"Io, nata a Pola, in Istria. Alla nascita, una condizione borghese e quasi felice. Poi la guerra, la fine della guerra, il Trattato di Pace. E l'esodo. Insieme a trecentocinquantamila di cui si sono perse in larga misura le tracce, mentre i loro mobili, le stoviglie, gli album delle fotografie con la storia della loro vita e le innocenti scommesse fallite sul futuro, rimanevano a marcire nei silos a Trieste. Confusi in quei trecentocinquantamila, mia madre e mio padre, che per vivere o solo sopravvivere, si inventano commercianti, e in un dopoguerra, allegro, anche se non per loro, ma povero per tutti, si ingegnano a confezionare pacchettini con venticinque grammi di caffè macinato".
"Una vita, la loro, incominciata insieme [...]. Una vita che sembrava dover continuare in salita: prima una casa piccola con il giardino a gigli di Sant'Antonio che il 13 giugno, tutti fioriti insieme, ti davano lo stordimento; poi la villa grande, nata grigia e diventata rossa, pomposamente battezzata 'villa fiorita' nella quale si lavorava, cantava, mangiava e rideva. Mamma aveva le amiche, con le quali, probabilmente, rideva e parlava d'amore. Papà aveva gli amici, con i quali condivideva la passione di qualche sport (la bicicletta), delle letture, della politica. Erano due persone socievoli [...]. Quel che hanno perso, purtroppo, è stata la socievolezza: a Firenze, e poi a Roma, non hanno più avuto amici con i quali ridere, parlare o giocare a carte. Hanno scelto di essere soli, loro due. Per la difficoltà a condividere con gli altri, che non sapevano e non volevano sapere, quella ferita che si chiamava esodo e che sembrava una cosa di cui doversi vergognare [...]"
"E noi eravamo diventati povera gente. Povera gente che ha scelto l'Italia, quella della loro fantasia: fantasia ingenua di istriani educati a faticar cantando, a non protestare, a non gravare sugli altri. Ma l'Italia è altra e diversa: più bizantina, furba, anche abbastanza bugiarda, sin dal primo dopoguerra si impegna nei brogli elettorali, nelle pensioni di falsa invalidità, negli imbrogli della Cassa del Mezzogiorno, nella costruzione di clientele politiche e partitiche, nella speculazione edilizia e via elencando; di conseguenza non ha tempo, non ha voglia di capire se c'è stata, e cos'è stata, la tragedia istriana".
"Questi istriani che si proclamano 'fratelli d'Italia' e cantano piangendo 'Va' pensiero', infagottati nei loro cappotti fatti con le coperte militari, sono ingombranti, imbarazzanti, non li capisce, non ha tempo di capirli, anzi, sulla base di un istinto che troverà poi comodamente il modo di fondarsi su un pregiudizio contrabbandato come giudizio fondamentalmente politico, li respinge ('Tutti fascisti e irredentisti...gente buona per d'Annunzio'). Loro, gli istriani, emarginati, ignorati quando non messi sotto accusa, un po' alla volta si ritroveranno tra loro, entreranno a far parte a Roma, piuttosto che a Venezia o a Trieste, di questa piuttosto che di quell'altra associazione che gli consenta una volta l'anno di celebrare una messa in memoria, di fingere di esistere nella Storia d'Italia, di aver diritto all'interno di quella storia a una pagina che parli di coraggio e dignità, e ogni volta finisce tutto con una tavolata (a pagamento, si capisce): prosciutto istriano, scampi alla busara, patate in tecia, strucolo de pomi e malvasia che schiarisce la gola per intonare tutti insieme 'La Mula de Parenzo'".
Anna Maria Mori, Nelida Milani, "Bora", Frassinelli 1998; poi Sperling, 2005. Passi tratti dalle pp. 220-223. Oggi il libro è in Feltrinelli-Marsilio, 2021.
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