giovedì 2 novembre 2023

Esodo da Pola

«Ormai l’esodo della popolazione italiana di Pola si può considerare ultimato: Pola non vive più, la sua attività è ora limitata "alla giornata" poiché attende trepida il compimento del suo destino. Può, davvero, considerarsi una città morta. Severo ammonimento questo, a chi baratta Paesi e genti, così, senza ponderare i profondi legami storici e gli alti valori spirituali delle popolazioni italiane». 

È il 14 aprile 1947. Il prefetto Mario Micali, responsabile per la Venezia Giulia dell’Ufficio per le zone di confine (Ucz), scrive alla Presidenza del Consiglio dei ministri relazionando sul secondo esodo degli italiani dai territori assegnati alla Jugoslavia: 28.550 "deportati", come qualcuno li chiamò. In precedenza altri 20 mila profughi si erano spostati al di qua del confine. E ai due ne seguì un terzo, più spontaneo fino al 1956, con altre 4 mila persone in fuga. Pola aveva allora circa 35 mila abitanti. Fu, quindi, praticamente svuotata (tanti profughi scappavano anche dall’interno. Ecco perché Micali scrive che Pola non vive più. «A tutt’oggi – si legge nel suo rapporto – dal porto di Pola, sono partite, verso il suolo patrio, circa 28.000 persone: tutte famiglie che debbono riorganizzare la loro vita e, se occorre, ricominciarla; che hanno abbandonato, con serena, decisa fermezza ricordi, averi e, quel che più conta, i loro cari sepolti nelle verdi colline fra l’Istria e il mare. E tutto questo non per movimento impulsivo o per sollecitazioni più o meno opportune, ma dopo ben ponderato e maturato esame: vi si è ragionato sopra, si è ben considerata la tremenda decisione e si è visto che la Patria vale più della casa o del terreno tramandato ai posteri e che ora si deve abbandonare». Cercato per lunghi decenni, l’archivio dell’Ucz è stato recuperato solo nel 2008. La rivista Qualestoria ne pubblica un ampio dossier, introdotto da Raoul Pupo, docente all’Università di Trieste e vicepresidente dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia. Un capitolo è dedicato a Pola e al suo esodo; lo cura Roberto Spazzali scavando intorno alla comunicazione del prefetto Micali. Dall’archivio si viene tra l’altro a sapere che l’esodo tra il 1946 ed il 1947 è costato all’Italia 710 milioni di lire per Pola, 400 per Trieste, 71 per Gorizia e 17 per Udine. Nei due anni successivi le spese per Pola scesero a 175 milioni, mentre quelle per Trieste aumentarono a 700. Tra il 1946 e il 1949 i partiti politici italiani ricevettero da Roma 1.324 miliardi di lire. Ben poco, comunque, al confronto con i valori lasciati a Pola dagli italiani. Micali scrive di «qualche decina di miliardi». Eppure tutto è stato abbandonato con composta fierezza e senza recriminazioni. «Quale pena ritornare adesso a Pola, in questa città che – commenta il prefetto – era così gioiosa, così piena di vita. Né bastano a ridarle soffio vitale i circa 300 nuovi cittadini colà giunti dall’Italia e dalle Zone A e B». Quali sono i motivi di quella che solo apparentemente è una fuga? «Ritengo di non errare affermando che su tale irrefrenabile decisione abbiano notevolmente influito i 60 giorni di occupazione jugoslava della città: comunque, già da quando ebbero inizio le lunghe trattative per la compilazione del Trattato di pace, la popolazione polesana fece sapere che non avrebbe sopportato di essere divisa dall’Italia». Dagli inizi del 1944 Pola era stata sottoposta a dure prove di guerra. Solo tre mesi dopo l’occupazione tedesca, con la cattura di oltre 20.000 soldati e marinai italiani provenienti da Fiume e dalla Dalmazia, subiva il primo violento bombardamento alleato. Dal 9 gennaio 1944 al 5 maggio 1945 la città venne bombardata per 23 volte dall’aviazione anglo-americana, causando la morte di oltre 250 persone e il ferimento di altre 550. «Le bombe causarono la fuga di numerose famiglie, che dovettero cercare riparo da parenti e in alloggi di fortuna. Provocarono anche un profondo stato di annichilimento tra la popolazione e divennero a un certo punto un buon argomento per la propaganda di guerra» scrive Spezzali. Di qui il primo esodo. Il 13 luglio 1944 veniva pubblicato un avviso alla popolazione: sfollamento obbligatorio determinato dall’assenza di luoghi da destinare ai sinistrati, difficoltà nel garantire l’approvvigionamento e l’erogazione di acqua e luce elettrica in caso di altri bombardamenti. Il 3 luglio 1946 viene costituito a Pola il Comitato di assistenza per il secondo esodo. Ben 20 mila polesani avevano chiesto di lasciare la città in caso di occupazione jugoslava. Della plebiscitaria sottoscrizione fu informato anche De Gasperi, che la citò nel suo discorso del 10 agosto 1946 alla conferenza di pace: «voi vi chiuderete gli orecchi alle grida di dolore degli italiani dell’Istria […] che sono pronti a partire, ad abbandonare terre e focolari pur di non sottomettersi al nuovo regime?». Nella relazione del prefetto si annota che «molte cure hanno rivolto i polesani al trasporto della propria mobilia. Costituiva, difatti, tutta la ricchezza che essi potevano recare con loro. Si provava una strana impressione ad andare a Pola in quei tempi: non si udiva che batter chiodi, in un continuo passaggio di casse di ogni genere e di imballi trasportati dai laboratori alle case, dalle falegnamerie alle abitazioni». Faticosa fu la ricerca di magazzini nei porti di Trieste, Venezia, Ravenna, Ancona e Brindisi. Vennero infatti trasferiti qualcosa come 129.391 metri cubi di masserizie, per un valore di circa due miliardi e mezzo di lire. Furono traslocate anche 59 salme. Meno complicato il trasferimento delle persone, che venne dichiarato ufficialmente aperto il 23 dicembre 1946. Agli esuli veniva corrisposto all’arrivo, per le prime necessità, un sussidio di 3000 lire al capo famiglia e di 1000 lire a ogni componente.

Anna Maria Mori racconta il suo esodo da Pola

"Io, nata a Pola, in Istria. Alla nascita, una condizione borghese e quasi felice. Poi la guerra, la fine della guerra, il Trattato di Pace. E l'esodo. Insieme a trecentocinquantamila di cui si sono perse in larga misura le tracce, mentre i loro mobili, le stoviglie, gli album delle fotografie con la storia della loro vita e le innocenti scommesse fallite sul futuro, rimanevano a marcire nei silos a Trieste. Confusi in quei trecentocinquantamila, mia madre e mio padre, che per vivere o solo sopravvivere, si inventano commercianti, e in un dopoguerra, allegro, anche se non per loro, ma povero per tutti, si ingegnano a confezionare pacchettini con venticinque grammi di caffè macinato". 


"Una vita, la loro, incominciata insieme [...]. Una vita che sembrava dover continuare in salita: prima una casa piccola con il giardino a gigli di Sant'Antonio che il 13 giugno, tutti fioriti insieme, ti davano lo stordimento; poi la villa grande, nata grigia e diventata rossa, pomposamente battezzata 'villa fiorita' nella quale si lavorava, cantava, mangiava e rideva. Mamma aveva le amiche, con le quali, probabilmente, rideva e parlava d'amore. Papà aveva gli amici, con i quali condivideva la passione di qualche sport (la bicicletta), delle letture, della politica. Erano due persone socievoli [...]. Quel che hanno perso, purtroppo, è stata la socievolezza: a Firenze, e poi a Roma, non hanno più avuto amici con i quali ridere, parlare o giocare a carte. Hanno scelto di essere soli, loro due. Per la difficoltà a condividere con gli altri, che non sapevano e non volevano sapere, quella ferita che si chiamava esodo e che sembrava una cosa di cui doversi vergognare [...]"


"E noi eravamo diventati povera gente. Povera gente che ha scelto l'Italia, quella della loro fantasia: fantasia ingenua di istriani educati a faticar cantando, a non protestare, a non gravare sugli altri. Ma l'Italia è altra e diversa: più bizantina, furba, anche abbastanza bugiarda, sin dal primo dopoguerra si impegna nei brogli elettorali, nelle pensioni di falsa invalidità, negli imbrogli della Cassa del Mezzogiorno, nella costruzione di clientele politiche e partitiche, nella speculazione edilizia e via elencando; di conseguenza non ha tempo, non ha voglia di capire se c'è stata, e cos'è stata, la tragedia istriana". 


"Questi istriani che si proclamano 'fratelli d'Italia' e cantano piangendo 'Va' pensiero', infagottati nei loro cappotti fatti con le coperte militari, sono ingombranti, imbarazzanti, non li capisce, non ha tempo di capirli, anzi, sulla base di un istinto che troverà poi comodamente il modo di fondarsi su un pregiudizio contrabbandato come giudizio fondamentalmente politico, li respinge ('Tutti fascisti e irredentisti...gente buona per d'Annunzio'). Loro, gli istriani, emarginati, ignorati quando non messi sotto accusa, un po' alla volta si ritroveranno tra loro, entreranno a far parte a Roma, piuttosto che a Venezia o a Trieste, di questa piuttosto che di quell'altra associazione che gli consenta una volta l'anno di celebrare una messa in memoria, di fingere di esistere nella Storia d'Italia, di aver diritto all'interno di quella storia a una pagina che parli di coraggio e dignità, e ogni volta finisce tutto con una tavolata (a pagamento, si capisce): prosciutto istriano, scampi alla busara, patate in tecia, strucolo de pomi e malvasia che schiarisce la gola per intonare tutti insieme 'La Mula de Parenzo'".



Anna Maria Mori, Nelida Milani, "Bora", Frassinelli 1998; poi Sperling, 2005. Passi tratti dalle pp. 220-223. Oggi il libro è in Feltrinelli-Marsilio, 2021.

Amare riflessioni

Il paradosso più lancinante è che la tragedia dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia – il supremo sacrificio dei nostri nonni o dei nostri padri, o magari della nostra infanzia e della nostra giovinezza, è avvenuta invano, perché “la più grande invenzione degli Stati Uniti”, per dirla con Gore Vidal, e cioè la Jugoslavia, s'è rivelata tutt'altro che un edenico rifugio per i comunisti e i rivoluzionari di tutta Europa: è stata una nazione di cartapesta falcidiata da nuovi e feroci nazionalismi, mortificata dalla pulizia etnica, dall'odio politico e da atroci operazioni di ingegneria sociale, durata quanto uno sbuffo: una balla, una balla totalitaria, violenta e omicida. 


Averci spazzato via da lì, come Tito aveva imposto e qualcuno ha consentito, è stato stupido, cattivo e indegno. Quanti, tra i figli e i nipoti dei coloni titini sloveni, croati, bosniaci, rom o chissà chi che adesso abitano Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Rovigno, Pola, Montona, Grisignana o Parenzo, Orsera, Albona, Fiume o Zara sono coscienti di non avere nessun legame etnico e nessun antenato in città, diverso dal padre colono o dalla mamma "rimasta", magari perché era più croata che italiana? Non è questa una catastrofe antropologica?


A che gioco gioca chi ha voluto assegnare le nostre case e le nostre terre a chi niente aveva in comune con esse, con la loro millenaria storia, con la loro inconfondibile bellezza, con la loro veneziana grazia? Che senso ha avuto sostituire un popolo intero? A che e a chi è servita l'invenzione o l'estensione di altre piccole nazioni?


A chi è piaciuto giocare alla fantastoria sulla nostra pelle, e chi ci gioca ancora oggi, che la mascherata comunista titina è finita?

Un'altra verità su Fiume

 "Fiume è sempre stata croata! È quanto sostengono determinati politici che continuano a vedere la storia e le tradizioni della nostra città come una minaccia. Eppure basterebbe raccontare i fatti storici senza nascondere alcuni dettagli, accuratamente censurati o omessi, e in poco tempo tutti si accorgerebbero della verità.


Un esempio di questo è la mostra allestita in Corso in occasione della Settimana dei Cimiteri storici europei nel 2022. Nel parlare di Giovanni Kobler, al quale per fortuna questa volta non è stato tradotto il nome, non c’è menzione alcuna della sua fiumanità, della sua autoctonia, della sua voglia di indipendenza, così tipica di tanti grandi fiumani. Tanto che il testo, solo in croato, cita come motivo per il quale il Kobler è noto l’opera “Povijesna svjedočanstva o liburnijskom gradu Rijeci“. Peccato però che nel 1896 i tre volumi pubblicati avessero il titolo “Memorie per la storia della liburnica città di Fiume”, con tutta l’opera che era stata scritta in italiano.



Qualcuno si è dimenticato di questo dettaglio? Oppure si è scelto di omettere un altro pezzetto di storica italianità di queste terre? E dire che lo stesso Kobler indica all'inizio delle sue "Memorie" che l'occasione per la loro composizione fu data dal desiderio del municipio di Fiume di comporre un'opera che respingesse attraverso un approfondito studio delle fonti, le pretese croate sulla città, ribadendo i privilegi che l'avevano fatta diventare corpus separatum, direttamente dipendente dalla corona ungherese. In barba a quanto affermato dall’Archivio di stato, che ha cercato di smentire Orban che aveva parlato del mare sottratto all’Ungheria, riferendosi a Fiume.


Per concludere, vorrei ricordare che l’opera non è mai stata pubblicata integralmente in lingua croata. Si è fatto un tentativo nel 1995, ma per mancanza di fondi non si è riusciti a tradurre e pubblicare tutto."


— Moreno Vrancich,

presidente dell'Assemblea della Comunità degli Italiani di Fiume

QUANDO IL TENENTE CRESPI NON VOLLE BOMBARDARE L'ISTRIA

Questo racconto, senza l'allegato, è stato pubblicato sul numero di dicembre 2006 di AERONAUTICA rivista mensile dell’Associazione Arma Aeronautica e sul numero di luglio-dicembre 2007 della rivista semestrale FIUME della Società di Studi Fiumani.


Il giorno 3 gennaio 1945 il 254° wing assegnò come obiettivo allo stormo Baltimore il porto di Arsa situato in Istria. Era il primo bersaglio dello stormo situato sul territorio nazionale. Nel corso della riunione preparatoria, alla quale partecipavano degli ufficiali alleati, il ten. Crespi, una volta conosciuto l’obiettivo della missione, interruppe la riunione con un suo vibrante intervento contrario all’azione della stormo in territorio italiano. Questo comportamento suscitò lo stupore degli ufficiali alleati e la preoccupazione del comandante di stormo per l’eventuale condivisione dei sentimenti del ten. Crespi da parte di altri membri degli equipaggi di volo e per le conseguenti possibili opposizioni agli ordini inglesi. Ciò era plausibile in quanto il ten. Crespi, già valoroso aerosiluratore, godeva di stima e rispetto del personale combattente dell’unità. Pertanto, il tcol. Roveda lo allontanò subito dalla riunione e gli comminò la massima punizione prevista per gli ufficiali dal regolamento di disciplina militare, consistente in 10 giorni di arresti di rigore e 10 giorni di arresti semplici. La punizione aveva soprattutto valore morale perché l’interessato non l’avrebbe dovuta scontare, come si usa in guerra per il personale combattente. Crespi ricevette il biglietto di punizione, ma poi chiese che la motivazione contenesse la specificazione che la missione per la quale egli aveva protestato ed era stato punito, doveva essere svolta su un obiettivo in territorio nazionale. Il comandante di stormo concesse la modifica richiesta. Questa gravissima punizione disciplinare non valse a variare l’altissimo rendimento in azione del tenente, egli, infatti, è, dopo il cap. Graziani, il pilota dello stormo Baltimore che compì il maggior numero di missioni belliche (56 missioni in 6 mesi) nella campagna aerea 1944-45.


Le immagini sotto riportate mostrano la comunicazione della punizione comminata al ten. Crespi e l’emendamento della motivazione, entrambe a firma del comandante di stormo tcol. Renato Roveda. Crespi, che poi è divenuto generale, considera la punizione che ha ricevuto alla stregua o forse meglio di una decorazione al Valor Militare.





Un monumento ai fiumani a Sülysáp, Ungheria

A Sülysáp, contea di Pest, nel cosiddetto cimitero di Sülyá, troviamo un monumento ai caduti italiani di Fiume.

Intere famiglie fiumane che erano ritenute compromesse con l’irredentismo vi furono deportate: circa 800 i fiumani internati e di questi ben 149 perirono per denutrizione, freddo e colera, mentre nacquero 17 bambini e ci furono pure due matrimoni. 




Allo scoppio della prima guerra mondiale, le autorità ungheresi guardavano con sospetto alcune nazionalità che vivevano nel paese, mettendo in dubbio la loro fedeltà alla monarchia. 


Questi "soggetti sospetti e inaffidabili" sono stati rinchiusi nei campi di internamento. Durante la guerra, uno dei campi di internamento istituiti in Ungheria per la detenzione di civili operò nel villaggio di Sülysáp, Tápiósüly, allora ancora separato, tra il 1915 e il 1918. Dal 1916 in poi centinaia di rumeni della Transilvania furono ammassati nel campo. C'è stato un tempo in cui il campo, originariamente progettato per 2.000 persone, ospitava 4.000 persone, più di mille delle quali morirono, principalmente a causa di una furiosa epidemia di tifo tra febbraio e maggio 1917.


La maggioranza di coloro che morirono durante il campo erano rumeni, ma persero la vita anche civili internati italiani, la maggioranza dei quali erano cittadini della città di Fiume.


Nel 1995, il partito italiano promotore - Società Storica di Fiume con sede a Roma e Comunità della Città Libera di Fiume in Esilio - si è rivolto all'Ambasciata d'Ungheria a Roma. Sulla base della gentile dichiarazione di György Réti, consigliere capo degli affari esteri in pensione dell'ambasciata ungherese a Roma, in seguito ha fornito un'assistenza significativa ai ricorrenti.


Amleto Ballarini e i suoi colleghi, con l'aiuto del personale dell'Archivio Nazionale Ungherese, hanno identificato i cittadini di Fiume morti nel campo sulla base delle copie del registro dei morti. In tal modo, si è concluso che 149 persone potevano essere considerate residenti a Fiume.


Il comune di Sülysáp ha accolto con favore l'approccio italiano: “la dirigenza del villaggio sostiene l'attuazione dell'idea italiana nelle proprie possibilità, descrivendola come esemplare” - si legge nel rapporto dell'NKKA sul caso. Si legge inoltre che ”sulla base dei documenti esistenti si può dare un quadro preciso di coloro che morirono nel campo e del luogo di sepoltura […] nazionalità.“


Contrariamente alla dichiarazione positiva nel documento NKKA sull'esatta posizione del cimitero del campo, infatti, la più grande difficoltà nell'individuare il monumento era che non potevano identificare con precisione la posizione delle tombe. Per localizzare il cimitero - in assenza di documentazione superstite - i creatori hanno dovuto fare affidamento da un lato alla memoria degli anziani ancora viventi e dall'altro al numero estremamente ridotto di fonti scritte. Il primo è stato decisivo, poiché i residenti più anziani che vivevano nell'insediamento ricordavano ancora la storia dei loro genitori, i loro nonni, che gli italiani e i rumeni che erano morti nel campo furono sepolti sulla collina del cimitero. Mentre molti di loro ricordavano il luogo, sulla base dell'annuncio di István Benkó, l'allora sindaco dell'insediamento, lo mostrarono al comitato che conduceva l'ispezione sul campo. Al termine del sopralluogo, il sito dell'ex cimitero, tenuto conto dei dati conservati nella memoria umana e delle fonti, è stato collocato come una sorta di consenso sulla collina cimiteriale ad ovest della colonna eretta dalle truppe rumene che occupavano il villaggio in 1919. (Nella sua giovinezza, István Benkó aveva sentito da suo padre e da altri, allora anziani, parlare della "fossa comune" nel cimitero. e la posizione del monumento fu designata approssimativamente al centro dell'area più ampia e contigua risultante.


Prima dell'inaugurazione, il parroco dell'insediamento, dott. László Szegedi e padre Sergio Katunarich da parte italiana, al termine della messa, “i presenti si sono organizzati in processione, davanti alla quale è passata la bandiera della città di Fiume, […] e insieme tutti gli ufficiali civili, militari ed ecclesiastici, ungheresi e fiumani, sono giunti insieme al memoriale che fu inaugurato e benedetto con gli inni delle due nazioni”.










La torre civica di Fiume in esilio



La Torre civica di Fiume data ai Fiumani Diracca dalla vedova di Mario Blasich uno dei capi autonomisti di Fiume, il quale ormai anziano e paralitico, fu strangolato nel suo letto da due partigiani slavi Pilepic e Smerdelj il 4 maggio 1945 a Fiume occupata. 

La vedova di Blasich diede ai Diracca la Torre civica affinché la portassero in esilio e per paura che i titini tornassero in quella casa per rubare ancora e distruggessero la Torre a cui tenleva particolarmente il marito. 

Museo Archivio Storico di Fiume a Roma.