola e dell’Istria (Zona B), che cominciarono a mobilitarsi in suo favore, malgrado le perplessità di molti esponenti dei CLN di Gorizia e Trieste e del Comitato giuliano di Roma. I primi in assoluto a schierarsi per il plebiscito furono il 6 maggio 1946 i socialisti polesi. Il giorno precedente “L’Arena di Pola” l’aveva salutato con favore, cosa che continuò sempre a fare con coerenza.
Il 10 giugno 1946, durante un’affollata manifestazione di piazza, gli italiani di Pola inneggiarono sia alla Repubblica appena proclamata in Italia sia al plebiscito. E il 26 giugno il riuscitissimo sciopero-serrata cittadino volle «affermare ancora una volta alle Nazioni Unite che le popolazioni di Pola e dell’Istria sud-occidentale sono compattamente e unicamente italiane e che intendono decidere esse sole, direttamente, a mezzo plebiscito delle loro sorte a venire».
Il 29 luglio, in concomitanza con l’avvio della Conferenza della pace, si tenne in tutta Italia uno sciopero generale di un’ora indetto dalla CGIL per chiedere la linea etnica o il plebiscito sia nella Venezia Giulia che nell’alta Val Roia rivendicata dalla Francia. Ma intanto le decisioni del 3 luglio avevano indotto il CLN goriziano e, in misura minore, anche quello triestino, oltre che il Comitato giuliano di Roma, a trattare con diffidenza l’idea del plebiscito, in quanto avrebbe potuto mettere in forse il risultato per loro già acquisito. I dissidi intestini indebolirono il fronte democratico-patriottico giuliano, contribuendo a impedire che la richiesta di plebiscito invocata dagli istriani fosse recepita dal titubante De Gasperi.
Tale premessa aiuta meglio a capire il tono polemico dei telegrammi, pubblicati su questo manifesto, che i CLN clandestini di Capodistria, Buie, Pirano, Dignano, Pola, Rovigno, Parenzo e Cherso-Lussino avevano inviato al presidente-ministro De Gasperi quando era in corso a Parigi la Conferenza della pace.
Così il CLN clandestino di Capodistria, dichiarando inaccettabile la soluzione del TLT e il distacco del resto dell’Istria, deplorò l’incomprensione del Governo e della delegazione italiana verso il dramma e l’angoscia dell’Istria, sollecitando ancora una volta a rivendicare il diritto di autodecisione delle genti istriane minacciate nella propria libertà nazionale, politica ed economica.
Il CLN clandestino di Buie, respingendo sdegnosamente il «turpe mercato parigino», chiese che i buiesi potessero decidere da sé la propria sorte.
Il CLN clandestino di Pirano, qualificando come inaccettabile la il distacco dalla madrepatria e come inumano l’abbandono delle consorelle città istriane, lamentò l’incomprensione del Governo per l’angoscioso dramma delle «italianissime città istriane» e pretendeva che questi richiedesse il plebiscito conformemente alla Carta atlantica.
Il CLN clandestino di Dignano, ripudiando il «baratto di Parigi» come degno di Brenno, del Barbarossa o della Santa Alleanza, chiese per l’ultima volta il diritto di autodecisione per la sua popolazione.
Il CLN di Rovigno rivolse un «ultimo disperato appello» a nome della popolazione «totalmente esodante» perché il plebiscito «ripetutamente invocato» dalle popolazioni giuliane venisse chiesto e agitato al fine di ottenerlo davvero a «non per sola azione reclamistica». Il Comitato ricordava la «terribile tragedia» presente e futura delle nostre genti, che vedevano nel plebiscito l’«unica certa garanzia di salvezza», e si appellava al senso di umanità che nei confronti di tali genti avrebbe dovuto animare il Governo. Le genti istriane – continuava il telegramma – desideravano che il Governo facesse tutto il possibile a questo scopo «per non ritenerlo negatore» dell’unico loro diritto.
Il CLN di Parenzo, deplorando l’«insufficiente agitazione» per la richiesta di plebiscito, insistette ancora perché il Governo richiedesse «formalmente ed energicamente» per le genti giulie il diritto all’autodecisione conforme alla Carta atlantica, come unico modo per risolvere chiaramente il problema senza lasciare la porta aperta a possibili ulteriori peggioramenti della situazione istriana.
Il CLN di Lussino et Cherso, affermando che le due isole, «vessillifere pure d’italianità» attraverso i secoli, figlie di Roma e Venezia, stavano venendo «vendute» alla Jugoslavia contro la volontà della stragrande maggioranza della loro popolazione, invocarono il plebiscito conformemente ai principi della Carta atlantica «altamente proclamati» dalle vittoriose nazioni democratiche a tutela dei «sacrosanti diritti umani».
Nella parte centrale del manifesto era riportata in un riquadro la nota di protesta inoltrata il 26 settembre 1946 alla Segreteria generale della Conferenza della pace dai delegati dei vari CLN giuliani, compresi quelli di Fiume e Zara ma non quello di Gorizia. Il documento venne redatto dopo un lungo e animato dibattito all’interno della delegazione giuliana a Parigi, dove i delegati goriziani fecero muro contro ogni ipotesi di rimettere in dubbio tramite il voto popolare l’assegnazione di una parte dell’Isontino all’Italia.
La nota, scritta in termini molto sinceri, dignitosi ed espliciti, denunciava il fatto che le decisioni prese a Parigi violavano sia il principio di autodecisione sancito dalla Carta atlantica, sia quello della «linea etnica», adottato il 19 settembre 1945 dal Consiglio dei ministri degli esteri di Londra, sia le risultanze dell’indagine della Commissione di esperti che tra il 9 marzo e il 5 aprile 1946 aveva visitato alcune aree del Friuli orientale e della Venezia Giulia per appurarne la composizione nazionale. I firmatari affermavano categoricamente che il diritto di pronunziarsi sul destino della Venezia Giulia spettava soltanto ai suoi abitanti, i quali non intendevano sopportare «le conseguenze nefaste delle decisioni anti-democratiche dei diplomatici riuniti al Lussemburgo», che cercavano di accordarsi «a spese delle popolazioni, come se si trattasse di cose e non di uomini liberi». Deplorando questo «turpe mercato», dichiararono di non riconoscere «a nessun Paese e a nessun diplomatico il diritto di disporre arbitrariamente della loro sorte» e proclamarono che non avrebbero accettato nessuna sistemazione territoriale della Venezia Giulia che non fosse il risultato di un libero plebiscito.
Tale nota era stata stesa dopo che, il 24 settembre, alcuni delegati giuliani aveva convinto Bonomi a perorare sul serio la causa del plebiscito, ottenendo da questi l’impegno a recarsi subito a Roma per ricevere l’autorizzazione a procedere secondo i loro intendimenti, se condivisi dal Governo. Tuttavia, mentre la delegazione giuliana discuteva sui contenuti della nota, a Roma il Governo decise di accantonare la mai troppo pubblicizzata richiesta di plebiscito, piegandosi in tal modo alle pressioni che specie da Washington stavano giungendo affinché non si disturbassero i quattro “manovratori”. La conseguenza fu che già il 26 settembre il Governo italiano tentò di congedare anticipatamente la delegazione giuliana, la quale “non rispondeva ai comandi”, e il 2 ottobre Giuseppe Saragat, presidente dell’Assemblea costituente, arrivò a Parigi per liquidare la richiesta di plebiscito, sostenendo che il Governo italiano l’avrebbe potuta sollevare solo se fosse saltato l’accordo fra i Quattro. Saragat spiegò che non conveniva all’Italia «scombussolare l’opera dei Grandi» perché il plebiscito non avrebbe potuto essere concesso per la Venezia Giulia senza che venisse concessero altrove, sconvolgendo con ciò l’intero assetto post-bellico verticisticamente deciso dai Grandi.
Il manifesto fu dunque un disperato grido di dolore e di rabbia per la condanna a morte che il popolo istriano, fiumano e zaratino stava subendo ad opera di quegli stessi che, ipocritamente, avevano proclamato il democratico diritto di autodeterminazione dei popoli.
Da notare che tutti i telegrammi riportati nel manifesto sono rivolti ad Alcide De Gasperi, che però il 19 ottobre 1946 era stato sostituito quale ministro degli esteri dal segretario socialista Pietro Nenni. Questi, recependo le istanze istriane, trasmise il 3 novembre alla delegazione italiana una comunicazione per il Consiglio dei ministri degli esteri di New York dove il Governo italiano insisteva perché nella delimitazione della frontiera orientale si procedesse «secondo il criterio della linea etnica fissato dalla Conferenza dei Quattro a Londra nel settembre 1945, ricorrendo al plebiscito nelle zone contestate secondo la richiesta delle popolazioni istriane e la proposta formulata alla Conferenza di Parigi della delegazione italiana». Nenni rivendicava tale principio anche nella eventualità della creazione del TLT, chiedendo che le popolazioni dell’Istria sud-occidentale comprese tra Parenzo e Pola potessero esprimersi tramite un voto per esservi incluse.
Il ministro Nenni, con il suo attivismo e il suo linguaggio più coraggioso, aveva dunque risollevato un po’ il morale e le speranze degli istriani. Una conseguenza ne fu anche tale inequivoco manifesto, tutto rivolto contro De Gasperi e implicitamente a sostegno della nuova linea di Nenni.
Il 3 novembre 1946 una manifestazione in piazza Duomo a Milano espresse solidarietà con gli italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara ed invocò il plebiscito, ricordando sia le centinaia di migliaia di connazionali che nella Prima guerra mondiale avevano dato la vita per liberare quelle terre sia le migliaia di patrioti che nella Seconda guerra mondiale si erano sacrificati per liberare l’Italia dall’invasore tedesco.
Ma in realtà ormai si era davvero fuori tempo massimo. Anche i tentativi di contatti bilaterali con gli jugoslavi, cui a fine novembre venne prospettata l’ipotesi del plebiscito, non portarono ad alcun esito. Il 13 dicembre 1946, dopo ulteriori defatiganti negoziati, l’accordo fra i Quattro a New York diede il via libera definitivo all’intero trattato di pace, stabilendo che avrebbe dovuto essere firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.
A quel punto non sembrava esserci davvero più nulla da fare per la salvezza dell’italianità dell’Istria, di Fiume e di Zara, a meno di una rottura fra i Quattro, che però giunse solo più tardi con la «Guerra fredda». Allora sia alcuni soggetti politici sia lo stesso Governo italiano chiesero in più occasioni il plebiscito, ma questa volta solo per la Zona B del TLT.