mercoledì 6 marzo 2024

(In)civiltà asburgica (M. Vigna)

L'ultimo luogotenente del kaiser (Statthalter) nella Venezia Giulia (Litorale) fu il barone Alfred von Freis-Skene.

Dall'Osservatore Triestino, martedì 16 febbraio 1915:

L'ultimo luogotenente: il barone Alfred von Fries-Skene, luogotenente di nuova nomina, è presentato al personale dal vicepresidente, conte Enrico Attems. Nel suo saluto fa appello al senso di responsabilità degli impiegati dello Stato. In carica sino al 1918, toccherà a lui ordinare alle truppe austriache di abbandonare la città.

Come gli altri suoi predecessori, era un rampollo dell'aristocrazia austriaca e scelto personalmente dall'imperatore Francesco Giuseppe per la sua lealtà.

Entrato in carica nel 1915, vi restò sino al 1918, dunque durante tutta la durata della guerra fra Italia ed Austria-Ungheria.

Il suo governatorato si segnalò sia per la persecuzione contro gli italiani sudditi austriaci, che fu intensificata rispetto agli anni di pace (non intrapresa: durava sin dal 1866), sia per la corruzione dell'amministrazione.

Il nobiluomo, accusato di modeste doti intellettuali e scarsa voglia di lavorare, era anche sospetto di disonestà, specie per i rapporti con Sieghart, banchiere austriaco, e per il nepotismo verso i parenti.

A guerra finita, nel 1919, Sua Eccellenza fu colto con le mani nel sacco in un circolo esclusivo di Vienna, il Jokey Club, mentre barava al tavolo da gioco, venendo immediatamente espulso.

Ricordo struggente di Mafalda Codan

I brani che seguono sono tratti dal diario di Mafalda Codan che venne arrestata a Trieste, dove si era rifugiata, ai primi di maggio del 1945.
Anche il padre e gli zii della giovane donna, commercianti e possidenti, erano stati arrestati e infoibati in Istria nell'autunno del 1943.


Il 7 maggio 1945 [...] prendo un libro e vado in giardino. Appena uscita mi trovo davanti tre partigiani comandati da Nino Stoinich con il mitra spianato. Prima di tutto si rallegrano dell'orribile morte dei miei cari e poi mi intimano di seguirli. Vestita come sono, senza poter più né entrare in casa né salutare la mamma, devo seguirli. Con un filo di ferro mi legano le mani dietro la schiena e mi fanno salire su una macchina.[...] Prima sosta, Visinada. Mi portano sulla piazza gremita di gente, partigiani, donne scalmanate, urlano, gesticolano, imprecano. S. mi presenta come italiana, nemica del popolo slavo, figlia di uno sfruttatore dei poveri, tutti cominciano a insultarmi, a sputacchiarmi, a picchiarmi con lunghi bastoni e a gridare: a morte, a morte. [...] A Santa Domenica mi portano davanti alla casa di Norma Cossetto, infoibata nel settembre del 1943, chiamano sua madre, vogliono farla assistere alle mie torture per ricordarle il martirio della sua Norma. La signora, nonostante le severe intimazioni, si rifiuta di uscire, la trascinano a forza sulla porta e, appena mi vede in quelle condizioni, cade a terra svenuta. [...]

Siamo arrivati davanti a casa mia. [...] Si raduna subito una folla scalmanata e urlante: il tribunale del popolo. Stoinich tira fuori un foglio e comincia a leggere le accuse: infondate, non vere, testimonianze false, imposte. Vedo i miei coloni e molte persone aiutate e mantenute gratis da mio padre. Non posso credere ai miei occhi, sono gli stessi che prima "veneravano" la mia famiglia e si consideravano amici, ora sono qui per condannarmi e gridare "a morte". Sono diventati tutti un gregge di pecore, fanno ciò che è stato loro imposto di fare, ora seguono chi comanda, chi promette loro la spartizione delle terre dei padroni. Non posso stare zitta, urlo anch'io, non posso puntare il dito contro quelle bestie mostruose solamente perché ho le mani legate, li chiamo allora per nome, li accuso della morte dei miei cari, dei furti commessi, dei soprusi, dei debiti mai pagati... e da accusata divento accusatrice. [...] Nell'ex dopolavoro mi attendono tre donne. Mi legano a una colonna in mezzo alla sala, a sinistra e a destra mi mettono due bandiere slave con la stella rossa e sopra la testa il ritratto di Tito. È un druze grande e grosso che dà il via al pestaggio. Con tutta la sua forza comincia a percuotermi con una cinghia. Mi colpisce così forte sugli occhi che noti riesco più a riaprirli. Mi spiace perché ho sempre avuto il coraggio di fissare negli occhi chi mi picchiava. Le sevizie continuano, le donne mi colpiscono con grossi bastoni, con delle tenaglie cercano di levarmi le unghie ma non ci riescono perché sono troppo corte. Una scalmanata, con un cucchiaio mi gratta le palpebre gonfie, ferite e chiuse: "Apri gli occhi che te li levo" mi grida. [...] Più tardi mi fanno fare il giro del paese legata a una catena come un orso, mi segue un codazzo di bambini divertiti. [...] Arriva un carro, mi fanno salire, fanno correre il cavallo e io devo stare in piedi. Le continue scosse mi fanno cadere e, ogni volta, un colpo di mitra mi rialza. In quelle condizioni giro diversi paesi. [...] A Parenzo mi portano nel piazzale del Castello, ora caserma, dove sono radunati gli uomini. [...] Quello che si scaglia furibondo contro di me è Ziri, un mio ex colono che ha avuto tanto bene da mio padre. Dice di essere felicissimo di vedermi in quelle condizioni e spera che tutta la famiglia sia distrutta per essere lui il padrone dei nostri campi.

[Nel castello di Pisino] Tutte le notti, un partigiano dalla faccia cupa e torva, entra nelle celle ed esce con qualcuno che non tornerà più. Quando al lume delle torce cerca sul foglio i nomi, gli occhi di tutti sono attaccati alla sua bocca e un brivido improvviso ci attraversa il corpo. Le urla di dolore di Arnaldo [il fratello diciassettenne, detenuto e torturato nel medesimo carcere] e degli altri suoi compagni di pena mi risuonano dolorosamente nella testa giorno e notte. [...] Una notte la porta si apre e subito mi assale il terrore, questa volta sul foglio c'è anche il mio nome. [...] Io vengo legata braccio a braccio con una giovane incinta. Ci conducono sullo spiazzo del castello dove ci attendono due camion già pieni di prigionieri, con i motori accesi. Ci caricano sul secondo, chiudono le sponde e vien dato l'ordine di partire. In quell'istante arriva di corsa un ufficiale con un foglio in mano e grida: "Alt! Mafalda Codan giù". Mi sento mancare, tremo tutta […]. Il capo mi prende per un braccio, mi accompagna in una casetta di fronte al carcere, mi getta in una stanza buia e mi chiude dentro. [...] Al mattino gli aguzzini tornano felici di aver ucciso tanti nemici del popolo. Li hanno massacrati tutti. Uno entra nella mia nuova "residenza" e mi chiede: "Quanti anni aveva tuo fratello? Non voleva morire sai, anche dopo morto il suo corpo ha continuato a saltare" […].

Una mattina un druze mi accompagna al Comando. Entro in un ufficio, dietro una scrivania siedono due uomini dall'apparenza civile, sono due giudici, uno indossa l'uniforme, l'altro è in borghese. "Hai visite" mi dicono, aprono una porta ed entrano quattro donne scalmanate. "Come? E' ancora viva?" chiedono arrabbiate. "Perché non è "partita" con gli altri? ". Urlano, gridano, vogliono picchiarmi. I due capi glielo proibiscono. Mi accusano di cose inaudite e allora urlo anch'io e, anche questa volta, da accusata divento accusatrice, di cose vere però. Da una frase detta dalle forsennate, capisco che, durante le perquisizioni e i furti perpetrati a casa mia, hanno trovato il mio diario. In un quadernone ho scritto infatti il calvario della mia famiglia iniziato con l'occupazione slavo-comunista del settembre 1943. Ho annotato tutto nei minimi particolari, ore, giorno, mese, avvenimenti, parole dette, tutto [...] e completato con fotografie, documenti importanti e pezzi di giornale. Sono testimonianze che scottano, verità che non si possono negare, che fanno paura, è per questo che vogliono la mia morte. Ora racconto ai giudici tutto quello che è stato fatto alla mia famiglia, cosa ho vissuto, faccio nomi, non riesco a tacere perché ho la coscienza a posto, so di essere innocente, non ho paura di nessuno. [...] Da quell'istante la mia vita cambia. I due capi hanno capito che non ho fatto niente di male. [...] Riacquisto subito la semilibertà, giro da sola senza la scorta di guardie armate e divento la donna di servizio della moglie di Milenko, uno dei capi. È un giovane dalmata, laureato in legge, parla abbastanza bene l'italiano e il francese ed è molto umano. [...] Mangio con loro e, alla sera, ritorno in prigione. Mi trattano umanamente, ma tra noi rimane pur sempre uri rapporto schiavo-padrone. [...] Potrei scappare ogni giorno, ma i miei principi e la parola d'onore data, mi impediscono di farlo. Per nessuna cosa al mondo tradirci la fiducia delle persone che hanno creduto in me. E intanto, pian piano, il grigio sconforto che mi aveva colmato il cuore e la mente negli ultimi mesi, comincia a dissiparsi.

lunedì 4 marzo 2024

Quantità VS Civiltà

(Scritto da Harold Howland, tratto da “The Independent”, Volume 98, 1919)

Dove verrà tracciato il nuovo confine italiano? Questa è una delle questioni spinose della Conferenza di pace. La settimana scorsa ho sottolineato che nel considerare tale questione non abbiamo il diritto di considerare l’Italia altro che un alleato alla pari nel compito di sconfiggere la Germania e l’Austria, e uno dei quattro spiriti dominanti nella Conferenza di Pace. Questo punto di vista sembra essere pienamente accettato dai plenipotenziari di Parigi. Il Consiglio dei Quattro è attivamente operativo, con il Premier Orlando su un piano di parità con Lloyd George, M. Clemenceau e il Presidente Wilson. Non è ancora chiaro quale effetto abbia avuto sui confratelli italiani l'affermazione dei delegati italiani di abbandonare la Conferenza di pace se non fosse stato riconosciuto il diritto dell'Italia su Fiume. Ma il premier Orlando ed i suoi colleghi rappresentanti hanno dietro di sé un popolo determinato a far sì che la città italiana di Fiume sia a tutti gli effetti italiana. A meno che Inghilterra, Francia e America non riconoscano e non concordino con le richieste dell’Italia, è difficile vedere come si possa evitare una rottura con l’Italia.

Qual è la fondatezza delle rivendicazioni italiane sulla sponda orientale dell'Adriatico? Qual è il caso italiano?

Non mi riferisco al caso del governo italiano. Ciò non mi interessa molto, perché spesso i governi non riescono a rappresentare il miglior sentimento e l’opinione delle persone che rappresentano. Anche i rappresentanti governativi sono spesso costretti, o pensano di esserlo, a basare la causa del loro paese su basi giuridiche o tecniche, invece che sulle basi più solide e solide, anche se non così facilmente definibili, della moralità internazionale e del benessere generale. La domanda importante non è: quali argomenti usa Orlando con Lloyd George, Clemenceau e Wilson? Si tratta piuttosto di: Su quali convinzioni gli uomini intelligenti, nobili e di buon animo della Giovine Italia fondano la loro richiesta di ampliamento dei confini dell'Italia? Ogni Paese dovrebbe essere giudicato dal suo meglio. Ciò che conta non è tanto la posizione del governo; è il caso della nazione. Ciò si può apprendere non dalle dichiarazioni ufficiali, ma dalle idee e dalle convinzioni espresse di privati cittadini illuminati e convinti.

Poco importa quindi, secondo me, che Gran Bretagna e Francia si impegnino per trattato a sostenere le pretese dell'Italia su Trento e il Trentino, su Trieste e l'Istria, sulla parte settentrionale della Dalmazia con Zara e Sebenico e su tutte le isole al largo del mare della costa dalmata, a Valona e il suo porto in Albania, e alle isole del Dodecanneso.

È vero che il trattato sembrerebbe fornire una buona ragione per cui Inghilterra e Francia dovrebbero sostenere le rivendicazioni dell'Italia nei confronti delle regioni in esso coinvolte. Perché i trattati sono cose buone da mantenere piuttosto che da stracciare.

Sfortunatamente troverete ovunque in Italia la ferma convinzione che le altre parti contraenti di quell'accordo non si adoperino in buona fede per renderlo efficace. Soprattutto la Francia. È ampiamente dimostrato che le aspirazioni degli jugoslavi sono state in questi ultimi tempi incoraggiate e stimolate dai francesi a scapito e a danno della causa italiana. È deplorevole che tra gli Alleati sorgano tali conflitti e tali gelosie, dopo la grande riuscita con la quale hanno sconfitto l’idea tedesca. Perché in Italia si accusa apertamente e con convinzione che la Francia sostiene le ambizioni jugoslave perché la Francia non vuole che l'Italia sia forte e grande, perché la Francia non desidera che un vicino diventi più potente sul suo fianco sud-orientale. I francesi, dicono e credono in Italia, vogliono la nazione jugoslava come controparte dall'altro lato dell'Italia. Ci sono anche prove che la convinzione non è infondata. Lasciatemi riferire un episodio che mi è pervenuto da buona fonte.

Poco dopo la firma dell'armistizio con l'Austria, quando le forze italiane avevano assunto, secondo i termini dell'armistizio, il controllo delle terre contese sull'Adriatico, una nave da guerra francese arrivò a Fiume. Gli ufficiali francesi diedero un ballo sul ponte della nave, come sono soliti fare gli ufficiali di marina quando si presenta l'occasione per una società femminile. A questa festa furono invitate le dame jugoslave della città, ma non le italiane. È presumibile che tutti abbiano trascorso un momento piacevole. Quando il ballo ebbe terminato il suo corso normale e le dame scesero a terra, portarono le coccarde dei colori jugoslavi, regali dei loro ospiti francesi.

Le autorità italiane impegnate nell'amministrazione degli affari della città avevano deciso, nell'interesse della pace e del buon ordine, che nessun emblema del patriottismo jugoslavo o italiano dovesse essere indossato da individui per le strade. Chiesero cortesemente agli ospiti in partenza dei francesi di togliere le loro decorazioni. "Sarebbe deplorevole", hanno detto, "se qualche soldato italiano troppo zelante o fuorviato dovesse offrirvi un affronto a causa di questi segni della vostra fedeltà. Dovremmo rammaricarci profondamente per un simile incidente".

Le coccarde furono rimosse; e ora, per comprendere la scena successiva del dramma, dobbiamo tornare per un momento indietro nella storia. Nel 1912 l’Italia era in guerra con la Turchia per la colonia africana della Libia, precedentemente nota come Tripoli. Citerò la descrizione di un episodio di quella guerra fatta da un osservatore americano, il signor William Kay Wallace:

Nessun incidente spiacevole aveva rovinato i rapporti amichevoli tra i due paesi quando, il 16 gennaio 1912, l'incrociatore italiano "Agordat" fermò il pacco postale francese "Carthage", diretto a Tunisi, e lo portò a Cagliari, il porto sardo. con il pretesto che trasportava aerei destinati al nemico. Questo gesto delle autorità italiane suscitò l'ira dei francesi, che reclamavano l'immediata liberazione della nave sequestrata, e l'opinione pubblica era compatta nel sostenere le misure più energiche che il Governo ritenesse necessario adottare. Due giorni dopo, quando l'agitazione antiitaliana era al culmine, giunse a Parigi la notizia che un altro piroscafo francese, il "Manouba", diretto anch'esso a Tunisi, era stato preso in custodia con modalità simili dagli italiani a terra. che i ventinove passeggeri turchi, che viaggiavano come medici e infermieri della Mezzaluna Rossa turca, erano in realtà ufficiali dell'esercito turco. I francesi ritenevano che questo secondo incidente fosse un affronto diretto alla loro dignità nazionale. Il governo chiese perentoriamente il rilascio dei piroscafi. Il 20 gennaio la “Carthage” e la “Manouba” furono autorizzate a procedere. Il giorno successivo il governo francese ha chiesto il rilascio dei ventinove funzionari turchi. Il signor Poincaré, allora presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, intervenendo alla Camera, rispondendo ad alcune violente domande sull'accaduto, usò nei confronti dell'Italia un linguaggio che si può definire estremamente fermo, se non ostile. Una settimana dopo l'affare fu liquidato. L'Italia fu costretta a consegnare i passeggeri turchi della “Manouba” alle autorità francesi, mentre entrambe le parti convennero di deferire l'intera questione al Tribunale dell'Aia. Nel maggio 1913 il Tribunale dell'Aia pronunciò la sua decisione. Ha sostenuto la tesi italiana secondo cui nessuno dei due incidenti poteva essere interpretato come un atto di ostilità intenzionale verso la Francia. Nessun risarcimento danni è stato concesso per presunto affronto alla bandiera francese. Nel caso della “Carthage” furono assegnate 6.400 sterline, mentre per la detenzione della “Manouba” furono valutate solo 200 sterline. Questo verdetto proclama virtualmente che l’azione italiana era giustificata. Questo deplorevole incidente turbò ancora una volta, in un momento critico, le relazioni franco-italiane quando sembravano sul punto di diventare amichevoli. In Italia era diffusa la convinzione che gli italiani fossero stati intimiditi dai francesi, mentre in Francia, quella che ai francesi sembrava la politica arrogante dell'Italia nel Mediterraneo era fortemente risentita.

Questo per quanto riguarda l'incidente della storia antica. Torniamo ora a Fiume. Quando gli italiani esaminarono le coccarde presentate alle dame jugoslave dagli ufficiali della marina francese, si trovò che recavano sul retro le parole significative "Cartagine" e "Manouba".

C'è da meravigliarsi che gli italiani credano che i francesi sostengano la causa jugoslava per ostilità verso la nazione italiana? C'è da stupirsi che gli italiani siano risentiti verso quella che sembra loro l'ingratitudine e la gratuita ostilità dei francesi di fronte alla splendida ed efficace cooperazione della nazione italiana contro il comune nemico durante la Grande Guerra?

Ma qualunque sia l’obbligo che il Trattato di Londra impone all’Inghilterra e alla Francia, non costituisce alcuna ragione per cui l’Italia dovrebbe insistere sull’aggiunta di quelle regioni al suo territorio, a meno che tale procedimento non sia giusto e retto. L'Italia dovrebbe chiedere, e ricevere, ciò che è giusto che l'Italia abbia. Niente di più e certamente niente di meno.

Durante i miei otto mesi in Italia ho avuto una splendida opportunità di apprendere quale fosse il vero spirito dell’Italia: lo spirito che mandò l’Italia in guerra e mantenne la nazione salda e fedele, a un prezzo tremendo, fino alla fine. Ho sentito la causa dell'Italia perorare, intimamente e con la massima franchezza, da molti rappresentanti della Giovane Italia. È un fatto interessante e significativo che nessuno di loro abbia posto il Trattato di Londra come base delle rivendicazioni dell'Italia sull'Adriatico. Hanno ignorato i diritti tecnici dell'Italia perché erano troppo interessati ai diritti reali dell'Italia. Hanno basato il loro insistente sostegno alla richiesta italiana di nuovi confini non sulla parola data dagli alleati dell'Italia, ma sulla giustizia essenziale della causa italiana. Vogliono un'Italia nuova e più grande perché è giusto che sia così-giusta, dicono, non solo dal punto di vista italiano ma dal punto di vista della civiltà e del benessere mondiale.

Il caso che presentano, il vero caso italiano, è duplice.

Il primo argomento è strategico. Oggigiorno è di moda guardare con sospetto alle considerazioni strategiche, soprattutto tra coloro le cui speranze per un nuovo mondo, dove la guerra non ci sarà più, tendono a renderli ciechi verso la realtà. Ma, visto alla luce della realtà, non è solo un diritto nazionale ma un dovere nazionale guardare alla sicurezza strategica dei confini della nazione. Questa è una verità che è fin troppo facile per noi in America trascurare. I nostri confini sono strategicamente sicuri. Non siamo esposti agli attacchi di nessuna grande potenza. Ma per quei paesi che, come la Francia e l’Italia, sono soggetti da generazioni all’invasione di vicini spietati, la questione è ben diversa. Dovremmo provare a metterci al loro posto. Non è la prima volta che il popolo italiano assiste alla discesa dalle montagne delle orde degli Unni. L'Italia si è guadagnata in questi ultimi quattro anni, con sangue e sacrifici, il diritto ad una frontiera a nord e ad est che sarà facile da difendere e difficile da violare, invece del contrario come è avvenuto finora. L’Italia dovrebbe essere non solo autorizzata, ma aiutata a garantire la sua sicurezza contro la minaccia di future invasioni.

A questo scopo l'Italia ha bisogno di due cose: della sua frontiera settentrionale al Brennero lungo l'Alto Adige; e un tale controllo della sponda orientale dell'Adriatico da rendere impossibile l'uso di qualsiasi punto di quella sponda come base per operazioni militari contro l'indifendibile costa orientale dell'Italia.

Tale protezione strategica è un diritto irrinunciabile dell’Italia. Non solo i suoi alleati, ma il mondo intero dovrebbe riconoscerlo di cuore e con gioia. Austria e Germania, ovviamente, non ammetteranno la fondatezza della pretesa italiana; ma nella logica degli eventi molte cose devono accadere alla Germania e all’Austria in questo resoconto che non rallegrerà né rincorerà quei prepotenti caduti.

Il secondo argomento a favore della giustizia della richiesta italiana di ridisegnare i confini è ancora più chiaro e convincente. È l'argomento della civiltà e della cultura.

Sarebbe difficile trovare, fuori dei confini degli Imperi Centrali, qualcuno tanto ardito da sostenere che non si deve rendere giustizia all'Italia in materia di frontiere per rispetto dei diritti dei popoli dell'alleanza teutonica. Hanno cercato di imporre la loro volontà all’Europa e al mondo con la forza. Il Dio della giustizia ha voluto che fallissero. Devono pagare il prezzo della loro presunzione malvagia e crudele assicurando i loro vicini, di cui volevano fare vittime, contro ogni recrudescenza dei loro disegni malvagi. Per quanto riguarda l'Austria è giusto che la nuova frontiera dell'Italia venga posta esattamente dove dovrebbe essere, a prescindere dallo status quo ante bellum.

Ma l'unico punto del problema italiano non sono le pretese o le proteste dell'Austria, ma le ambizioni di un nuovo arrivato tra le nazioni d'Europa. Serbi, croati e sloveni propongono di unire i loro territori in un'unica nazione, la Jugoslavia. È questa nuova nazione che contende all'Italia il titolo delle terre ad est dell'Adriatico. Se le tesi degli estremisti jugoslavi dovessero prevalere, l'Italia non solo non otterrebbe alcun nuovo territorio ad est della sua vecchia frontiera, ma perderebbe una parte di quello che attualmente possiede. Ma le posizioni estremiste raramente vengono prese sul serio, o addirittura non vengono prese affatto, se non per scopi commerciali. Quindi possiamo supporre che gli jugoslavi sarebbero contenti di lasciare che l’Italia restasse com’è, e forse anche di avere Trieste. Ma l'Italia di Fiume non deve avere, dicono i serbocroati, né alcuna delle coste dalmate.

Qual è la situazione e qual è il giusto fondamento della rivendicazione italiana?

Sulla sponda orientale dell'Adriatico, grosso modo, le città sono italiane e l'entroterra slavo. A Trieste i tre quarti della popolazione sono italiani, a Fiume più della metà; Zara in Dalmazia è prevalentemente italiana. Ma non appena si lasciano le città e si entra in campagna, o anche nei sobborghi, la natura slava della popolazione risulta subito evidente. La condizione è indiscutibile. È praticamente indiscusso.

A una situazione del genere è praticamente impossibile applicare la teoria dell'"autodeterminazione dei popoli". Questa è una bella frase e contiene in germe una splendida idea. Ma è piena di potenziali pericoli. Perché solleva subito la questione "Che cos'è un popolo? Chi può dirlo in un caso come quello che stiamo considerando? Quale sarà inoltre il test da applicare per decidere cosa richiede quella teoria nel caso di un pezzo di territorio come questo sull'Adriatico". Il conteggio? Questa sembra essere la risposta jugoslava. Nella maggior parte del territorio voluto dall'Italia, dicono i fautori del nuovo Stato, ci sono più jugoslavi che italiani. Contateli e vedrete. Quindi il territorio deve essere jugoslavo. Il conteggio è un processo relativamente semplice, e quindi attraente, ma è una questione seria se produrrà infallibilmente giustizia e promuoverà gli interessi di tutti gli interessati.

Non sarà così, dice con vigore la Giovane Italia. C'è una considerazione più alta della mera preponderanza numerica: civiltà e cultura. Prendiamo la sponda orientale dell'Adriatico, dice, e dicci qual è la civiltà che sta elevando i popoli lì, quale cultura che è la forza vitale più forte lì?

È slava? No; è italiana.

“Tutti sanno”, disse davanti alle nostre tazze di caffè nella città di Udine appena liberata, il giovane tenente italiano, famoso scrittore e pittore della nuova Italia, “che le città sono italiane. Tutti devono confessare che fuori dalle città, la popolazione è slava. Ma anche là fuori, se trovi una scuola, è italiana. Se trovi un teatro, è italiano. Se trovi una galleria d'arte, è italiana. La cultura, la civiltà, è italiana. Nessuno può dubitarne."

Cosa preferirai, si chiede la Giovane Italia, il conteggio dei nasi o la civiltà?

Anche la cultura italiana sta vincendo il sottosviluppo slavo. Gli slavi scelgono di diventare italiani. Mantengono i loro nomi razziali, ma adottano la cultura straniera. Diventano italiani. Anche gli jugoslavi, un po’ ingenuamente, lo ammettono.

È quindi una questione di civiltà contro numeri. Deve prevalere l’uno o l’altro. Non è possibile separare le città dalla campagna. La coda deve andare con la pelle, o la pelle con la coda. Bisogna avere Jugoslavi sotto il dominio italiano, o Italiani sotto il dominio jugoslavo. Quale sarà?

Gli italiani hanno una civiltà antica, con la storia più bella di qualsiasi civiltà al mondo. Dovunque gli slavi sono entrati in stretto contatto con essa, hanno ceduto alla sua benevola influenza. Ci sono slavi entro i confini dell’Italia che sono buoni italiani quanto qualsiasi romano, e che non lascerebbero il dominio italiano se gli fosse offerta la via d’uscita. Gli slavi nelle città di Trieste, Fiume e le altre hanno deliberatamente scelto, in innumerevoli casi, di considerarsi italiani, anche mentre erano sotto il dominio austro-ungarico.

Gli Jugoslavi, composti da tre popoli diversi, serbi, croati e sloveni, devono ancora produrre una civiltà paragonabile a quella italiana.

Basta guardare la storia degli stati balcanici per rendersi conto che c'è una grande differenza nel punto di sviluppo tra i popoli slavi di quel turbolento calderone e gli italiani. Possiamo tutti simpatizzare di cuore con le aspirazioni del triplice gruppo che si propone di formare la nuova nazione slava meridionale. Ma la nostra simpatia non deve farci chiudere gli occhi sul fatto che non sono ancora una nazione, e nemmeno un popolo, e che la loro pretesa di essere considerati come uno dei popoli altamente sviluppati dell’Europa e del mondo, dal punto di vista della civiltà e della cultura, devono essere tenuti in sospeso finché non l’abbiano realizzato con risultati concreti. La civiltà italiana è un dato di fatto. La civiltà slava meridionale è ancora una speranza. Tutti noi, compresi, credo, gli italiani, siamo preoccupati e forse fiduciosi che la speranza si realizzi. Ma è il futuro che deve raccontare, non il passato e nemmeno il presente. La civiltà italiana è storica, è attuale, è viva. Il mondo sa cosa può fare la cultura italiana per il territorio di cui è in gioco il destino politico, perché lo ha già fatto. Nonostante gli anni di dominio asburgico, nonostante gli strenui sforzi dei signori austriaci per incoraggiare la slavizzazione delle terre della sponda orientale come ostacolo e compensazione all’influenza italiana, la civiltà italiana ha conquistato quelle terre e vi si impresse su di loro in modo indelebile.

C’è da meravigliarsi che la Giovane Italia si rifiuti di tollerare il passaggio della popolazione italiana di quella striscia di paese ad una nuova nazione la cui cultura deve ancora essere dimostrata? Le città adriatiche sono italiane, nell'atmosfera, nel sentimento, in tutto ciò che costituisce il meglio, la vera essenza della vita alta di una comunità. Le conquiste, del resto, della civiltà e della cultura italiana in quelle regioni furono pacifiche. Sono stati il risultato di un’influenza irresistibile, non dell’imposizione di un sistema con la forza o con l’astuzia. Perché non è l'Italia che ha governato quelle città, ma l'Austria; e ogni sforzo dei signori austriaci è stato volto a minimizzare tale influenza e a contrastarne gli effetti. Ma gli sforzi sono stati vani. La cultura italiana è stata troppo forte per essere superata; si è resa buono grazie al suo potere innato. Ha vinto la sua strada grazie alla sua stessa forza inesauribile.

Quali saranno allora le città italiane o quelle dell’entroterra slavo a prevalere? In quelle terre le città non possono essere separate dall'entroterra: grandi gruppi di persone di una razza o dell'altra devono essere sotto il governo di rappresentanti dell'altra razza. Come verrà presa la decisione? Con il rozzo arbitraggio della quantità o con la valutazione intelligente e illuminata di civiltà separate e distinte? Quale metodo produrrà meno ingiustizia, quale sarà più idoneo ad assicurare a quei territori, all’Europa e al mondo il rapido ed efficace sviluppo di quelle terre e della mescolanza di popoli che le abitano come patrimonio di civiltà e forza dinamica culturale?

Quale sarà, la quantità o la civiltà?

venerdì 1 marzo 2024

Dalmazia e Alsazia-Lorena: un sorprendente parallelo

(Tratto dalla rivista “Modern Italy”, Volume 1, Numero 1, 1919.)

Mentre la Conferenza di Pace si riunisce a Parigi con l'obiettivo principale di garantire una pace di giustizia per il bene dell'umanità, sottoponiamo alle persone giuste il seguente parallelo piuttosto sorprendente tra l'Alsazia-Lorena e la Dalmazia.

Le due questioni sono sostanzialmente simili, con un innegabile vantaggio da parte dell'Italia.

Dal punto di vista storico l'Alsazia-Lorena era francese da poco più di tre secoli quando si separò forzatamente dalla Francia nel 1871. La Dalmazia, anche senza considerare il periodo romano della sua storia, era veneziana da otto secoli quando passò all'Austria, consegnata da Napoleone nel 1797. I deputati dell'Alsazia-Lorena protestarono solennemente nel 1871 contro l'annessione di quella provincia all'Impero tedesco. Nel 1797 non c'erano né Parlamento né deputati dalmati; eppure gli italo-dalmati non hanno mai smesso di protestare energicamente in tutte le forme possibili, dai gesti privati alle dichiarazioni ufficiali dei deputati italo-dalmati davanti al Parlamento di Vienna.

Da un punto di vista etnologico la popolazione francese dell'Alsazia-Lorena rappresenta, secondo le statistiche più attendibili, il 2% del totale. Gli italiani in Dalmazia e negli arcipelaghi rappresentano il 12% del totale, secondo le statistiche austriache riconosciute in tutto il mondo come inattendibili perché modificate a svantaggio dell'Italia.

Dal punto di vista politico l'Alsazia-Lorena e la Dalmazia sono entrambi esempi tipici di territori staccati con la forza dagli Stati ai quali appartenevano legittimamente da secoli. Pertanto, come l'Alsazia-Lorena sarà definitivamente restituita alla Francia, la Dalmazia dovrà essere restituita all'Italia, legittima erede della Repubblica Veneta. Questo confronto, per quanto schematico, è del tutto eloquente, e non abbiamo bisogno di altro per essere sicuri che le persone giuste saranno d’accordo con le nostre conclusioni. Ciò che è salsa per l'oca è salsa per il papero.

Tutte le grandi autorità militari, fino allo stesso Napoleone, hanno ritenuto che per l’Italia l’unica frontiera forte sia quella linea che la Natura stessa ha tracciato lungo le cime dei monti, dividendo le acque che sfociano nel Mar Nero da quelle che sfociano nel bacino dell’Adriatico”. — Mazzini, nel 1866.

Per non dimenticare! Un messaggio dal governo italiano al popolo americano

(Scritto dal colonnello V. di Bernezzo, tratto da The Independent, volume 102, 22 maggio 1920)

Ora che il conflitto mondiale si è chiuso con la vittoria di quei popoli che hanno combattuto per il trionfo della libertà e della giustizia, spesso notiamo, nel turbinio di domande e discussioni che la guerra ha portato con sé, visioni e opinioni contrastanti con i fatti.

È doloroso per noi constatare che non sempre il grande contributo dell'Italia e dei suoi eserciti è stato giustamente apprezzato. Troviamo che a fattori politici vengono attribuiti risultati che furono il frutto di lunghi e duri anni di tenace impegno militare da parte dell'esercito italiano, e furono la diretta conseguenza di una grande vittoria conquistata in campo aperto.

Poco tempo fa un Bollettino degli Stati Uniti, in un articolo sulla questione adriatica, conteneva le seguenti affermazioni:

"... La verità è che il presidente crede che gli jugoslavi abbiano avuto un ruolo importante nella vittoria della guerra... Fu l'ascesa degli jugoslavi e di altri in Austria, e dei socialisti in Germania, che ha creato rivoluzioni interne agli Imperi Centrali che hanno davvero posto fine alla guerra... Lui (il Presidente) ritiene che il debito più grande di tutti sia dovuto a quelle piccole, nuove nazioni che hanno messo l'Austria, e più tardi la Germania, fuori gioco."

Non voglio discutere ciò che si dice riguardo all'influenza che i socialisti tedeschi possono aver esercitato negli sconvolgimenti interni del paese e sulla forza combattiva dell'esercito tedesco. Non discuterò nemmeno quale influenza abbiano potuto esercitare sulla monarchia austro-ungarica i sollevamenti dei popoli di varie nazionalità. Il punto che occorre sottolineare è che, per quanto riguarda l'influenza che questi sollevamenti poterono o meno avere avuto sull'esercito austro-ungarico combattente sul fronte italiano, nulla è più inesatto di quanto sopra affermato.

È accertato che, dall'inizio dell'ultima offensiva, il 24 ottobre 1918, e fino alla fine della grande battaglia che distrusse sia l'esercito austro-ungarico che il suo impero, tutti i prigionieri catturati, anche quelli di alto rango, non sapevano nulla degli sconvolgimenti interni che, in seguito alla nostra vigorosa offensiva, sconvolgevano i popoli e il governo della monarchia. Fino agli ultimi giorni della guerra l’Austria era riuscita a porre una barriera insormontabile tra l’esercito e l’interno. Si può quindi affermare nel modo più positivo che la dissoluzione interna non ebbe e non avrebbe potuto avere alcuna influenza sullo spirito combattivo dell'esercito austriaco. L'esame dei bollettini austriaci dal 24 ottobre in poi mostrerà la caparbietà e la ferocia della lotta. Anche nel bollettino del 29 ottobre il Comando Supremo Austro-Ungarico pone grande accento sulla forte e caparbia resistenza che le sue truppe hanno opposto ai nostri furiosi attacchi.

Per evitare la sconfitta, per salvare la nazione, per sostenere e spezzare il nostro irresistibile slancio, i capi e i soldati austro-ungarici hanno dato, fino all’ultimo minuto, le loro anime, le loro menti e i loro cuori, tutte le loro energie. Durante la battaglia le riserve furono generosamente impiegate per ritardare, per quanto possibile, la nostra avanzata. Ma il nemico venne sconfitto anche sul piano tattico. Prematuramente preoccupati della nostra avanzata verso Sacile e sull'Altopiano di Asiago, non poterono resistere agli attacchi nei settori principali: Vittorio Veneto, Val Sugana, Val Lagarine.

Senza dubbio la nostra superiorità morale, accresciutasi dopo la magnifica resistenza sul Piave nel mese di giugno, influì sulla coesione delle truppe nemiche. Ma la disperata difesa delle prime linee e la caparbia resistenza incontrata durante tutta la battaglia hanno dimostrato che il nemico è stato sconfitto solo dal generoso slancio e dal sacrificio dei nostri soldati, e che la rovina del suo esercito è stata determinata dall'irresistibile avanzata che ha distrutto tutti i suoi piani.

Un'altra opinione che bisogna confutare, perché assolutamente contraria alla verità, è che le nazionalità sottomesse dell'Austria, desiderose di liberarsi dal giogo degli Asburgo, o abbandonarono l'esercito austriaco, oppure rifiutarono di combattere. Ciò è vero per quanto riguarda i soldati di alcune nazionalità, come quelli appartenenti alle terre italiane irredenti, i cecoslovacchi, i rumeni e i polacchi. Con tutti i mezzi a loro disposizione cercarono di liberarsi dalla necessità di combattere per l'Austria. Verso la fine della guerra questi uomini, riunendo prigionieri e disertori, formarono gruppi speciali, come la divisione cecoslovacca, e combatterono valorosamente contro gli austriaci. Ma lo stesso non si può dire a favore degli appartenenti ad altre nazionalità che, dopo il crollo dell'Austria causato dalle armi italiane, hanno potuto ottenere la libertà e, o costituirsi in Stati indipendenti, o associarsi con gruppi etnici affini gruppi in nazioni.

È noto che le nazionalità che l'Austria si considerava fedele sono sempre state quella ungherese, quella tedesca, quella croato-slovena e quella boemo-tedesca. I soldati dell'esercito austriaco appartenenti a queste nazionalità furono sul fronte italiano e, fino agli ultimi giorni di guerra, combatterono con tutta la tenacia e la caparbietà di cui erano capaci. Da queste nazionalità l'Austria radunò le sue truppe d'assalto, che rappresentavano il fiore all'occhiello del suo esercito. Alcune di queste nazionalità, soprattutto quella croato-slovena, erano state utilizzate in passato anche dall'Austria per tenere sottomesse le province italiane occupate.

I ricordi delle popolazioni del Lombardo-Veneto danno un quadro vivido di come furono le guarnigioni croate nelle città italiane e del modo in cui adempirono il compito che l'Austria aveva loro affidato. L'Italia li ha sempre trovati in prima linea contro se stessa; sono stati anche campioni dell'Austria nell'aspra lotta per l'italianità che hanno dovuto sostenere le infelici popolazioni dell'Istria e della Dalmazia. In seguito a questa lotta le città della Dalmazia e dell'Istria riuscirono a conservare la propria nazionalità, mentre la popolazione italiana dell'interno, meno numerosa e più dispersa, non ci riuscì e scomparve.

Le truppe croato-slovene e serbe furono tra coloro che adempirono il loro dovere di devoti soldati della monarchia austro-ungarica e furono giustamente considerati i migliori soldati dell'esercito nemico. Questa non è una semplice affermazione: è un fatto documentato nei bollettini di guerra del Comando Supremo Austro-Ungarico.

Nei bollettini riferiti ai famosi giorni della battaglia di Vittorio Veneto appare in modo indiscutibile la gravità dello scontro, poiché vi ricorrono spesso espressioni come "lotte ostinate", "contrattacchi furiosi", "terra combattuta per un centimetro da pollice", gli attacchi italiani che "si infrangerono ovunque con gravi perdite", e l'"eroismo e la fedeltà senza eguali dei soldati" durante il combattimento. Inoltre, riguardo ai reggimenti che particolarmente si distinsero, leggiamo, Bollettino del 26 ottobre, "...Così nella regione dell'Asolone soprattutto il 27° reggimento croato Landsturm si distinse per la sua spontanea collaborazione ai combattimenti..."; e ancora, Bollettini del 29 ottobre, del 7° Reggimento Fanteria, sloveno; il 42° Battaglione Croato; e il reggimento croato, 28° Landwehr, sono particolarmente apprezzati.

Ho citato documenti che appartengono ormai alla storia, ma non perché abbia voluto svalutare il lavoro delle popolazioni con cui l'Italia vuole vivere in cordiale amicizia. Essendo un soldato, nessuno ammira più di me il nemico che compie il suo dovere fino all'ultimo. Ma credo che sia necessario distruggere tutte le leggende che tendono a formarsi in questo dopoguerra, e mettere tutti i fatti nella loro giusta e vera luce.

La maggior parte delle persone ora riconosce che la vittoria militare dell’Italia, con la conseguente distruzione dell’impero austro-ungarico, è stato uno dei fattori più potenti verso la costituzione in nazioni indipendenti di quelle nazionalità che hanno sempre combattuto contro di noi. Proprio di recente uno dei più importanti giornali di Washington, in un editoriale, ha confermato la mia affermazione: "Gli jugoslavi sono debitori all'Italia più che a qualsiasi altra potenza per la loro libertà".

mercoledì 28 febbraio 2024

Le aspirazioni nazionali dell'Italia

(Scritto da Guglielmo Ferrero, tratto da The Living Age, volume 301, 26 aprile 1919.)

Le aspirazioni nazionali dell'Italia sono davanti alla Conferenza di Pace. Divulgare queste aspirazioni, così come le vede l’intera nazione, e rivelare i principi chiari e semplici che ne sono alla base, non dovrebbe essere una questione priva di interesse.

Una nazione è un’unità morale che cerca di realizzare, per quanto possibile, la sua unità materiale: geografica, economica e politica. Se la teoria delle frontiere naturali si è spinta troppo oltre, è tuttavia vero che soltanto il possesso delle frontiere naturali può rendere perfetta, sicura e definitiva la formazione storica di una nazionalità. Quali guerre hanno desolato la terra semplicemente perché le grandi pianure non offrono, per dividere popoli e stati, che le linee ideali tracciate dalla forza degli uomini! Ora, se c'è un paese in Europa di cui la natura ha creato una perfetta unità geografica, quello è l'Italia. In tutte le epoche i geografi hanno visto nelle Alpi i confini naturali di quella penisola destinata ad essere il primo focolare di civiltà in Europa.

Si può facilmente comprendere, quindi, come l'Italia sia arrivata a includere tra le sue ambizioni belliche, l'obiettivo di riunire a sé le creste settentrionali ed orientali delle Alpi, vale a dire le frontiere che Augusto aveva assegnato all'Italia, ma che erano tenute nel 1914, dall'Impero austro-ungarico. Avanzando su quella linea, e annettendo il Trentino e l'Istria, l'Italia realizzerebbe, ad un tempo, la sua unità geografica e nazionale. Sarebbe, in Europa, il modello quasi perfetto della nazione che, qualora il desiderio di guerra la prendesse, dovrebbe affrontare le maggiori difficoltà nell'attaccare gli altri, possedendo, nel contempo, le migliori strutture di difesa nel caso fosse attaccata da altri.

È vero che l'unità nazionale non corrisponde sempre e dovunque all'unità geografica, soprattutto in Istria piccoli gruppi slavi sono radicati entro le frontiere che l'Italia considera suoi confini naturali. Le popolazioni di questa regione sono così mescolate che sarebbe impossibile tracciare una frontiera che rispetti tutte le razze e tutte le lingue senza mandare in frantumi in modo assurdo ogni unità politica e amministrativa. La questione da decidere è dunque questa: da quale delle due razze e lingue prenderà il carattere nazionale il potere che governa l'Istria? Si possono avere dubbi su questo punto? Gli slavi che popolano l'Istria si trovano più o meno nella stessa situazione di certi gruppi europei che abitano tante regioni e città dell'America; cioè questi slavi sono una minoranza immigrata che ha valicato poco a poco le Alpi e si è stabilita nelle campagne e nelle città come pastori, agricoltori e operai; sono venuti per colmare le lacune lasciate tra le fila dei nativi da guerre o epidemie. L'antica stirpe che per prima popolò questa regione, costruì le città e organizzò lo Stato era di ceppo italiano. Si può negare ad un primo abitante il diritto di conservare al suo paese il carattere nazionale che gli ha dato, e la sua unità geografica e morale?

Queste piccole minoranze slave, però, non sono gli unici gruppi alieni presenti entro i confini del Regno d'Italia. Nelle Alpi occidentali si trovano popolazioni francesi e nelle Alpi centrali gruppi tedeschi. L'uno e l'altro sono i relitti di vecchie immigrazioni o invasioni. Da più di cinquant'anni queste popolazioni vivono sotto la legge italiana e non si lamentano. Hanno le loro scuole e non sono mai state oggetto di una campagna di denazionalizzazione forzata. Ogni famiglia è lasciata libera di mantenere la propria lingua madre o di scegliere la lingua italiana, o anche di mescolarsi liberamente con entrambe le nazionalità come desidera. La fortuna dei piccoli gruppi slavi dell'Istria non sarà dissimile.

Un po' fuori dalla questione dei confini geografici della penisola, troviamo la questione di Fiume, che in questo momento appassiona al massimo grado l'opinione italiana. Questa questione si pose all'improvviso sull'Europa e l'armistizio fu appena firmato. Per comprendere questa vicenda bisogna avere ben chiara la situazione in cui Fiume si era trovata con la caduta dell'Impero austro-ungarico. Fiume è un'antica città italiana circondata da zone rurali slave, una città che ha conservato il suo carattere italiano nonostante la presenza di elementi ungheresi, croati e tedeschi, più o meno allo stesso modo di New York, nonostante i suoi milioni di abitanti. degli europei, conserva il suo carattere americano. Questa città, mentre era sotto il dominio degli Asburgo, era stata incorporata all'Ungheria, di cui divenne il porto sull'Adriatico. La città fu, quindi, sottoposta alla dominazione straniera. La sua situazione, tuttavia, aveva alcune compensazioni che la rendevano tollerabile. Fiume non era solo una città autonoma che godeva di certi privilegi; era anche il secondo porto di una delle grandi potenze d'Europa e faceva parte di un impero di alto rango culturale. Per una città italiana, fondata e abitata da un popolo in grado di rivendicare il diritto di primogenitura tra i popoli civili d'Europa, questo risarcimento aveva un'importanza capitale. Si può così immaginare che Fiume restasse parte dell'Impero austro-ungarico, mentre Trieste passava nelle mani dell'Italia; cioè se nel 1918 come nel 1859 e nel 1866, l'Impero Asburgico fosse riuscito a salvarsi cedendo parte del suo territorio. Ciò spiega perché il Trattato di Londra non si occupò del caso di Fiume.

Ma l'impero austro-ungarico è scomparso, e dalla sua scomparsa nasce la questione di Fiume. Se Fiume avesse potuto restare nell'Impero austro-ungarico, non avrebbe mai potuto essere incorporata, senza violenze ed ingiustizie, a quel nuovo Stato slavo che sta sorgendo sulle rovine dell'Austria. L'antica città italiana perderebbe il suo rango e i suoi privilegi di autogoverno; passerebbe da uno dei grandi imperi e delle alte culture d'Europa a uno Stato secondario, che senza dubbio farà una brillante campagna nel campo della cultura superiore, ma deve ancora conquistarsi l'ingresso in quel dominio; il paese, non potendo ricongiungersi con quelli della propria nazionalità, subirà nuovamente una dominazione straniera. Soltanto per Fiume la guerra mondiale, che porta a tanti popoli la libertà e la soddisfazione delle aspirazioni nazionali, apparirebbe come una calamità e un disastro. Ma Fiume non può accettare questo destino senza diventare un pericoloso focolaio di malcontento e una causa permanente di discordia tra gli stati vicini.

Resta inoltre la questione della sicurezza militare dell'Adriatico e delle città e dei centri di vita italiana che fioriscono sulla costa orientale, ultime vestigia della colonizzazione veneziana, Zara, Spalato, Sebenico, ecc. Eviterò qui di entrare in quelle vivaci discussioni che sono scoppiate in Italia intorno alla soluzione più saggia di queste due questioni. Mi accontenterò di dire che qualunque sarà la soluzione adottata, essa sarà accolta favorevolmente dal popolo italiano se gli darà soddisfazione riguardo ai due punti a lui più cari. L'Italia desidera che la costa orientale dell'Adriatico, così ricca di porti e di isole (famoso nido di pirati fin dall'epoca classica), non possa minacciare la costa occidentale, quasi indifesa. Desidera anche che i gruppi italiani della costa orientale possano vivere in pace e svolgere liberamente la loro vita nazionale. L’Italia non può tollerare a lungo che queste città e gruppi siano oggetto di persecuzione o di una campagna di denazionalizzazione violenta, anche se questi attacchi sono mascherati.

Queste sono le pietre miliari delle aspirazioni nazionali dell'Italia. Per essere riconosciuto, il popolo italiano guarda soprattutto all'alto spirito di giustizia del presidente Wilson e alla calorosa amicizia della Francia.

Con la sua imparzialità disinteressata, il presidente Wilson ha saputo dominare, nel ruolo di giudice e arbitro, questa terribile tragedia dell’Europa. Ci auguriamo, pertanto, che egli riconosca che in tutte le questioni l'Italia guarda meno alla questione dell'annessione territoriale quanto a quella di sostenere e portare a conclusione trionfante alcuni principi cari. Rispetto ai terribili sacrifici che abbiamo fatto, 500.000 morti, 80.000.000.000 spesi, la nostra esistenza disordinata per mezzo secolo, il territorio che l'Italia rivendica non è che piccolo. Fiume, la cui sorte è oggetto della viva ansia dell'intera nazione, non è che una graziosa cittadina di 45.000 abitanti. Non è possibile alcun paragone tra le conquiste territoriali che otterrà l’Italia e quelle che otterrà la Serbia. Ma questi territori, per quanto piccoli in estensione, sono per noi simboli di alcuni principi vitali per il mondo intero: la completa emancipazione delle popolazioni italiane da ogni dominio straniero, il raggiungimento dell'unità morale e geografica della nazione, la sicurezza delle frontiere e dei mari, la possibilità di partecipare al sistema politico che assicurerà all’Europa la pace e la libertà di tutti i popoli, grandi e piccoli. Abbiamo sopportato volentieri tutti i sacrifici necessari per portare alla vittoria in guerra proprio questi principi; speriamo di gioire del loro trionfo nella misura in cui la giustizia e la sicurezza della civiltà occidentale lo richiedono.

Per quanto riguarda la Francia, speriamo che sosterrà le nostre giuste rivendicazioni, per una ragione basata su principi di portata più generale dei nostri interessi particolari. Il mondo slavo è entrato, presto entrerà il mondo teutonico, nell’era della rivoluzione. È facile prevedere che la lotta sarà lunga, seria, complicata e che le sue conseguenze saranno infinite. Bisogna dunque opporre alle convulsioni e alla follia che sconvolgeranno i popoli slavi e germanici la fermezza politica e morale degli Stati, nei quali prevarranno ancora la ragione e la giustizia. Nell’Europa continentale solo la Francia e l’Italia possono compiere questa missione, dalla quale dipende, forse, la salvezza dell’Europa. Si ribalta così la situazione di un secolo fa. Ma per raggiungere questo scopo Italia e Francia devono essere unite, e per essere unite devono fare la pace come hanno fatto la guerra, in pieno accordo quanto alle loro aspirazioni e ai loro principi.

Bufala: la falsa frase pronunciata da Mussolini a Pola

"Io credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 Slavi Barbari a 50.000 Italiani!"

Si sostiene che questa frase fu pronunciata da Mussolini il 21 settembre 1920 in un discorso a Pola (Istria). Infatti, Mussolini pronunciò un discorso a Pola il 21 settembre 1920. L'intero testo del discorso fu pubblicato nel 1920 quando fu pronunciato, ma quella frase non fu mai pronunciata da Mussolini. L'intero discorso è contenuto in uno dei volumi dell'Opera Omnia di Mussolini. Il discorso è citato anche da Giorgio Chiurco nel suo libro Storia della Rivoluzione Fascista, Vol. 2 (1929). E quella falsa frase non c'è.








Tuttavia, la fonte originale (dove è stato pubblicato il testo completo del discorso) è dato: «Il Popolo d'Italia, N. 230, 25 Settembre 1920».

Il discorso è vero, ma la frase è falsa. La fonte più antica che possiamo trovare (sia in italiano che in serbo-croato) proviene da un libro del 1998 di Darko Dukovski (macedone nato a Pola) intitolato "Fašizam u Istri: 1918-1943" che cita queste due frasi (in italiano e croato): 

"Io credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 Slavi Barbari a 50.000 Italiani!" "Vjerujem da lakše Mogu žrtvovati 500.000 barbarskih Slavena od 50.000 Talijana." 

Se Mussolini lo ha detto davvero in un discorso, allora perché non c'è un testo italiano degli anni '20, '30, '40? Perché la citazione non si trova nelle sue opere ufficiali? 
La citazione sembra apparire per la prima volta in italiano nel libro di Darko Dukovski del 1998.

Sembra che chi ha pensato a questo deve aver pensato alla politica dei tedeschi, vale a dire: 10 uccisi per ogni 1 tedesco ucciso. I tedeschi utilizzarono questa politica in Italia (e probabilmente altrove). Giustiziarono 10 partigiani italiani per ogni tedesco morto.

Ecco cosa ha detto veramente: "Ma per realizzare il Sogno Mediterraneo bisogna che l'Adriatico, che è un nostro Golfo, sia in mani nostre. Di Fronte a una Razza come la Slava, Inferiore e barbara, non si deve seguire la Politica che dà lo zuccherino, ma quella del Bastone."

Discorso di Pola, 21 settembre 1920
di Benito Mussolini

Cittadini di Pola! Combattenti!

Sta dinanzi a voi uno degli uomini politici italiani più combattuti e più odiati negli ultimi venti anni di vita politica. Questi hanno inasprito talmente la mia eloquenza, se mai si può parlare di eloquenza, per cui io non so fare delle sviolinate.

Per me un discorso è un'azione, è un combattimento. Punto direttamente nell'obiettivo. Perciò dovrete credermi se vi dico che sono profondamente commosso.

Noi cittadini della vecchia Italia siamo un po' adusati: abbiamo bisogno di venire fra voi per rituffarci in questi magnifici bagni di idealità.

Ho visto delinearsi la grandezza dell'Arena romana, nella quale la civiltà nostra millenaria incise i suoi segni eterni. Questi segni ci dicono che l'italianità di questa città non può perire. Vorrei condurre qui quegli scettici che vogliono vedere la concretizzazione della nostra vittoria.

Per me il valore della vittoria è in questi segni; è negli imponderabili del futuro; consiste nel fatto che il popolo ha realizzato dopo quindici anni di schiavitù, con le proprie forze, con le proprie energie, la sua vittoria.

Lo sforzo dell'Italia in guerra è stato infinitamente superiore a quello delle altre nazioni, alle quali la fortuna aveva dato imperi coloniali da sfruttare, mentre noi abbiamo costruito la vittoria dalla nostra carne viva e dal sangue vermiglio dei nostri morti.

E questo segno della nostra vittoria è più visibile a Pola, dove gli Absburgo avevano fatto il loro covo per la flotta, che non osò mai uscire in campo aperto, che bisognò rintracciare. Da qui gli Absburgo sognavano la conquista dell'Adriatico.

Ora quest'impero è finito, è crollato come uno scenario sdrucito.

Io so che nel futuro, quando tutti gli italiani avranno conquistato la coscienza della loro vittoria, si sentiranno orgogliosi e ripeteranno come i legionari di Napoleone, venti anni dopo la fine dell'epopea napoleonica: « Io sono stato in trincea; io sono stato a Vittorio Veneto ».

Io penso, o amici di Pola, che l'unità della stirpe italiana si è realizzata. In questo è il valore spirituale della vittoria.

Io penso che l'Adriatico è nostro.

Certo se noi avessimo avuto altri uomini politici, più visibile sarebbe questo valore, che oggi è nascosto.

Gli ultimi uomini politici assomigliavano a una scala discendente: da Boselli, troppo vecchio, siamo scesi a Orlando, che piangeva sempre, per discendere infine a Nitti. Questi era l'uomo dalla mentalità economista. Non dico che l'economia per uno Stato grande sia una cosa trascurabile. Dico che tutta la vita di un popolo non può esser vista entro un prisma che schiaccia ogni spiritualità. Nitti era ossessionato da problemi più materiali. Non vedeva la parte superbamente ideale della vita nazionale. Ci darà Giolitti la pace adriatica che noi vogliamo? Non oso affermarlo; non oso dirlo, perché troppa politica rinunciataria si è fatta.

Tante pagine di eroismo per mare, per cielo e sulla terra non le ha scritte nessun popolo del mondo come quello italiano in questa guerra! Vorrei leggervi il testamento dei nostri eroi; quello di Decio Raggi e del nostro Nazario Sauro; vorrei leggervi l'epistolario di quei giovani imberbi, che andavano ad una battaglia come ad una festa di nozze, per mostrarvi come si è battuto il popolo italiano. E si è battuta meravigliosamente la plebe agricola, quella che solo imperfettamente comprendeva i motivi ideali della grande lotta. Ricordo sul Carso il discorso di un fante durante una battaglia. Egli mi diceva: « La guerra la fa la scarpa grossa ». E noi abbiamo vinto per noi e per gli altri. Quale nazione ha saputo fare lo sforzo che abbiamo fatto noi nel giugno? Nessuna.

I nostri giovani andavano all'assalto scherzando, accendevano le bombe come s'accendono le sigarette. Basta ricordare lo Stelvio e l'Ortigara, il Carso e il Grappa. Romanamente ha espresso la nostra vittoria il generalissimo Diaz nel bollettino del 3 novembre. Il valore della vittoria è, come dissi, negli imponderabili del futuro.

Noi siamo in crisi. Ma in crisi sono tutti gli Stati d'Europa. Chi non ha subito spostamenti, dissesti, dopo questa guerra? Forse è peggiore la crisi del dopoguerra in Francia e in Inghilterra, molto peggiore ancora in Germania e negli Stati sorti dall'ex impero austro-ungarico che quella dell' Italia. Non parliamo della crisi russa. Non bisogna essere pessimisti. Noi in questi giorni abbiamo dimostrato come noi stiamo superando felicemente la nostra crisi.

Pareva che dovesse scoppiare la guerra civile; mentre noi abbiamo raggiunto una trasformazione profondamente rivoluzionaria nel rapporto della produzione. Io sono pronto a riconoscere alla classe lavoratrice il diritto di controllo nella fabbrica: quando esso sarà in grado di portare maggior benessere alla Nazione.

Se la classe dirigente è moribonda, è necessario che, secondo la convinzione di Vilfredo Pareto, sorgano delle nuove èlites sociali a sostituirla. Ma oggi nego questa superiorita alla classe lavoratrice. La nego specialmente per il fatto che è dominata da una demagogia che ha soltanto mutato colore. Ai preti si sono sostituiti i preti.

Pazienza se questi demagoghi si limitassero a fare una politica economica; ma essi trattano anche di politica estera mettendosi sempre contro gli interessi italiani e dalla parte dei nostri nemici nazionali! Cosi voi vedete che il bolscevismo è più acceso a Trieste e a Pola che a Milano; solo per danneggiare l'Italia, per creare dei pericoli ai confini.

Io faccio assegnamento nei Fasci di Combattimento. Essi sono nati in un'ora di passione della vita politica italiana. Quando cioè tutti cercavano di dimenticare Vittorio Veneto, tutti si vergognavano quasi d'aver vinto.

Io mi domando: dove trovo la fiammella ideale, la fede per questa vittoria morale?

Una nazione che ha avuto cinquecentomila morti, che ha gioventù come quella che ha combattuto, ha energie tali da meravigliare rutto il mondo.

Ma altri sintomi non meno positivi irrobustiscono questa mia fede. Fra questi il più grande è impresa di Gabriele D'Annunzio! È l'unico grande gesto di rivolta contro l'oligarchia plutocratica di Versaglia; contro i tiranni che hanno nome di Lloyd George, Clemenceau e Wilson! E l'unica volontà in Europa che, diritta e tesa come una lama di una grande spada latina, non si è piegata sotto la violenza di Versaglia!

Noi allora volevamo fare la rivoluzione italianissima!

Qual'è la storia dei Fasci? Essa è brillante. Abbiamo incendiato l'Avanti! di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali. Abbiamo incendiato la casa croata a Trieste, l'abbiamo incendiata a Pola.

Abbiamo dimostrato che non impunemente si può tentare di distruggere l'Italia; e che bisogna passare attraverso i nostri corpi!

I nostri avversali ci calunniano: ci dicono borghesi. Noi ce ne infischiamo. Sono etichette su bottiglie vuote. Noi diamo ragione a chi ha ragione, torto a chi ha torto.

Noi siamo reazionari, siamo reagenti di una pazzia: abbiamo frenato la massa popolare sull'orlo dell'abisso. Se in Italia si fosse ripetuto l'esperimento ungherese, sarebbe caduto il popolo italiano in un baratro.

La reazione sarebbe stata senz'altro vittoriosa. Pensiamo quasi che era meglio lasciar compiere il destino per liberare la nazione da quest'incubo.

Oggi però il Partito Socialista non fa più il prepotente: deve ricorrere ai sobborghi se vuole stare sicuro a Milano.

Noi non possiamo prestar fede alle minchionerie idealistiche, che per esser troppo universali, sono troppo positive.

Oltre alla cerchia dei nostri monti, o istriani, c'è un popolo aggressivo, che vuole raggiungere l'Adriatico.

Questo mare potrà essere commercialmente un mare italo-serbo, ma militarmente non lo sarà mai!

L'Italia, come il più compatto nucleo dopo la Russia e la Germania, perché ha cinquanta milioni, sarà la potenza destinata a dirigere dal Mediterraneo tutta la politica europea. Da Londra, Parigi e Berlino, l'asse si sposterà verso Roma. Italia dovrà essere il ponte fra l'Occidente e l'Oriente.

Verso l'espansione nel Mediterraneo e nell'Oriente l'Italia è spinta dal fattore demografico. È troppo ristretto il nostro territorio per un popolo così esuberante.

Ma per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l'Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre. Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone.

Il popolo italiano ha tre qualità che gli garantiscono il successo: è prolifico, è laborioso, è intelligente.

Nel futuro prossimo ogni italiano ripeterà come il cittadino romano: sono orgoglioso di essere italiano!

Noi non temiamo più le rinunce. Se il conte Sforza oserà qualche rinuncia, i legionari di Gabriele d'Annunzio occuperanno tutti quei territori a cui il ministro avrà rinunciato!

I confini d'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche; sì le Dinariche per la Dalmazia dimenticata!

Oggi l'opera dei fascisti si riduce a quella di sprangare la porta di casa e rastrellare nell'interno. Chi è dentro le nostre terre di frodo o con frode deve andarsene.

Il nostro imperialismo, che vuole raggiungere i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e che vuole espandersi nel Mediterraneo, non è quello prussiano violento, né quello inglese ipocrita; è invece quello romano.

Noi non possiamo disarmare, finché gli altri non avranno disarmato; noi non possiamo trasformare nostre spade in aratri, finché la stessa cosa non avranno fatto gli altri Stati e la Jugoslavia vicina!

Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche.

Ma a tenere salda l'Italia nelle future sue battaglie, occorre la vostra fede, o cittadini, occorre il vostro giuramento!