mercoledì 1 novembre 2023

Poesia "Miramar" di Giosuè Carducci

O Miramare, a le tue bianche torri

attediate per lo ciel piovorno

fosche con volo di sinistri augelli

vengon le nubi. 

Miramare, contro i tuoi graniti

grige dal torvo pelago salendo

con un rimbrotto d'anime crucciose

battono l'onde. 

Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi

stanno guardando le città turrite,

Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo,

gemme del mare; 

e tutte il mare spinge le mugghianti

collere a questo bastion di scogli

onde t'affacci a le due viste d'Adria,

rocca d'Absburgo;

e tona il cielo a Nabresina lungo

la ferrugigna costa, e di baleni

Trieste in fondo coronata il capo 

leva tra' nembi. 

Deh come tutto sorridea quel dolce

mattin d'aprile, quando usciva il biondo 

imperatore, con la bella donna,

a navigare! 

A lui dal volto placida raggiava

la maschia possa de l'impero: l'occhio

de la sua donna cerulo e superbo 

iva su 'l mare. 

Addio, castello pe' felici giorni

nido d'amore costruito in vano!

Altra su gli ermi oceani rapisce

aura gli sposi. 

Lascian le sale con accesa speme

istoriate di trionfi e incise

di sapienza. Dante e Goethe al sire

parlano in vano 

da le animose tavole: una sfinge

l'attrae con vista mobile su l'onde:

ei cede, e lascia aperto a mezzo il libro 

del romanziero. 

Oh non d'amore e d'avventura il canto

fia che l'accolga e suono di chitarre

là ne la Spagna de gli Aztechi! Quale

lunga su l'aure

vien da la trista punta di Salvore

nenia tra 'l roco piangere de' flutti ?

Cantano i morti veneti o le vecchie

fate istriane ? 

— Ahi! mal tu sali sopra il mare nostro

figlio d'Absburgo, la fatal Novara.

Teco l'Erinni sale oscura e al vento

apre la vela. 

Vedi la sfinge tramutar sembiante

a te d'avanti perfida arretrando! 

il viso bianco di Giovanna pazza

contro tua moglie. 

È il teschio mozzo contro te ghignante 

d'Antonietta. Con i putridi occhi

in te fermati è l'irta faccia gialla

di Montezuma.

Tra boschi immani d'agavi non mai

mobili ad aura di benigno vento,

sta ne la sua piramide, vampante

livide fiamme 

per la tenebra tropicale, il dio

Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta,

e navigando il pelago co 'l guardo

ulula — Vieni. 

Quant'è che aspetto! La ferocia bianca

strussemi il regno ed i miei templi infranse:

vieni, devota vittima, o nepote

di Carlo quinto.

Non io gl'infami avoli tuoi di tabe

marcenti o arsi di regal furore; 

te io voleva, io colgo te, rinato 

fiore d'Absburgo; 

e a la grand'alma di Guatimozino

regnante sotto il padiglion del sole

ti mando inferia, o puro, o forte, o bello

Massimiliano. —

Epigrafi di Pirano

A Pirano sono sicuramente oltre cento le epigrafi che percorrono la sua storia da Roma al 2004. Sono un po’ ovunque. 

Una pubblicazione, patrocinata dalla CAN, ne raccoglierà oltre 80.

Un esempio? Sul lato destro della facciata del Tribunale una piccola lapide grigio-azzurra ricorda cinque piranesi che “diedero la vita per la nostra redenzione”. La frase è chiaramente antiaustriaca. Messa nel 1919 e ricordava i volontari italiani che persero la vita combattendo contro l’Austria-Ungheria, di cui erano cittadini.

Nel 1919, quando fu collocata era appendice della più grande “targa della Vittoria”, in bronzo, dedicata all’ultima battaglia dell’esercito italiano su quello austroungarico, che sancì la fine della I guerra mondiale. Secondo un giornaletto dell’epoca fu distrutta la notte del 13 luglio 1946 da un gruppo di federativi.


La cartolina che a Pirano fu stampata con i ritratti dei volontari

La lapide oggi, priva di riferimenti è difficile comprenderne il significato.


martedì 31 ottobre 2023

Cartolina dei più noti uomini del partito autonomista della Dalmazia





Questa cartolina è stata stampata dall'editore Gaetano Feoli di Zara ed è stata spedita nel 1901 da Lissa al sig. Tito Alacevich a Roma. Il conte Tito Alacevich – erede di un'antica famiglia nobile della Dalmazia – allora presiedeva nella capitale del Regno d'Italia la Società dei Dalmati, costituita da un gruppo di italiani della Dalmazia che vivevano in Italia. Questa Società svolgeva opera apertamente irredentistica, e proprio in quei mesi era impegnata in una lotta (persa) per impedire che la Chiesa e l'Istituto di San Girolamo di Roma andassero alla chiesa croata, giusta Bolla di papa Leone XIII del 1 agosto 1901. Ecco cosa scrisse in merito "La Civiltà Cattolica":

"Così fu fondato il nuovo Collegio Geronimiano e nominatone Rettore il Rev. Dr. Pazman, che subito ne prese possesso. Ma il diavolo ci volle mettere dentro la sua coda. Un gruppo di cittadini Dalmati italiani, residenti in Roma, ricalcitrarono contro le savie e giustissime disposizioni del Pontefice. Prima vi s'opposero a parole, lanciando articoli di protesta sulle colonne dei giornali antivaticani e massonici, e poi vennero anche a vie di fatto. Il 29 agosto sul mezzodì il conte Alacevich, dalmata pubblicista, arrogandosi il titolo, che mai non ebbe, di Presidente della Congregazione di San Girolamo, accompagnato dal canonico Vitich e da altri dalmati della stessa lega, organizzò ed eseguì l'invasione dell'Istituto di S. Girolamo. Alle energiche proteste del Rev. Dr. Pazman, i dalmati risposero che essi ne erano i legittimi proprietarii, e non già i croati, veri intrusi. Il Pazman chiamò allora la polizia, ma questa invece di scacciare i Dalmati, se ne lavò le mani, dicendo che non poteva farvi nulla, salvo che lasciare una guardia alla porta per la tutela dell'ordine. I Dalmati, spalleggiati così dal Governo e dalla autorità di pubblica sicurezza, dopo avere occupate varie stanze dell'Istituto, inalberarono la loro bandiera alla finestra."

La questione diventa un caso diplomatico: intervengono il governo italiano e quello austriaco, e dopo un certo tira e molla l'Istituto viene riconsegnato ai croati. Nell'articolo della Civiltà Cattolica si fa anche la storia di questa rivendicazione, attribuendola alle pulsioni irredentiste italiane, rafforzate dalla questione albanese che in quel momento era sul tavolo e vedeva Italia e Austria contrapposte. Vengono citati i telegrammi di approvazione dell'operato di Alacevich e dei suoi, che arrivarono da varie parti d'Italia, dalla Dalmazia e dall'Ungheria. Fra di essi si cita quello del deputato ungherese Ferenc Kossuth, figlio dell'eroe Lajos Kossuth, che capeggiò la rivolta ungherese antiaustriaca del 1848-1849, soffocata nel sangue e fortemente contrastata dai croati. La Civiltà Cattolica così conclude:

"Insomma a che servirà tutto questo tramestio? A maggiore inasprimento di lotta tra italiani e croati in Dalmazia."

Nella cartolina si scrive che al conte Alacevich erano state spedite con assegno postale "le poche corone radunate", evidentemente raccolte fra gli italiani della Dalmazia. Campeggiano sopra il testo scritto le immagini di alcuni dei più noti uomini politici del partito autonomista della Dalmazia del XIX secolo: Galvani, Bajamonti, Lapenna, Giovannizio e Radman. Insomma: una cartolina che ci parla di un'epoca lontana, in cui ancora si lottava per il predominio in Dalmazia fra italiani e croati.

Pola: 15 agosto 1946

Sora la Rena xe scura la conca 

d’un tempestado cel de tante stele.

Dentro, fra i archi, lampadine e fari 

rompi la note; i forma scherzi d’ombre 

mentre sul mar, nel porto, qualche lume 

fa slusigar legera la mareta 

che, pianin, mormora contro la riva.

Quindici agosto festa de Maria 

festa de Pola in agonia.


Mai ne la Rena tanta gente insieme, 

tanta gente che pensa a un modo solo, 

mai tanta gente drio a l’inferiade,

un sora l’altro, done, muli e veci.

Gira i « cerini » intorno tuti atenti; 

fra i oleandri i guarda e fra le graie,

soto le scalinade e soto ’l palco...

Gnente paura! I « drusi » stà lontani

In Rena, ogi, solo Italiani!


Dopo i ginasti presentadi a turno,

mule e ragazi, dal maestro Urbani, 

vien avanti sul palco un coro misto.

El glorioso nostro coro « Ciscuti ».

In ogni cor za palpita le note 

dei veci e novi canti polesani 

col « Nabucco », i « Lombardi » e l’Inno a l’Istria. 

Sentimo tuti ’na vose che ciama...

xe l’Italia, la nostra Marna.


E ... «Va pensiero su l’ali dorate »... 

i coristi singioza a gola streta...

Italia!... Italia!...rispondi la fola, 

sventolando bandiere tricolori.

Tuti xe in piè: chi piansi, chi prega, 

chi se basa, chi ridi, chi stà zito, 

col sguardo perso lontan ne la note.

Italia!... Italia!... el zigo se ripeti 

urlà da mile e mile peti!


Un camerier tremando se vicina:

« Che bel che xe... che comovente tuto »...

cussi ’l me disi e, mentre ’l parla, grossi 

lagrimoni ghe casca zo dai oci.

Tuto ’l popolo canta... canta Pola 

con le note sfogante ’l dolor suo, 

palesando l’amor per la su’ Patria.

O siori Inglesi, siori Americani: 

coss’ ve par? Semo Italiani?


L’ino del Piave se sperdi per l’aria, 

acompagnando ’l popolo che sfola.

Le lampadine se studa d’un colpo... 

resta sola la Rena ne la note.

Sola, pensando che fra pochi mesi 

l’ofer darà le lagne dei sc’iavoni

cantando a Tito e spapuzando ’l «kolo ». 

Canta ancora la gente da per tuto 

...fra tre giorni pianti e luto...

Canzone polesana

Io di Giulia son figliuola.

Era Augusto il mio signor.

Il pensiero e la parola

Dei latini serbo ancor.

Il confine nazionale

Gente estranea ci contesta;

Qui da secoli ci assale.

Ci disturba, ci molesta.


Veniamo, veniamo — o madre latina,

Se tu ci abbandoni — la patria rovina.

La dolce favella — l'eterno diritto

È caro retaggio — di un popolo invitto.

Va in cima dell'Alpe — sirena a cantar:

Ristate, ristate — non lascio passar.

Contratto fra un abitante di Traù e un villano di Spalato (Spalato, 1 luglio 1359)


(Tratto da "Testi non toscani del Trecento" a cura di Bruno Migliorini e Gianfranco Folena, del 1952)

Item fe un acordu Stoyane Dioscharich cum Bene de Tragura de un bo chi li dà Bene a lavorar a Stoyane, a tal patu chi Stoyane li deça dar per lu bo stara XII de blava: di quisti XII stara, dé esser stara I di gran, stara I de fava stara I di çiser, stara I di sumisiça, 5 stara VI orçu, stara II di suocivica, chi sia quista blava di qual si contentarà dicto Bene et a tal patu li dé dicto bo. Si lo bo sirà toltu per força chi sia danu a Bene; esi bo mora chi essu danu sira a Bene; si lu bo rumpi lu pe no lavorando, danu a Bene; e si bo murisi magru per fatiga di gran sforçu de lauorar danu a Stoyane; si bo fosi inuolado danu a Stoyane; si bo rumpisi pe lavorando danu a Stoyane. E lu prixu de bo sie 1. XV. Ancora lo dicto Bene imprestò a dicto Stoyane stara XXV d'orcu a tal patu chi lo dicto Stoyane li deça 15 pagar...

 



Il contributo rinascimentale dei dalmati all'evoluzione artistica italiana (E. Marcuzzi)