venerdì 11 ottobre 2024

L'Italia esposta agli Italiani

L'Italia esposta agli Italiani
rivista dell'Italia politica e dell'Italia geografica nel 1871. Di Libero Liberi · 1873

Fino dalla remota antichità, Polibio, Tolomeo, Dionisio Afro, Plinio, Erodiano ed altri, dichiararono essere italiana quella zona che stendesi dalle Alpi Giulie al golfo veneto. Il Cluverio, nella Italia antiqua, al capitolo De finibus universae Italiae, afferma l'italianità di questa sua regione orientale, citando in proposito Livio, Virgilio, Dionigi di Alicarnasso, Mela e altri che sarebbe soverchio l'enumerara. Trieste (Tergeste) e l'Istria ancora sotto la repubblica romana si riconoscevano parti integranti dell'Italia, e tali furono considerate in tutti i successivi scomparti territoriali fatti da Augusto, Adriano e Costantino, e in tutte le posteriori divisioni dell'Impero d'occidente, il che viene luminosamente dimostrato dal Carli nella sua opera Antichità italiche (P. I, lib. II, § 1; P. III, lib. I, §§ 2, 7, 10 e 11). Quindi sotto il regno degli Ostrogoti e dei Longobardi, l'Istria e Trieste continuavano a far parte d'Italia, come è attestato da lettere di Cassidoro (Porta orientale, pubblicazione triestina, vol. 1), e da Paolo Diacono, che scrisse della Venezia e dell'Istria: utraeque pro una provincia habentur (Rerum italic. script., tomo I, De Fast. Longobardorum, c. XIV). 

Parimenti nei successivi tempi degli imperi franco e romano germanico, mentre Trieste era libero municipio, indipendente da ogni Stato straniero, le restanti località del versante italiano delle Giulie appartenevano al regno italico, che col germanico formava il sacro impero (vedi la stessa opera dell'egregio Bonfiglio al capo I e II del libro II e capo II del libro IV). Dante proclamò nella sua Divina Commedia che il nostro paese si'estende sino al Quarnaro, 
Che Italia chiude e i suoi termini bagna.

Il geografo Flavio Biondo di Forli, che viveva nel secolo decimoquinto, disse che il confine nazionale è sul Quarnaro, e nella Undecima regio Histria scrisse: Albona et Terranova, oppida Histriae atque Italiae, ultima sunt censenda. Il veneziano Coppo, nell'opera Del sito dell'Istria, riconobbe ancor esso poco oltre Albona sul Quarnaro il confine italiano; e trattando di questo, così si espresse: Due gran montagne aderenti alle Alpi separano l'Italia dalla barbara nazione, una chiamata monte Caldiero, l'altra, sopra il Carner (Quarnaro), chiamata monte Maggiore. Lo stesso confine diede all'Italia nel cinquecento Goineus, nel cap. IV, De civitatibus recentioribus della sua opera De situ Histriae; e Giusto Fontanini, in uno scritto relativo a questa, il quale appella l'Istria postrema Italiae regio. 

L'illustre Giambullari lasciavaci scritto "esser l'Istria ultima provincia d'Italia, dalla banda dove il sol nasce." Pirro Mincio da Mantova, nel lib. II, pag. 31 delle sue Cronache di Trento, dove tratta dei confini d'Italia, ci dà con diverse parole l'idea medesima. Non altrimenti nel secolo decimosesto il bolognese Leandro Alberti, nella sua geografia tanto riputata ai suoi tempi, dichiara l'Istria decimanona regione italiana, ed anch'egli scrisse: Due gran montagne dividono l'Italia dai barbari, l'una addimandata monte Caldiero, l'altra Monte Maggiore nominata. Anco Lodovico Vergerio estende l'Istria e l'Italia ai nominati monti oltre Albona. Cluverio da Danzica, nella sua carta geografica dell'Italia, che è annessa alla sua Geografia universale, assegnava nel secolo decimosettimo all'italia, oltre alla contea di Gorizia e il territorio di Trieste, l'Istria e la Carsia fino alla principale catena delle Giulie. E nella sua carta geografica della Germania unita alla stessa opera, egli, escludendo da questa regione la contrada fra il golfo veneto e le Alpi Giulie, questa denomina parte d'Italia; e nel cap. XXXV del lib. III dell'opera medesima qualifica italiane le città e luoghi più importanti del bacino dell'Isonzo e dell'Istria. Hortel, altro tedesco, nella sua grande opera, Teatro dell'Universo, pone il confine italiano aderentę ai suddetti monti, nominando fra le terre italiane Albona presso ad essi. Parimenti Luca da Linda, tedesco anch'esso, nella sua opera, Relazioni e descrizioni universali e particolari del mondo, pubblicata nel secolo XVII, dice dell'Istria: Questa provincia appartiene all'Italia; e fra i nomi delle terre nostre dà quelli di Albona e di Fianona. Quindi nel capitolo di quella sua opera, il quale riguarda il governo dell'Istria, estende l'Italia anche a quella parte dell'Istria che era soggetta all'Austria. Giovanni Antonio Magini, nella sua Italia descritta, stampata a Bologna nel 1620, comprese l'Istria come decimosettima regione italiana. E nella Descrittione delle Alpi che dividono l'Italia dalla Francia e dalla Germania, pubblicata a Milano nello stesso anno da G. G. Conturbio, l'Istria è parte d'Italia. 

L'illustre Muratori, esteso e profondo conoscitore delle cose italiche, riunì gli scritti storici intorno a Trieste e all'Istria nel volume VI della sua collezione Rerum italicarum scriptores. In quella celebre raccolta delle opere storiche relative all'Italia, che fu fatta a cura di molti dotti stranieri col titolo Thesaurum antiquitatum et historiarum Italiae, pubblicata nel 1722 coi tipi della città e università di Leiden, nella parte IV del tomo VI figurano, colle storie italiane, storie fatte da Istriani e storie d'lstria. Nello scorso secolo anche il valente pubblicista Carli, nel N. XI dei Preliminari delle sue Antichità italiche, e nella parte III, lib. IV, § 2, della medesima, come altrove, ripetutamente professò convinzione dell'italianità dell'Istria. 

L'Ughelli, nella sua reputatissima Italia sacra (vol. IV, prov. X, col. 5 C.), dopo aver descritta l'Istria, che ei pure comprende in Italia, ne pone il confine a quelle Alpi quae Italiam a Carniola et Pannonia disterminant. Questa provincia era anche nel secolo decimottavo considerata parte d'Italia, come ne fanno fede la Nuova carta dell'Italia settentrionale e delle Alpi che la circoscrivono, formata d'ordine di S. M. Siciliana, dal Rizzi-Zanoni nel 1799; il Supplemento alla storia generale dei viaggi di H. De la Harpe, pubblicata a Venezia nel 1786; nonchè altre opere di quel tempo. Ma gli stessi imperatori austriaci, Giuseppe II e Leopoldo II, mentre coi decreti aulici, 26 marzo 1786, gennaio e aprile 1790, intendevano a diffondere la lingua tedesca in Trieste e nelle contee di Gorizia e d'Istria, riconoscevano essere questi paesi italiani, denominandoli paesi italiani di confine, Stati italiani. Così anco il governo austriaco co'suoi atti uffiziali chiaramente c'insegnò essere il nostro confine oltre Gorizia e Trieste. Il fatto geografico che l'Italia si estende come fino alle Alpi Carniche, così anco fino alle Giulie, e come nell'una, così all'altra riva del golfo veneto, si trova dunque riconosciuto da nazionali e stranieri dei nostri tempi risalendo a quei più remoti, nei quali la scienza geografica era ancora bambina. Del che se ne hanno poi a migliaia le prove nei tremila e più scritti intorno a Trieste, all'Istria e a Gorizia, dei quali fa cenno la ricordata Bibliografia dell'Istria, pubblicata in Capodistria nel 1864 da una patria società, fatica dell'egregio dott. Carlo Combi, ora professore all'istituto superiore di commercio in Venezia (Vedi l'opera del Bonfiglio suddetta, da pag. 534 a 541).

FIUME: la narrativa Ramousiana

Utopiche promesse: II Movimento Popolare di Liberazione

Osvaldo Ramous nel suo romanzo offre delucidazioni dei diversi equivoci venutisi a creare nell'immediato secondo dopoguerra, circa i diritti della popolazione italiana di Fiume, diventata in breve tempo una minoranza e il promesso, ma mancato, rispetto della lingua e cultura italiane. Nella lettera a Eraldo Miscia, Ramous spiega le ragioni e i motivi che lo indussero alla stesura del romanzo:

«Il cavallo di cartapesta (titolo più che ironico, amaro) non è nemmeno nelle intenzioni, un vero romanzo. lo l'ho scritto con lo scopo di rivelare lati sconosciuti della situazione storica che ha determinato l'attuale stato della mia città. Ho voluto rendere noti certi equivoci che sono ignorati da chi non li conosce per propria esperienza, e che furono determinanti per la sorte attuale di questa zona, sebbene la mia posizione non sia la più agevole per esprimere certe cose.»

Ovviamente, il governo comunista jugoslavo, una volta giunto al potere, venne meno alle utopiche promesse garantite, specie quelle riguardanti il futuro destino della città di San Vito. (I comunisti, pur di far aderire un maggior numero di fiumani alla causa della lotta popolare di liberazione, garantivano il mantenimento di un'ampia autonomia della città a guerra conclusa: 

«Noi non siamo degli imperialisti e non intendiamo prendere terre che non ci appartengono. Combattiamo per la libertà dei popoli e rispettiamo quindi la loro volontà. Sarà la popolazione dell'Istria e delle altre terre di confine a decidere del proprio destino. Nessuna prepotenza e nessuna pressione: tutto sarà fatto nel segno della liberta. (...) L'autonomia amministrativa cittadina di Fiume non può disturbare la nuova Jugoslavia, fondata sopra basi democratiche, e neppure un'autonomia ancora più larga di quella che aveva Fiume sotto l'Ungheria. In essa la lingua italiana potrà conservare quel posto che le vuole dare la maggioranza dei cittadini fiumani: Osvaldo Ramous, Il cavallo di cartapesta, cit., p. 177)»

Infatti, dopo l'armistizio italiano, firmato il 3 settembre 1943 a Cassibile ed entrato in vigore con il proclama del maresciallo Pietro Badoglio l'8 settembre, veniva proclamata dal Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale croato l'annessione di Zara, Fiume e dell'Istria alla futura Jugoslavia. Occorre precisare che tra i dieci e i quindici mila soldati italiani rimasti sul fronte balcanico si unirono al Movimento Popolare di Liberazione (MPL) jugoslavo mentre solo una parte di loro si schierarono a fianco dell'esercito nazista. Nonostante ciò, la componente italiana della Resistenza, poiché nata due anni dopo quella croata e slovena, non fu affatto coinvolta nelle trattative sui nuovi confini da stabilirsi a guerra finita. Infatti, stando a quanto rilevato da Stelli, "i Partiti comunisti croato e sloveno all'interno del MPL imposero rapidamente la loro egemonia con una politica di epurazione degli elementi italiani «sgraditi».

Non sorprende quindi il fatto che, già all'indomani dell'armistizio, si verificarono i primi casi di rivolte e insurrezioni popolari contro gli "elementi" fascisti, le quali assunsero piuttosto la forma di veri e propri eccidi, giudicando dalla loro sistematicità e brutalità dei metodi usati. Secondo la storiografia jugoslava, la causa principale di queste ribellioni brutali era l'oppressione della dittatura fascista esercitata nei confronti delle popolazioni croata e slovena nei territori annessi all'Italia, pertanto considerata una reazione spontanea e "naturale", quasi giustificata. Oggi, a più di mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale, quando l'argomento delle foibe non rappresenta più un tema-tabù, si è propensi a considerare le rivolte popolari del 1943, stando alle ricerche più recenti, una manifestazione del nazionalismo jugoslavo e preannuncio della furia epuratrice messa in atto, a guerra finita, dai comunisti titini. 

(Ramous affronta l'argomento delle foibe e le sue presunte cause. Risulta significativo il dialogo tra i partigiani, Furio, Miljenko e Boris, dal quale traspare il rifiuto dello scrittore fiumano di considerare l'infoibamento degli italiani dell'Istria e di Fiume una conseguenza dell'oppressione fascista quanto piuttosto un atto barbarico attentamente pianificato dai comunisti titini... Bisogna abituarsi a tutto, se si vuol vincere. Una fucilazione è un atto di giustizia. (...) "Oggi, purtroppo, si combatte più con le fucilazioni che con le battaglie. Ce lo insegnano i tedeschi" disse Miljenko (...) "Ma quello che i tedeschi non sanno è che far fucilare agli altri è molto più utile che fucilare" riprese Boris. "È una specie di strategia che a noi riuscì magnificamente con gli italiani" (...) "Fu una cosa necessaria" continuò Boris.  «Gli italiani, come tu stesso sai, non sono per natura dei guerrieri. In Jugoslavia, appena entrati, si comportavano come in casa loro. Trattavano la gente, soprattutto nelle campagne, come dei compaesani. Il guaio era che la popolazione ci stava. (...) Il fatto è che c'era sotto un equivoco, e che l'equivoco doveva essere, con qualsiasi mezzo, eliminato. Non si poteva mica permettere che la popolazione andasse a bracetto con gli occupatori! Ti pare? Se i soldati italiani non erano cattivi, bisognava costringere alla cattiveria i loro comandanti. Per arrivarci, si doveva mettere delle bombe sotto le caserme, far cadere i soldati in imboscate, fa saltare dei treni e rendere di tutto responsabile la popolazione" "Un sistema infallibile." commentoò Furio

«Difatti. Picchia e ripicchia, i comandi italiani furono costretti a ricorrere alle rappresaglie. Così lo stato d'animo della popolazione fu portato al punto giusto. "La guerra senza l'odio non la si fa. O almeno non la si vince." "Ora però la situazione è chiara" disse Miljenko. L'esercito italiano non c'è più. Molti italiani sono passati, e continuano a passare, nelle nostre file." "Quelli passati ai tedeschi. Con loro non c'è che una cosa da fare" concluse Boris. "Se ci capitano tra le mani, metterli al muro o buttarli nelle foibe." (Osvaldo Ramous. Il cavallo di cartapesta, cit., pp. 186-187.)»


La secolare autonomia fiumana

Le testimonianze sulla particolare autonomia di Fiume risalgono al XVI secolo, quando questa venne sancita giuridicamente dallo Statuto Fernandineo del 1530.

Tuttavia, la "questione fiumana" si complicò nella seconda metà del XVIII secolo. Con un Diploma del 14 febbraio 1776 Maria Teresa, erede al trono in quanto figlia dell'imperatore Carlo VI, cedette Fiume alla Croazia. Questa sua decisione venne accolta sfavorevolmente dalla Municipalità fiumana e quindi l'imperatrice, per aderire ai desideri dei fiumani e degli ungheresi, dovette modificare il diploma precedente e con un rescritto del 23 aprile 1779 enunciò l'annessione della città alla Corona di Santo Stefano. Con il Diploma del 1779 furono ricompensati gli interessi dei fiumani, venne confermato lo status della città quale "corpus separatum" incorporato direttamente all'Ungheria. Venne inoltre stabilita un'amministrazione cittadina libera e privilegiata, esclusa da ogni pretesa esterna. Nonostante i fiumani rivendicassero fermamente l'autonomia della propria città all'interno dell'Impero, il diploma teresiano diede origine a una lunga controversia storico-giuridica tra il non indipendente regno di Croazia e l'Ungheria e rappresentò, in realtà, "il nocciolo di tutti i problemi politici della città del periodo più recente." Infatti, i primi sostenevano che in base ai provvedimenti del Diploma, veniva concessa un'amministrazione privilegiata della città senza però alterarne la dipendenza politica mentre l'Ungheria affermava che Fiume facesse parte integrante della Corona di Santo Stefano in veste di "corpus separatum" e, come tale, ne era politicamente dipendente. Fiume rimase "corpo separato" dell'Ungheria, con brevi intervalli, fino alla metà del XIX secolo. Con i moti rivoluzionari del 1848 che cambiarono notevolmente il clima politico, la città di Fiume passa sotto il dominio croato.


Il "periodo croato"

Destinato a durare non più di due decenni, precisamente dal 1848 al 1868, il "periodo croato" ebbe inizio con l'occupazione della città da parte delle truppe del capitano Josip Bunjevaz in nome del bano Josip Jelačić. Quest'ultimo, rimasto fedele alla Corona d'Austria dopo la rivoluzione ungherese, mirava a creare un vasto "Stato Illirico" unendo la Croazia, la Dalmazia e la Slavonia. Questo stato comprendeva pure la zona del litorale liburnico compresa la città di Fiume quale capoluogo, considerata in effetti parte integrante della Croazia all'interno dell'Impero. (Ad ostacolare i piani del bano croato furono i fiumani che per custodire la tradizionale autonomia fondarono, nel 1848, la Commissione storica in base a un decreto della Municipalità fiumana con il compito di raccogliere la documentazione storica sull'autonomia di Fiume, dando cosi l'avvio alle prime sistematiche ricerche storiografiche circa le radici culturali della città sull'Eneo. Cfr. Giovanni Stelli, La storiografia fiumana e la tradizione dell'autonomia cittadina, in Fiume crocevia di popoli e culture, cit., pp. 109-110)

Opponendosi tenacemente all'annessione e temendo che quest'ultima avrebbe compromesso la privilegiata posizione di Fiume con gravi ripercussioni economiche e culturali, il Consiglio comunale inviò diverse proteste e petizioni all'imperatore affermando che "Fiume, sebbene dall'anno 1848, interinalmente unita alla Croazia, non si considerò mai parte integrante di questo regno al quale non appartenne mai, poiché prima della sua incorporazione all'Ungheria non aveva mai avuto con la Croazia relazione alcuna e formava un corpo autonomo". 

Per conciliare le due parti contrastate, quella croata e ungherese, e per adempire ai desideri del Consiglio comunale di Fiume, l'imperatore fu costretto a trovare una soluzione. L'accordo venne raggiunto e codificato il 27 novembre 1868 con la nomina di una commissione mista ungaro-croato-fiumana mentre la città, secondo le esplicite richieste della Municipalità cittadina, venne riunita al Regno d'Ungheria. È doveroso precisare che l'accordo, considerato sin dall'inizio provvisorio, venne firmato solo dopo che la corte viennese falsificò il testo del controverso paragrafo 66, denominato dagli storici lo Straccetto fiumano, e lo incollò sopra quello originale. (Il paragrafo 66 dell'Accordo ungaro-croato nella versione originale ammetteva nei regni di Dalmazia, Croazia e Slavonia tutta la contea di Fiume, "inclusa fa città di Buccari e il suo distretto [...] ad eccezione della città di Fiume e del suo distretto, riguardo alla quale i comitati dei regni di entrambi gli Stati non sono riusciti a raggiungere un accordo." Lo Stracetto fiumano invece dichiarava che la città di Fiume e il suo distretto "formano un Corpo separato unito alla corona ungarica (Separatum sacrae regni coronae adnexum corpus) [...] avente come tale un'autonomia particolare e un ordinamento giudiziario e amministrativo" e che i parlamenti di Dalmazia, Croazia, Slavonia e di Fiume avrebbero discusso e risolto in futuro. Cfr. Maja Polić, Riječka krpica"1868. godine i uvjeti za njezino naljepljivanje na Hrvatsko-ugarsku nagodbu, cit., pp. 79-80.)


L'idillio ungherese-fiumano

La riannessione di Fiume all'Ungheria portò grandissimi benefici alla città poiché, essendo il suo unico sbocco sul mare, il governo ungherese investì considerevoli somme nella modernizzazione del porto. In questo periodo, denominato dai storici come "l'idillio ungherese-fiumano", si assistette a un progressivo sviluppo economico della città dovuto innanzitutto alla costruzione di moli, dighe, magazzini ed altre infrastrutture portuali. A contribuire allo slancio dell'attività commerciale ebbe notevole impatto la fondazione di compagnie marittime quali l'Adria. Sotto l'abile guida del Podestà e benefattore, Giovanni de Ciotta, venne costruito il tratto ferroviario Karlovac-Fiume che collegò la città quarnerina all'entroterra e alla capitale ungherese, Budapest. 

Tuttavia, già verso la fine del XIX secolo si intravedeva la fine dell'idillio" in seguito a una nuova politica adottata dalla Corona di Santo Stefano quale riflesso del nascente nazionalismo ungherese. In tal contesto, i fiumani pur sempre fiduciosi nella lealtà degli ungheresi nel rispettare i diritti stipulati nei diversi decreti e diplomi, commisero, stando a Stelli, un grave errore non avendo definito esplicitamente i limiti della loro autonomia. Errore questo che i fiumani pagheranno a caro prezzo dato che gli ungheresi, considerandosi gli unici meritevoli dello sviluppo e della prosperità di Fiume, promuovevano nel campo politico, a cavallo tra l'Ottocento e Novecento, una prassi delilliberale. Due leggi restrittive vennero introdotte dal governo ungherese senza il consenso della Rappresentanza. La prima diminuiva l'autorità della Rappresentanza municipale fiumana mentre l'altra prevedeva il controllo del governo ungherese sull'istruzione pubblica, restringendo in tal modo l'autonomia fiumana e mettendo in crisi l'italianità di Fiume. Con l'introduzione delle due leggi, iniziarono le avversità tra le due componenti etniche dominanti. Queste culmineranno all'inizio del XX secolo.


Il partito autonomo e la salvaguardia dell'autonomia fiumana

Al fine di difendere i diritti dell'autonoma municipalità cittadina e della lingua italiana, venne fondato da Michele Maylender il partito autonomo. Maylender venne eletto a podestà nel 1897 e rieletto altre sei volte. Quando a inizio Novecento il governo ungherese cominciò a realizzare politiche di magiarizzazione forzata, i giovani fiumani insorsero e, ormai scettici nei confronti della politica lealista del partito autonomo, fondarono nel 1905 il circolo La giovine Fiume, di stampo nettamente nazionalistico. Un nuovo provvedimento del governo ungherese che segnò la frattura definitiva tra Fiume e Budapest fu l'introduzione, in città, della polizia di Stato nel 1913, seguita da massiece dimostrazioni popolari. 
Fortunatamente per i fiumani, i piani di magiarizzazione e il processo di abolizione dell'autonomia di Khuen-Héderváry furono troncati dallo scoppio della Grande Guerra. (Nonostante il sodalizio, fondato da giovani irredenti italiani, si presentasse come un circolo con scopi sportivi, ricreativi e culturali, non mancarono manifestazioni di carattere politico. La prima di queste fu organizzata dalla società nel novembre 1905:

«Nel corso di una rappresentazione da parte di una compagnia italiana al Teatro civico del dramma La morte civile di Paolo Giacometti venne dispiegato un grande tricolore da una parte all'altra del tatro; intervennero i poliziotti, ma il funzionario preposto, evidentemente per nulla ostile ai manifestanti, sostenne nella sua relazione. che il tricolore dispiegato era quello...ungherese (che, come è noto, ha gli stessi colori di quello italiano, disposti però in bande orizzontali)!"; Giovanni Stelli, Storia di Fiume-Dalle origini ai giorni nostri, cit., p. 190.)»

Dopo la guerra e la dissoluzione della monarchia, gli ungheresi abbandonarono la città che fu Stato Libero dal 1920 al 1924 quando Fiume fu annessa all'Italia. Ventun'anni dopo, esattamente il 3 maggio 1945, le truppe titine occuparono la città, ma la presunta conquista di libertà toglierà ai fiumani la propria storica identità e autonomia, ed è questa macro-storia che Osvaldo Ramous con dolorosa profondità e senza false illusioni dipinge ne II Cavallo di cartapesta, in un'analisi attenta e perspicace.


Gli anni del terrore comunista: La politica epuratrice del governo jugoslavo

Con la fine del conflitto mondiale e l'occupazione di Fiume da parte delle truppe partigiane avvenuta il 3 maggio 1945, il governo comunista jugoslavo adottò un'accanita politica repressiva, volta a "neutralizzare" quelli che venivano considerati i "nemici del popolo". 

Venne instaurato, su modello sovietico, il sistema della cosiddetta "democrazia popolare" secondo il quale, almeno in teoria, il potere era in mano al popolo. Tale sistema politico-organizzativo era però assai lontano da quello democratico e si rivelò ben presto come un regime totalitario monopartitico. 

A proposito delle diverse organizzazioni politiche presenti a Fiume nell'immediato dopoguerra, la cui influenza era però trascurabile, vanno nominati il "Partito Autonomo" cappeggiato da Riccardo Zannella, il movimento "Fiume Autonoma Italiana" fondata da don Luigi Polano e la "Federazione liburnica" promossa da Giovanni Rubinich. Siccome il nuovo governo comunista non ammetteva l'esistenza di altri partiti e organizzazioni politiche, i fondatori dei suddetti movimenti, insieme ad altre centinaia di persone ritenute "nemici del popolo" e "oppositori", reali o potenziali, furono spietatamente liquidati dalla polizia segreta, l'OZNA, oppure svanirono nel nulla, inghiottiti dal buio. In alcuni passi del romanzo, Ramous offre cenno di queste sparizioni e dell'agghiacciante atmosfera che si respirava a Fiume nei giorni successivi all'occupazione jugoslava:

«In città, intanto, si diffondevano delle voci tutt'altro che tranquillanti. Si parlava di arresti notturni, di deportazioni, di esecuzioni capitali avvenute senza pubblici processi, e perciò incontrollabili. Delle persone sparite, il più delle volte non era possibile aver nessuna notizia. Ai familiari che ne chiedevano, veniva risposto che nulla si sapeva di loro.»

Un sommario approssimativo delle vittime fiumane della politica repressiva jugoslava è stato tracciato dallo storico Amleto Ballarini:

«A Fiume, per mano dei militari e della polizia segreta (OZNA prima e UDBA poi), sotto le direttive del Partito comunista croato (...), con la complicità diretta o indiretta del Comitato popolare cittadino (...), non meno di 500 persone di nazionalità italiana persero la vita tra il 3 maggio (1945) e il 31 dicembre del 1947. A questi dovremmo aggiungere un numero impreciso di "scomparsi" (non meno di un centinaio) che il mancato controllo nominativo nell'anagrafe storica comunale ci costringe a relegare nell'anonimato insieme al consistente numero, nei paesi della provincia del Carnaro e dei distretti annessi dopo il 1941, di vittime di nazionalità croata (che spesso ebbero, almeno tra il 1940 e il 1943, anche la cittadinanza italiana) determinate a guerra finita dal regime comunista jugoslavo.»

Alle sparizioni casuali e liquidazioni massicce fecero seguito, tra il 1946 e il 1948 innumerevoli sequestri e confische di beni messe in atto, sempre con motivazioni generiche, dalle autorità comuniste. Ne scrive a proposito Ramous:

«Qualche giorno prima, era uscita da quell'alloggio una coppia di anziani negozianti, rimasti senza lavoro e senza mezzi, dopo il sequestro della loro bottega. L'espropriazione era avvenuta, come già in altri casi, non in base a pubbliche generali disposizioni, ma in seguito a un controllo, durante il quale erano state rilevate alcune trasgressioni di regole che i proprietari non avevano avuto mai l'occasione di conoscere.»

Tale fatto, come se non bastasse, rese ancora più opprimente la situazione nei territori annessi alla Jugoslavia costringendo la stragrande maggioranza della popolazione di quelle zone alla dura e forzata scelta dell'esilio.


L'esodo

Nonostante il regime comunista jugoslavo avesse inizialmente garantito il rispetto della tradizionale autonomia fiumana e dei diritti etnici e culturali delle minoranze, una volta giunto al potere assunse un atteggiamento diametralmente opposto, svelando le sue vere intenzioni. Negli ultimi capitoli del romanzo, in particolare quello intitolato La tua logica non è la mia, Ramous affronta un preciso momento storico, cioè le delusioni alle quali andarono incontro i fiumani che hanno creduto nella tanto proclamata libertà e fratellanza tra i popoli, ovvero nell'internazionalismo socialista che risultò, anzi, un nazionalismo jugoslavo. In tal

domenica 6 ottobre 2024

Il pannello che L'ANVGD ha fatto installare davanti al liceo classico di Gorizia



"Norma Cossetto (Visinada-Vizinada, 17 maggio 1920- Surani 4/5 ottobre 1943) fu una studentessa italiana, nata in Istria (oggi Croazia, a quel tempo territorio italiano) seviziata ed uccisa dal partigiani comunisti jugoslavi del Maresciallo Tito.

Venne gettata nella voragine della foiba di Villa Surani.
Dopo essersi diplomata presso il Liceo Classico di Gorizia (alle spalle di questo pannello), frequentò l'Università degli Studi di Padova, che dopo la sua morte le conferì la laurea honoris causa.

Divenne con tempo simbolo delle migliaia di civili italiani uccisi dai partigiani comunisti jugoslavi nel 1943 e a guerra finita in Istria, Fiume e Dalmazia.

Il Presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi il 9 dicembre 2005 le conferì la medaglia d'oro alla memoria al merito civile con la seguente motivazione "Giovane studentessa istriana, catturata e imprigionata dal partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suol carcerieri repol barbaramen e pol barbaramente gettata in una folba. Luminosa testimonianza di coraggio e di amor patrio. 5 ottobre 1943 - Villa Surani, Istria)."
 
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"Un'altra giovane studentessa di questo stesso liceo venne barbaramente uccisa.

Si tratta di Milojka Štrukelj (Salcano-Solkan, 1925-Circhina-Cerkno, 1944) la quale partecipò alla resistenza jugoslava contro l'occupazione nazifascista e per questa ragione venne arrestata dai fascisti. Dopo la capitolazione nel 1943 fu liberata e quando riprese la lotta di liberazione fu uccisa dal nazisti insieme ad altri partigiani durante l'attacco al paese di Cerkno".

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C'è così tanta ammirazione verso gli jugoslavi, gli slavi non fanno altro che parlare dei grandi liberatori, eppure l'invasione della Jugoslavia (La Jugoslavia era pro all'Asse finché gli inglesi non sponsorizzarono un colpo di stato che rovesciò la monarchia, provocando quindi l'invasione dell'Asse) fu l'invasione più semplice e rapida dell'esercito italiano durante la guerra. Anche i partigiani jugoslavi furono sconfitti abbastanza facilmente in molte occasioni e gran parte del territorio fu annesso per anni all'Italia, anche con l'approvazione dello stato fantoccio croato guidato da un re italiano; l'unico motivo per cui hanno guadagnato territorio è stato proprio l'armistizio dell'8 settembre. Gli slavi riuscirono ad avanzare solo quando centinaia di migliaia di soldati italiani furono smobilitati e/o arrestati in seguito all'armistizio, occupando territori abbandonati senza combattere né vincere nulla. L'unica cosa che riuscirono a realizzare fu massacrare cittadini.

E anche allora, ci vollero 2 anni per raggiungere l’Italia, mentre l’Italia era divisa e combatteva contemporaneamente Gran Bretagna, Stati Uniti e partigiani comunisti.

Sono stati i sovietici, i francesi, gli americani e gli inglesi a finanziare ed equipaggiare gli jugoslavi, perché gli non potevano fare nulla da soli. Proprio come negli anni '90.

I partigiani jugoslavi non erano nemmeno la forza maggioritaria nell'ex Jugoslavia. I partigiani erano in inferiorità numerica rispetto ai collaborazionisti.

Non c'è assolutamente nessun motivo per cui dovremmo celebrare o ricordare questi assassini, perché sì, erano solo degli assassini! 

I "liberatori" di cui tanto va fiera la slovenia non sono altro che criminali che pensavano solo a togliere di mezzo gli italiani (e gli slavi anti-comunisti che non erano tra le loro file) per appropriarsi di territori mai appartenuti a loro.

Nei decenni precedenti, la violenza slava contro gli italiani si è generalmente verificata sotto forma di attacchi disorganizzati da parte di individui radicali e flash mob. Ma negli anni '20 i radicali slavi in Italia iniziarono a organizzare e formare gruppi terroristici interni.

Nel 1927 un gruppo di slavi formò un gruppo terroristico antifascista e antiitaliano chiamato TIGR (abbreviazione di Trieste-Istria-Gorizia-Fiume/Trst-Istra-Gorica-Rieka). Hanno effettuato diversi bombardamenti e omicidi in Italia con l'obiettivo di annettere Trieste e altre terre italiane alla Jugoslavia. 

Ferdo Bidovec, Fran Marusvicv, Zvonimir Miloš e Alojz Valencvicv (i quattro furono fucilati vicino a Basovizza il 6 settembre 1930 per aver dichiaratamente compiuto il 10 febbraio precedente un attentato dinamitardo alla redazione del quotidiano Il Popolo di Trieste, nell'attuale piazza Benco, causando la morte dello stenografo Guido Neri e il ferimento di tre persone) appartenevano all'organizzazione clandestina Borba (Lotta), attiva dall'autunno 1927 nelle province di Trieste e Pola e collegata alla Tigr della provincia di Gorizia. Le indagini giudiziarie attribuirono alla Borba-Tigr oltre a vari omicidi, attentati e intimidazioni elettorali, tra il 1927 e il 1932 incendiarono 18 scuole, asili e ricreatori, 13 attacchi a militari, caserme e depositi di armi, 13 attentati contro poliziotti italiani di nazionalità slovena o altri sloveni «collaborazionisti», nonché l'uccisione di un colono e il ferimento di un contadino, entrambi di nazionalità croata, il 24 marzo 1929 presso Pisino.

Hanno contrabbandato armi dalla Jugoslavia, in previsione di un'insurrezione armata contro l'Italia. Nel 1938 progettarono un attentato contro Benito Mussolini. Nel 1940-1941 il gruppo iniziò a scomparire a causa dell'arresto, del processo e della condanna della maggior parte dei suoi leader dai tribunali di Trieste. Molti membri del TIGR si unirono in seguito ai partigiani jugoslavi.

D'altro canto, durante la seconda guerra mondiale l'annessione all'Italia fu accolta con favore da molti leader sloveni, in particolare dall'arcivescovo di Lubiana Gregorij Rozman, che dichiarò gli italiani "inviati da Dio" e celebrò la Santa Messa con le truppe italiane. Non meno di 105 sindaci sloveni hanno inviato un messaggio direttamente a Benito Mussolini, esprimendo giubilo e orgoglio per l'annessione di questo territorio al Regno d'Italia. Anche gli ex ministri jugoslavi Ivan Puceli e Frank Novak, il senatore Gustav Gregorin, il bano Marko Natlacen e il rettore Matija Slavič hanno giurato fedeltà all'Italia.

L'Italia emanò uno Statuto di Autonomia per la Provincia di Lubiana il 3 maggio 1941. La maggior parte della vecchia amministrazione slovena è rimasta intatta. La maggior parte delle istituzioni culturali ed educative slovene, come l'Università di Lubiana e l'Accademia delle Scienze e delle Arti, sono rimaste intatte. È stata mantenuta anche l'istruzione in lingua slovena. Le relazioni tra italiani e sloveni furono pienamente regolarizzate. La popolazione era esente dal servizio militare. La provincia accolse circa 18.000 profughi sloveni in fuga da altri paesi (in particolare Germania e Ungheria).

Nel maggio 1941 il Partito Comunista di Jugoslavia (KPJ), con il sostegno di Mosca, iniziò a organizzare le forze per imbracciare le armi e fomentare una rivoluzione bolscevica. Le prime rivolte comuniste scoppiarono nel giugno 1941 in Croazia, prima di diffondersi in altri territori. Gli attacchi di guerriglia e gli assassinii da parte di bande comuniste iniziarono subito dopo.

Nel 1942 nella provincia di Lubiana iniziarono a sorgere spontaneamente guardie di villaggio formate da civili sloveni locali per difendersi dai violenti attacchi dei partigiani comunisti.

A quel punto della guerra, il Regno di Jugoslavia era stato sciolto da tempo; il Regio Esercito Jugoslavo aveva già cessato di esistere di fatto; le autorità locali slovene avevano giurato fedeltà all'Italia. A quel punto, quindi, la guerra non veniva condotta dall'esercito italiano contro gli "jugoslavi", né contro l'"esercito jugoslavo", né tanto meno contro il "popolo sloveno"; piuttosto era diretta contro bande irregolari di rivoluzionari comunisti sponsorizzate dall'Unione Sovietica che erano spuntate nei Balcani.

Fu in questo contesto che i civili sloveni iniziarono a organizzarsi e a cercare l'assistenza degli italiani, chiedendo loro armi per combattere contro le forze comuniste. A partire dall'estate del 1942 fu stabilita una collaborazione formale tra le milizie anticomuniste slovene e l'esercito italiano. Queste milizie cittadine composte da cattolici e anticomunisti furono riunite nella Milizia Volontaria Anticomunista (MVAC). I suoi membri furono tutti marchiati come "nazi-fascisti" e presi di mira per la liquidazione di massa dai partigiani jugoslavi.

Dopo l'armistizio italiano dell'8 settembre 1943, i resti sloveni dell'MVAC furono incorporati nella neonata Guardia nazionale slovena, il cui compito era quello di continuare la lotta contro i partigiani comunisti jugoslavi.

Nel maggio del 1945, dopo la fine della guerra e l'assunzione del potere da parte dei partigiani jugoslavi, la Guardia nazionale slovena fuggì in Austria insieme a numerosi civili sloveni. Furono tutti arrestati dall'esercito britannico e internati nel campo di concentramento di Viktring, prima di essere consegnati ai partigiani jugoslavi.

Verso la fine di maggio del 1945 migliaia di membri della Guardia nazionale slovena, insieme alle loro famiglie, donne e bambini inclusi, furono massacrati dai partigiani di Tito, senza accuse formali o processo. I loro corpi vennero gettati in fosse (foibe) vicino a Kočevski Rog, spesso mentre erano ancora vivi.

Tra le vittime c'erano anche croati, serbi e montenegrini considerati "traditori" per essere anticomunisti, così come prigionieri di guerra italiani e tedeschi. Il numero totale delle vittime è stimato in circa 30.000 persone. La maggior parte di loro erano civili, molti dei quali familiari innocenti, un gran numero di loro bambini. Sono 3.000 di queste vittime i cui resti sono stati recentemente riesumati da speleologi e antropologi a Macesnova Gorica.

I partigiani jugoslavi si presentavano come "liberatori del popolo" che liberavano il paese dall'occupazione straniera. Questo, ovviamente, era solo un pretesto disonesto per giustificare le loro attività rivoluzionarie armate, un tentativo di ottenere il consenso popolare per la causa comunista, poiché gli stessi comunisti avevano precedentemente tramato un violento rovesciamento del governo reale jugoslavo, motivo per cui il partito era stato bandito e soppresso dal governo reale jugoslavo per quasi due decenni prima della seconda guerra mondiale.

Che la "resistenza all'occupazione straniera" fosse semplicemente uno stratagemma o un pretesto è ulteriormente dimostrato dal fatto che le prime rivolte comuniste jugoslave non furono organizzate contro gli italiani, i tedeschi o gli ungheresi, ma contro il governo croato indipendente vicino a Zagabria. Nel frattempo, la rivolta comunista di Tito iniziò 2 settimane dopo in Serbia, quando i comunisti armati assassinarono due gendarmi serbi a Bela Crkva; la guerra di Tito fu quindi condotta non solo contro l'esercito tedesco, ma anche contro i gruppi anticomunisti serbi e lo stesso governo serbo. L'obiettivo non era "resistere all'invasore straniero"; l'obiettivo era stabilire una dittatura comunista e, se necessario, eliminare ogni opposizione tra la popolazione.

I partigiani jugoslavi non furono organizzati per resistere a un'occupazione straniera; furono formati per organizzare una rivoluzione comunista e prendere il potere, poiché la monarchia jugoslava e l'esercito regolare non erano più presenti.

In verità, la maggior parte delle autorità slovene accolse con favore gli italiani. E non mancò la cooperazione da parte della cittadinanza slovena. La rivolta partigiana non venne dal "popolo", ma dal Partito Comunista, che ingannevolmente inquadrò la propria rivoluzione come una "resistenza" per ottenere consenso popolare e potere politico.

In quasi tutte le operazioni e decisioni condotte nella provincia di Lubiana dalle autorità italiane tra il 1941 e il 1943 (vale a dire amministrazione pubblica, operazioni antipartigiane, deportazioni, internamenti), esse furono assistite da collaborazionisti sloveni che offrirono volontariamente i loro servizi.

Nel dopoguerra, gli italiani vennero dipinti dagli jugoslavi come "oppressori" e "persecutori del popolo sloveno", mentre la memoria dei "collaboratori" sloveni anticomunisti e filo-italiani venne in gran parte cancellata e cancellata dalla storia.

In effetti, ancora oggi questa storia è poco discussa o enfatizzata in Slovenia, perché non corrisponde esattamente alla vecchia narrativa comunista jugoslava ereditata dalla Repubblica di Slovenia ( che fa credere al suo popolo di essere "tra i primi antifascisti in europa" https://www.rtvslo.si/capodistria/radio-capodistria/notizie/istria/mostra-gli-sloveni-tra-i-primi-antifascisti-in-europa/722064?fbclid=IwY2xjawFupbJleHRuA2FlbQIxMQABHYQconk6i1O8HXHovvHOm8qEO_5j5XhK9DqgUVpX1xKOlAnrF4QH05giWw_aem_wDoPpwabORsTY9bCd-_F3g ) secondo la quale "gli occupanti italiani perseguitarono il popolo sloveno e cercarono di perpetrare un genocidio per per far posto all’italianizzazione forzata”, che, al contrario, è proprio ciò che gli stessi jugoslavi fecero contro i civili italiani e le minoranze etniche tedesche. Come al solito, i comunisti si sono impegnati in proiezioni psicologiche e hanno accusato falsamente i loro nemici di ciò che loro stessi si erano resi colpevoli.

Questi "collaboratori" sloveni, molti dei quali bambini, furono brutalmente massacrati per il crimine di aver cercato di difendere la loro patria dai partigiani di una dittatura comunista, e furono immediatamente condannati alla damnatio memoriae; si fece semplicemente finta che non fossero mai esistiti.

È ora di smetterla con queste bugie, basta osannare degli assassini! Basta fingersi ciò che non si è stati!

Qual è il confine dell'Italia secondo Dante?

Benvenuto da Imola nel commento della Divina Commedia (1376) ci dà un'indicazione precisa: «Est enim Carnarium quidam gulphus in mari Adriatico in finibus Italiae continens XL milliaria». Se Pola è presso dei Quarnaro, e se il Quarnaro ha un circuito di quaranta miglia, ne consegue che esso non può nel pensiero del commentatore estendersi al di là del canale della Farasina, e deve comprendere soltanto il tratto di mare situato tra il capo Promontore, il canale stesso e l'isola di Cherso. Se Benvenuto da Imola avesse inteso il Quarnaro per il mare da Pola all'isola di Pago, il «milliaria XL» resterebbe molto al disotto della misura reale, in quanto che esso, secondo i calcoli del Vivien de Saint-Martin, «a une longueur de 68 kil. avec 76 kil. de largeur à l'entrée».

L'ipotesi è che Dante avesse un'opinione analoga a quella di Benvenuto da Imola e del suo concittadino Fazio degli Uberti: che cioè il Quarnaro fosse il braccio di mare fra l'Istria e Cherso, e che l'Italia finisse su per giù al canale della Farasina.

Sembra chiaro inoltre dal confine fissato dal poeta nel passo citato del «De vulgari eloquentia», che i limiti dell'Italia debbano cadere nel Quarnaro così inteso.

Dante aveva concepito un’Italia come una regione in cui si parlava una medesima lingua, osservata nella varietà dei suoi dialetti nel De vulgari eloquentia, in cui si fa menzione anche dell’istrioto. Un’Italia concepita nella Divina Commedia «com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e suoi termini bagna», con riferimento alla necropoli romana di Pola, che l’illustre poeta ebbe quasi sicuramente modo di vedere durante un soggiorno istriano.

Ma la visione di Dante era limitata: si era spinto fino in cima all'Istria senza mettere il naso al di là del golfo che abbraccia il litorale fiumano. Lo schema classico cui si era attenuto, quello Augusteo, non gli permetteva di proseguire per scoprire i luoghi dalmati e approdare nel grandioso palazzo di Diocleziano sulla riva spalatina. Quindi è comprensibile il rimbrotto che il divin poeta si prese sei secoli dopo da quel colto e irruente intellettuale che fu Niccolò Tommaseo da Sebenico il quale scrisse: «Dante dice che il Quarnaro chiude l'Italia, Dante quindi esilia me, il disgraziato. Iddio gli perdoni, ei non sapeva quello che si facesse».

sabato 5 ottobre 2024

I confini della Venezia nella storia del diritto Italiano

[Dal libro: NUOVA ANTOLOGIA DI LETTERE, SCIENZE ED ARTI. SESTA SERIE, GENNAIO-FEBBRAIO 1916]

Duecento anni or sono, fra Modena e Roma ferveva una violenta polemica: ne erano oggetto i diritti della sede pontificia e della casa d'Este sulle paludi di Comacchio, polemisti erano il padre della storia Italiana Lodovico Antonio Muratori ed il celebre Arciveseovo d'Ancira Giusto Fontanini. La lotta si combatté con grande sfoggio d'argomentazioni storiche, d'antichi diplomi, e l'acrimonia fu tale da rompere l'antica amicizia dei due eruditi, così che essi non si rappacificarono mai più. Quest'esempio non è affatto isolato: al contrario, quasi tutte le guerre o controversie diplomatiche dei secoli XVI-XVIII furono precedute ed accompagnate da libelli o da opere di maggior conto d'indole storico-giuridica, nelle quali con argomenti più o meno plausibili, si sosteneva la validità dei diritti dell'uno o dell'altro stato sui territori contestati. Tale procedimento era ben naturale quando si pensa che, per la maggior parte, si trattava di controversie fondate su diritti ereditari che le case principesche vantavano su città o provincie considerate come oggetti del loro patrimonio. In altri casi, però, le discussioni s'elevavano a problemi molto più interessanti, come quelli dibattuti fra tanti eminenti pubblicisti del secolo XVII intorno alla dipendenza di Venezia dal sacro Romano impero.

In questo campo di controversie diplomatiche si svolsero per lunghi secoli i primordi delle discipline storico-giuridiche e soltanto più tardi i compiti di queste si allargarono, e la storia del diritto si liberò dai suoi stretti rapporti col diritto pubblico e colla scienza diplomatica per assurgere a disciplina intieramente indipendente. Però anche nella nuova sua veste essa rasenta sovente importanti questioni politiche, poichè le sue indagini si svolgono in torno a problemi strettamente connessi con punti fondamentali di quelle. Tali sono, anzitutto, le ricerche relative alle forme giuridiche particolar di ciascun popolo.

Dal giorno in cui sorse il concetto di Stato Nazionale l'attenzione degli storici fu tratta naturalmente a studiare le caratteristiche della vita d'ogni nazione attraverso i secoli, lo svolgersi della sua struttura sociale. Nel tempo stesso anche nella giurisprudenza si formarono delle correnti di studi dirette a riconoscere gli istituti giuridici particolari d'un determinato aggregato etnico. Queste correnti trovarono la loro origine nella reazione Germanica contro il codice Francese, e culminarono con gli sforzi diretti a costruire un sistema giuridico nazionale. Tali studi si fondarono in gran parte su ricerche storico-giuridiche; per ogni istituto si cercò di rintracciare le forme originali dovute alle tendenze native d'un popolo, si condussero indagini accurate sulle antiche leggi popolari, si seguì pazientemente la trasformazione dei loro lineamenti, si sceverarono le influenze dei diritti stranieri; così la storia del diritto costituì uno dei lati, e non dei meno interessanti, dell'insieme di studi diretti a dare a ciascun aggregato nazionale la coscienza del proprio essere, dei caratteri peculiari che lo differenziano dalle altre nazioni. Che tali caratteri esistano è evalente. 

L'originalità che un popolo mostra nelle sue manifestazioni letterarie, artistiche, scientifiche si palesa anche nella sua vita giuridica: basta pensare a certi istituti caratteristici del diritto Romano, o ricordare la rinascita degli studi giuridici nell'Italia medievale. Quanto a quest'ultima, si può dire, anzi, che i primi segni della nazione risorgente si trovino nelle manifestazioni giuridiche. Ancor prima che l'istituto del comune cittadino fiorisca nell'Italia media e settentrionale, ancor prima che nei canti dei giullari si sentano le più lontane promesse della poesia Italiana, il processo di unificazione si palesa nel diritto privato, dove il dettato notarile diviene conforme già nel secolo XI e si disegnano consuetudini generali che si sovrappongono alle varietà regionali. Il nuovo diritto previene ed accompagna, dunque, il formarsi della nazione e non a caso perseguiamo i primordi della grande scuola giuridica nazionale proprio nella corte Matildica, cioè nel centro della reazione politica Italiana contro il partito imperiale Germanico-feudale. Naturalmente, non tutto il diritto che così si forma può essere strettamente nazionale; gli studi degli ultimi cinquant'anni hanno dimostrato come ciò non si possa dire né del diritto Romano, né degli stessi diritti popolari Germanici. Dovunque si trovano traccie larghissime d'influenze d'altri diritti anteriori o contemporanei i cui istituti si meschiano agli istituti nazionali o ne modificano la natura, Il caso non poteva essere diverso in Italia dove il substrato d'antiche civiltà e l'influenza di recenti conquistatori non potevano mancare di far sentire il loro peso.

Ma, pur facendo la debita parte alla comunicabilità del diritto, appare certo che ogni popolo possiede, nel suo patrimonio giuridico, accanto a taluni istituti comuni a tutte le nazioni, e ad altri che gli posson esser pervenuti per influenza d'estranee civiltà, un certo numero, maggiore o minore secondo i casi, d'istituti che son propri della sua indole, nei quali si palesa il suo stesso carattere. E ciò non solo nel diritto privato, che si svolge nel campo più intimo, ma anche nel diritto pubblico dove la rapidità dei mutamenti e per ciò la possibilità d'influenze estranee è molto maggiore. Così è certo che il comune medievale, colla sua larghissima autonomia, colla sua organizzazione profondamente democratica è un istituto veramente Italiano, giacchè le sue linee non si possono affatto confrontare colle istituzioni del tutto atrofiche che troviamo, nello stesso campo, in Francia ed in Germania. Così del tutto originale e conciliabile soltanto colla finezza e coll'equilibrio del nostro popolo è la lenta ed insensibile trasformazione dei maggiori comuni in signorie nelle quali però le autonomie locali continuano a vivere con tanta larghezza. Ed anche fuori d'Italia gli esempi di formazioni giuridiche proprie di certi popoli si possono additare facilmente: così il classico svolgimento delle istituzioni parlamentari Inglesi, così, all'opposto, la tendenza Francese verso l'accentramento e le istituzioni che ne derivano. E se dal diritto pubblico passiano al diritto privato si deve pur riconoscere che lo svolgersi dell'istituto dotale, in Italia, dal secolo XIII in poi, è intimamente connesso coll'organizzazione Italiana della famiglia, un'organizzazione che potremmo chiamare monarchica per la posizione che vi tiene il capo, e della quale ancora oggi son visibili le traccie. Simili osservazioni si potrebbero addurre anche per altri istitui.

Ognun vede, perciò, che la presenza di certe forme giuridiche caratteristiche in una regione non ha interesse soltanto per il legista desideroso di conoscere le risposte scaturigini delle norme che egli deve applicare, ma ha importanza altresì per lo storico il quale voglia riconoscere il prevalere dell'uno o dell'altro principio nazionale, dell'una o dell'altra civiltà in un dato periodo ed in un dato territorio. Così anche le ricerche storico-giuridiche possono esser tratte irresistibilmente nel campo della polemica nazionale, in particolar modo per quei paesi di confine che attraverso secoli furon campo aperto alle lotte delle razze e delle civiltà.

Parrà strano, forse, che la pergamena a stento contesa dalle cure dell'archivista al tarlo roditore, il codice miniato prodotto di un'arte squisita, possano divenir armi che preparino il conflitto divoratore d'uomini e di ricchezze, ma ciò non è più singolare del veder tanti strumenti di morte uscire dalle storte e dai fornelli, in apparenza così inoffensivi, dei gabinetti di chimica. Gli uni preparano alla lotta la coscienza popolare facendole intuire la giustizia d'una causa; gli altri danno alle nazioni le armi colle quali sostenere le loro pretese. Pergamene e lambicchi sono anch'essi legati dal nesso profondo che unisce il mondo delle idee al mondo delle cose:

...spiritus intus alit
totamque infusa per artus mens agitat molem.

Nell'opera, veramente insigne, che la scuola storica Tedesca ha compiuto, ricostruendo con sapienti indagini critiche, le fonti medievali di gran parte d'Europa, quante volte ci troviamo di fronte alla preoccupazione di dar rilievo all'importanza dell'elemento Germanico nella formazione delle istituzioni politiche e giuridiche dei vari paesi, nei quali dopo la caduta dell'Impero Romano traboccò la marea Teutonica!

Secondo quei dotti, sarebbero principi prettamente Germanici. in antitesi con quelli del mondo Greco-Romano, gli istituti democratici che reggono ora gli Stati Europei, e così pure, nel diritto privato, la più gran parte dei concetti fondamentali, come quello della persona giuridica, la capacità patrimoniale della donna, il concetto della proprietà e quello del possesso, l'indole dei contratti agrari, il fondamento dell'obbligazione e quello dell'eredità: tutio ciò sarebbe stato profondamente mutato dall'influenza Germanica che avrebbe lasciate in tal modo le più ampie impronte in tutta l'Europa. Si sarebbe così verificato per la parte giuridica quanto Fichte affermava in generale, già nei primi anni dello scorso secolo, cioè che lo spirito tedesco reggeva tutto il mondo occidentale e che Francesi ed Italiani, non erano se non Germani travestiti. Di fronte a tali esagerazioni non bisogna di certo dimenticare i grandi meriti che i dotti Germanici ebbero, insieme ai loro confratelli d'altre nazioni, nel rinnovamento scientifico dei nostri tempi; nondimento si deve pur riconoscere che questa corrente d'idee ebbe anch'essa la sua parte nella formazione di quello stato d'animo che preparo il presente conflitto.

Un tale movimento, nelle sue linee generali, poteva avere per noi un'importanza soltanto riflessa; esso ci colpì invece direttamente quando rivolse le sue indagini alla storia di quelle terre, nelle quali la razza Italiana e la Tedesca si guardano da secoli ben consapevoli, l'una e l'altra, della forza che lor deriva dalla possanza del genio e dal tesoro delle tradizioni.

Io non voglio soffermarmi sulle irose parole pronunziale da qualche dotto d'Oltralpe durante la lotta combattuta, negli ultimi vent'anni, dagli Italiani soggetti all'impero Austriaco per la conquista dei diritti nazionali: parole, ad esempio, come quelle del professore Waldner dell'Università d'Innsbruck il quale non si peritò di asserire che la fondazione della Università di Trieste sarebbe stata affatto inutile in quanto che non vi si sarebbe potuto insegnare altra cosa che scienza Tedesca rivestita di forma Italiana. Tali puerilità non meritano, di certo, più ampia menzione! (Vedasi la dignitosa protesta dei professori della Facoltà giuridica italiana di Innsbruck Parchioni, Sartori-Montecroce, Galante, Lanza. Farinelli e Menestrina contro queste poco ponderate parole del Walbiner pronunziate alla riunione del partito nazionale tenuta nella stessa città. I redattori della protesta osservano fra l'altro che, fatta astrazione per le scienze filosofiche mediche, per le quali nessuno potrebbe seriamente parlare di un monopolio tedesco, anche per le discipline giuridiche si può porre in dubbio che esse siano, nella stessa Austria, un prodotto dello spirito tedesco. La scienza Romanistica e la Canonistica fiorirono, invece, anzitutto, in Italia in celebri scuole e vi contano, ancor oggi, rinomati interpreti; quanto poi al diritto positivo, avrebbe dovuto esser noto ad un professore di diritto austriaco, quale parte importante abbia avuto lo spirito latino nella codificazione austriaca, quello spirito latino che il professore Walkiner dice estraneo all'Austria)

Ricorderò piuttosto come abbastanza di frequente in opere di storici e di giuristi Tedeschi si trovi affermata l'esistenza di vincoli antichissimi che avrebbero congiunto al regno Germanico le provincie Italiane sin qui soggette all'Austria, oppure negata la continuità dei caratteri nazionali nella storia e nel diritto di quelle. Affermazioni, che si connettono strettamente alla propaganda diretta ad estendere oltre i naturali confini delle Alpi il dominio della gente Tedesca.

Così, quanto al Trentino, vediamo posti in prima linea i rapporti di questo colla contea del Tirolo e creata quella denominazione di Südtirol che fu adoperata anche in libri strettamente scientifici a designare città affatto Italiane come Trento o Rovereto. In trattati di storia del diritto Austriaco troviamo l'affermazione che la preponderanza etnografica Italiana del Trentino sia cominciata soltanto nel secolo XVI con alcune immigrazioni che avrebbero mutato il carattere della popolazione originariamente Tedesco. (Luschin v. Ebengreuth, Oesterreichische Rechtsgeschichte (Bamberg, 1914). p. 16. L'opinione che a Trento, ancora nel XIII secolo, la lingua volgare fosse la tedesca, fu espressa da Tomaschrek nell'Archie fur Kunde oesterrrichts her Geschichtsquellen, XXVI, pag. 103 e seg., fu ribattuta validamente, fra gli altri, dallo stesso Voltelini: Die ältesten Statuten von Trient und ihre Leberlieferung, nell'Archivo für vesterreichische Geschichte. XXIX. I. pag. 97 е seg.)

Così quanto al Friuli se ne parla come d'un territorio tedesco dalle invasioni barbariche sino al secolo XIII ed oltre. E tali affermazioni si estendono non solo al Friuli Goriziano, ma anche al Patriarcale. Cividale, l'antica Forum Julii, è qualificata come una città Tedesca, il parlamento Friulano, mirabile istituto dell'antico stato Patriarcale, è considerato come prettamente Germanico.

Quanto a Trieste, la sua dedizione del 1382 ai duchi d'Austria è data come fondamento indubitabile della sua appartenenza al Regno Tedesco (Ved. ad esempio, la III carta storica antuessa allo SCHRÖDER, Lehrbuch der deutschen Reehtsgeschichte (Leipzig, 15902), dove il udeutsches Reich seende, senz'altro, sino all'Adriatico ad Aquileia, a Duino, a Trieste). Persino sull'Istria si appuntano le mire di questi infaticabili studiosi. Si parla della bella penisoletta Adriatica come d'una terra che per molti secoli sarebbe stata, dal punto di vista della storia del diritto pubblico, parte della Germania, mentre soltanto l'influenza Veneziana l'avrebbe tolta ad essa, a partire dal secolo XIV. Gli sforzi dei Patriarchi Aquileiesi per ricuperare l'antico loro dominio sulle città Istriane sono indicati come gli ultimi tentativi dell'Impero Tedesco di ritenere la provincia (DIMITZ, Geschichte Krains (Laibach. 1874). I. 145. il quale asserisce che la marca d'Istria fu staccata sin dal 952 dall'Italia Per la lotta tra il Patriarcato Venezia vedasi il Lener, Veneziarisch-Istrische Studien (Strassburg. 1911), pag. XV.). Non sarà senza qualche utilità il vedere quanta parte di tali affermazioni regga all'esame spassionato dei fatti. Il problema può essere considerato sotto due punti di vista: quello dei legami delle provincie Italiane coll'antico regno Tedesco, una delle parti dell'impero Romano-Germanico, e quello dello svolgimento degli istituti di diritto pubblico e di diritto privato nelle provincie stesse. Proviamoci ad esaminarli partitamente.

A chi guardi i confini della Venezia verso settentrione, si presenta primo, nella cerchia delle Alpi, coronato dalle guglie meravigliose dei suoi monti, il Trentino. Colà tutto ci parla dell'Italia: la vegetazione, il sorriso del cielo, il carattere delle arti; eppure fra le nebbie del medioevo si vollero cercar le prove dell'appartenenza di tutta la valle dell'Adige sino alle chiuse di Verona, al regno Tedesco.

I documenti parlano ben diversamente, però, a chi li sappia leggere senza preconcetti. Neppure nel periodo più oscuro del Medioevo, quando Ottone I, per soffocare ogni germe di ribellione, sottopose la Venezia tutta al duca di Baviera, le fonti ci permettono di credere che dal punto di vista giuridico queste provincie si considerassero come staccate dal regno Italico e congiunte dal regno Tedesco. I diplomi imperiali ci provano invece tutto il contrario. Noi sappiamo, infatti, che i diplomi riguardanti il regno Italico erano controfirmati dal cancelliere per l'Italia, mentre quelli per il regno tedesco lo erano invece dal cancelliere della Germania; ora, così nel X come nell'XI secolo i diplomi della cancelleria imperiale per il Friuli, per Gorizia, per Trieste, per l'Istria, hanno sempre la ricognizione del cancelliere del regno Italico (Ciò fu dimostrato dallo STUMPF-BRENTANO nel suo scritto: Ueber die Grenze des deutschen und italienischen Reichs von X-XII Jahrhundert, nelle Forschungen zur deutschen Geschichte, XV, pag 160. — L'assegnazione di Trento all'uno o all'altro dei due regni presenta qualche incertezza nel secolo XII, ma il diploma di Filippo di Svevia, nel 1207, dichiara, esplicitamente, che Trento appartiene alla marca di Verona е, регciò all'Italia: Muratori. Antichità Estensi. I. 383).

Più tardi, nel secolo XIII, noi troviamo che i vescovi di Coira ci attestano, in un loro documento, come il confine del regno d'Italia non abbracciasse il solo Trentino ma si estendesse nell'alto Adige alla Val Venosta ed al territorio di Bolzano (Il documento è ricordato da Malfatti, I confini del ducato di Trento, in Arch. Storico per Trieste, l'Istria e il Trentino (Roma, 1883). II. pag. 15. Eso è del 1253 e il vescovo di Coira dichiara che la val Venosta ad Italiam dinoscitur pertinere.). 

Questi ultimi erano possessi del vescovo di Trento, uno dei tanti alti ecclesiastici: Italiani che destreggiandosi fra Re Italiani e Re Tedeschi dapprima, e poi fra Impero e Papato, seppero impinguare di ricchi feudi il patrimonio delle loro sedi. Se Bolzano e la Val Venosta andarono perdute per il regno Italico, ciò deriva dalle usurpazioni, prima, della casa di Gorizia, poi della casa d'Austria, che ebbero successivamente l'avvocazia della chiesa Trentina e in tal qualità, anziché proteggere quest'ultima, seppero arricchirsi strappandole parte dei suoi beni. L'appartenenza di Trento al Regno Italico fu riconosciuta, del resto, ancora nel secolo XVI dall'imperatore Carlo V il quale, nel 1524, scriveva al suo ambasciatore duca di Sessa che Trento era provincia d'Italia (Ved. SARDAGNA E NICOLETTI. La guerra rustica nel Trentino (Venezia. 1889), p. 125, nei Monumenti della R. Deputazione Veneta di Storia Patria).In occasione del Concilio, i principi germanici protestarono contro la designazione, dichiarando che Trento era città italiana). È vero che il Vescovo sedeva, come principe, nella dieta Germanica, ma di questa faceva parte anche un circolo di Borgogna come ricordo dell'antico Regno di Borgogna che col regno d'Italia e col regno Tedesco costituivano l'antico impero Romano-Germanico, lo stato caotico e paradossale che dal Baltico nebbioso si estendeva fino all'azzurro Mediterraneo. Non v'ha meraviglia, dunque, se alla dieta Germanica potè rimaner congiunto un principe del regno d'Italia (L'origine di questa partecipazione deriva certo dal fatto che dal secolo XII in poi, alle grandi diete dell'Impero sia in Germania che in Italia partecipano, senza distinzione, principi italiani e tedeschi.). E questo principe, non bisogna dimenticarlo, resse, in modo indipendente, quella nostra bella provincia sino al 1803, quando la casa di Austria, per risarcirsi delle perdite che le vittorie Napoleoniche le avevano inflitte in Italia ed in Germania, eredette suo diritto di sopprimere i principati ecclesiastici di Bressanone, di Salisburgo, di Passau e di Trento aggregandosene, collassenso della dieta Germanica, i territori.

All'antico regno Italico, appartenne pure di pieno diritto Gorizia. Possediamo due documenti del 1150 e del 1202, nei quali i conti di Gorizia riconoscono che i loro possessi derivano, come feudo, dalla Sedia Aquileiese, e che a questa avrebbero dovuto ritornare all'estinzione della loro casa (DE RUBIES, Monumenta Ecclesine Aquilciensis (Argentinae. 1740). col. 645. Ecco le parole del trattato dei 1202: «Comites Goritiae debent habere castrum de Goritia cum omni proprietate, servis et ancillis et omni imre ad ipsum pertinente exceptis ministerialibus... ab Ecclesia Aquileiensi in feudum» E stabilita la devoluzione alla Chiesa nel caso di estinzioze della linea). Ora i Patriarchi Aquileies ebbero a dichiarare solennemente alla Dieta di Norimberga d'esser principi d'Italia e si rifiutarono, come tali, di ricevere l'investitura in Germania (BOHMER. Acta Imperii Selecta, n. 222, 1206, 3 giugno.). Il piccolo territorio dei conti abbracciava in origine soltanto poche terre nella media valle dell'Isonzo: Cormóns, Tolmino, le chiuse di Plezzo furono aggiunte più tardi ai primitivi possessi mercè continue usurpazioni che qui, come nel Trentino, i conti di Gorizia e del Tirolo, commisero a danno della Chiesa di cui erano avvocati (Sulle vicende del possesso di Tolmino sino alla pace di Worms e sugli sforzi fatti da Cividale perché esso e le chiuse del Prodil fossero conservate a Venezia si veda A. SACCHETTI, Per il possesso di Tolmino, nel Nuoro Archivio Veneto, t. X. p. I (1905). pag. 17 seg. Tolmino fu disputato di continuo, nei secoli XIV e XV. dal Patriarca e dal conte di Gorizia: nel 1338. 26 agosto, vediamo ricordata nella Gastalda patriarcale di Tolmino, la mons de Corn, cioè il Monte Nero degli odierni nostri communicati). Il nesso feudale del Goriziano colla sede Aquileiese e perciò coll'Italia fu riconosciuta solennemente, una volta di più, nel 1424, quando il conte Enrico di Gorizia ricevette dal doge di Venezia successo nei diritti del Patriarcato, l'investitura dei suoi antichi feudi. Tale investitura ebbe luogo dinanzi alla chiesa di S. Marco, al cospetto del patriziato Veneto e della nobiltà Goriziana, seguendo gli antichi riti del mondo feudale, ed il conte Enrico presto nelle mani di Francesco Foscari il giuramento di fedeltà alla Repubblica. Se non che, la casa di Gorizia finì ingloriosamente nel 1500, ed in virtù d'antichi patti di successione, gli Absburgo ne impugnarono tosto i possessi con ben altro animo che non fosse quello dei loro deboli antecessori. La Casa d'Austria, infatti, non soltanto disconobbe i legami che univano il Goriziano al Friuli, ma rievocò i diritti dell'Impero sugli antichi possessi della chiesa Aquileiese che la Repubblica Veneta si era appropriati nel 1420 e questa fu una delle cause precipue della lunga guerra fra l'imperatore e Venezia, durata dal 1508 al 1514. La pace di Worms sanzionò i confini fra le due potenze in lotta, attribuendo all'Impero Gorizia e Gradisca e l'alta valle dell'Isonzo fino a Caporetto ed alla chiusa di Plezzo, mentre il rimanente Friuli, compreso Monfalcone, apparteneva a Venezia; ma la Casa d'Austria non se ne accontentò e di lì a poco occupò anche Aquileia, che il trattato aveva riconosciuto come possesso del Patriarca.

Gorizia era così passata definitivamente sotto la signoria Austriaca. Si deve ritenere per questo che, dinanzi al diritto pubblico dell'epoca, il Goriziano s'intendesse staccato dall'Italia? La Casa d'Austria ebbe nella penisola altri possessi che pure, per tale circostanza, non vennero affatto aggregati al regno Tedesco; il dubbio perciò è legittimo. Io penso che la risposta debba essere negativa almeno per il periodo che corre dalla pace di Worms al 1602, anno nel quale l'Imperatore Ferdinando II, unì la contea all'Impero Germanico. Anche quest'atto, cosi tardivo, sembra, però, viziato nei suoi fondamenti, perché Ferdinando dichiara d'aggregare i Goriziani «quali veri antichi tedeschi», mentre dai documente risulta che una tale trasformazione etnografica del Friuli orientale esisteva soltanto nei giudizi della Cancelleria imperiale o nei desideri di qualche nobile desideroso d'appartenere al sacro Romano Impero. Di che razza di Tedeschi si trattasse ce lo dice Carlo VI, il quale nel 1732 dovette prescrivere ai capitani imperiali di Gorizia, di Gradisca e di Trieste d'adoperarsi affinchè il popolo «non canzonasse i forestieri che parlavano Tedesco».

Abbiamo parlato di Trieste. Quanto a Trieste ed all'Istria nessun dubbio può accadere sull'antica loro appartenenza al regno Italico; esse sono compresi nel confine della Venezia quale fu riconosciuto fino al principio del secolo XIX dalla stessa Cancelleria imperiale. Abbiamo già ricordato come i diplomi degli Imperatori dei secoli X-XIII considerino Trieste e l'Istria quali provincie del Regno Italico. Altri documenti confermano esplicitamente questa indicazione. Benchè l'Istria fosse assoggettata, in certi periodi, durante il secolo XI, ai Margravi che dominavano anche nella Carniola e nella Carinzia, il nesso del regno Italico non fu mai posto in dubbio; così il diploma del Vescovo di Parenzo, Sigimbaldo, del 1014, ricorda all'inizio, secondo lo stile dell'epoca, l'imperatore regnante Enrico II «anno imperii eius hic in Italia secundo» (BENUSSI, Nel Medioevo (Parenzo, 1897), pag. 408, n. 240.). 

Dal principio del secolo XIII l'Istria passò ai patriarchi Aquileiesi e per lungo tempo essa e Trieste formarono tutt'uno col Friuli. Poi Venezia estese, a poco a poco, la sua signoria sui porti Istriani e nel corso dei secoli XIV-XV divenne padrona di tutta la piccola penisola, fatta eccezione per un minuscolo territorio interno, la contea di Pisino, che era stata concessa in feudo dai vescovi Parentini ai conti di Gorizia era poi passata, per eredità, ai duchi d'Austria (BENUSSI (op. cit., 428) ricorda un documento del 1368, nel quale il Vescovo di Parenzo infeuda al conte di Gorizia Pisino, Visignano, Montona, cioè le terre che formano parte della così detta contea d'Istria).

L'Istria rimase Veneziana sino al 1797, e fu soltanto la caduta della Repubblica che la pose, dopo le turbinose vicende Napoleoniche, in mano all'Austria.

Quanto a Trieste, essa cadde, è vero, sin dal 1382, in potere del duca, ma da questo non si può affatto dedurre che si intendesse sottratta all'Italia (Quanto alla stessa dedizione del 1382. è molto dubbio che essa sia stata spontanea, come ho osservato nel mio articolo. La dedizione di Trieste, nel Resto del Carlino di Bologna dell'11 febbraio 1915: sulla storia dei rapporti di Trieste coll'Italia son da vedere i notevoli articoli di A. TAMARO, nel Corriere della Sera). 

Erano i tempi nei quali i nostri Comuni amavano chiamare signori d'oltr'Alpe a tutelarli contro le minacce d'altre città e di principi limitrofi. In quel torno il duca d'Austria era signore di Treviso, di Feltre, di Belluno, tutte città che s'erano poste sotto la sua protezione senza punto pensare di staccarsi per questo dall'Italia e di cadere nella cerchia del regno Germanico. Non v'ha dubbio che lo stesso sia avvenuto di Trieste. I documenti Triestini sono espliciti su questo punto. Nel 1485 un documento asserisce che la città era soggetta «imperatoribus qui tunc in Italia dominabantur». Nel 1524 essa si opponeva risolutamente all'introduzione della lingua Tedesca negli atti ufficiali, dichiarando che Trieste è nei confini d'Italia e che i suoi cittadini hanno, come propria, la lingua Italiana (Tolgo queste attestazioni dal memorando discorso Per l'università italiana a Trieste pronunziato da ATTILIO Hortis alla Camera dei deputati di Vienna il 16 marzo 1902 (Trieste, 1902), pag. 10 e seg. — Tale mirabile lotta di Trieste contro il Governo arciducale e gli Stati della Carniola è da raffrontare con quella combattuta, in quel torno, da Rovereto contro il conte del Tirolo per gli stessi scopi: ved, nell'archivio Storico per Trieste, ecc., III. 72 e seg. i documenti pubblicati dal Morandi). 

Soltanto nel 1818 l'Austria pensò di aggregare Trieste alla confederazione Germanica, che s'era sostituita all'Impero spazzato dalla tempesta Napoleonica. L'aggregazione abbracciava tutte le provincie Italiane acquisite dall'Austria nel 1815, ad eccezione dell'Istria, e partiva dal presupposto che tali provincie avessero appartenuto all'antico impero (Nella Confederazione germanica del 1815 entrarono, oltre gli Stati minori, l'Austria e la Prussia con tutte le posessioni... che avevano anticamente appartenuto all'Impero germanico. Del Regno prussiano rimasero fuori le provincie di Prussia e Posen e il principato di Neuemberg. — Vedere SCHRÖDER, op. cit., pag. 879, n. 2). 

Presupposto fallace per due motivi:

anzitutto, perché alcuni territori come Trieste, Monfalcone, Grado non erano mai stati aggregati a quello Stato, e in secondo luogo perché la Confederazione Germanica aveva un carattere strettamente nazionale che l'impero antico non poteva avere, composto com'era di tanti elementi diversi. Tale aggregazione, dunque, mutava profondamente lo stato preesistente al quale pretendeva richiamarsi, e si deve considerare come un atto del tutto arbitrario (Nella costituzione della Confederazione germanica culmina la tendenza, che già si era manifestata nei scoli precedenti, di confondere i diritti spettanti all'Impero romano-germanico, con quelli del Regno tedesco. Un esempio delle conseguenze di questo modo d'agire lo si ha nelle vicende delle provincie borgognone. Queste formavano parte del Regno di Borgogna, che era affatto separato, ancora nel secolo XII. dal Regno tedesco, benchè formasse parte dell'Impero. Sul finire del Quattrocento Massimiliano I d'Austria sposò Maria di Borgogna e venne così in possesso di quelle provincie; nel Cinquecento ne vediamo formato il a «Reichskreis» di Borgogna, che abbracciava, come s'è detto, il Lassemburgo, la Franca Contea e la Fiandra. Nel 1815, su queste basi, il Lussemburgo fu aggregato alla confederazione germanica!)

Abbiamo così esaminato il lato esteriore del problema e l'esame delle fonti ci ha dimostrato come il legame fra le estreme provincie della Venezia ed il Regno Italico non sia mai stato spezzato. Certamente, quelle provincie si trovarono in possesso di dinastie straniere, ma questo non poteva rompere l'unità del regno Italico, come non ruppe l'unità del regno Germanico il fatto che i re d'Inghilterra possedevano il reame d'Annover e per tal motivo facevano parte della dieta Tedesca.

Se questo è il responso delle fonti quanto al legame formale, non diverso è quello che riguarda il problema dell'indole del diritto pubblico e privato, un problema più profondo che interessa la natura stessa del popolo. Del resto, è ben giustificato che sia così, poiché la vita giuridica non è che una faccia del poliedro della vita nazionale, e se l'architettura, la pittura, la poesia, la formazione sociale delie provincie estreme della Venezia sono e furono nei secoli, come ognun sa, profondamente Italiane, non diversa poteva essere la vita del diritto.

Fu gia osservato, ad esempio, come il quadro della società feudale che i documenti Trentini dei secoli XII e XIII ci presentano, risponda esattamente ai lineamenti delle rimanenti provincie Venete (Ved, per ciò, la recente memoria di SALVIOLI. L'italianità di Trento nel suo diritto medioevale, nella Ric. italiana di Sociologia, XIX. 328 e seg (Roma, 1915). Egli fonda in sua disamina sopra tutto sul codice Wangiano): baroni liberi, polenti ministeriali, una bassa feudalità costituita dalle masnade, una serie di feudi esclusivamente amministrativi, tutto ciò ci richiama allorganismo feudale del patriarcato Aquileiese o del vescovado di Treviso.

E come in Friuli, anche nel Trentino, i Comuni riescono ad aprirsi la via con difficoltà, perché accanto ai magistrati elettivi stanno sempre, come ampia giurisdizione, gli ufficiali del Vescovo. Di questa dura lotta, tutta italiana, troviamo le traccie nei più antichi statuti del Trentino, dove si protesta contro la «mala consuetudo» che il Vescovo succedesse nei beni di coloro che fossero morti senza figli, escludendo così gli altri parenti (Statuti di Rovereto (1425-1620), con una introduzione di TOMASO GAR (Trento, 1859), г. 70. — La parte più antica di questi statuti riproduce come fu già avvertito dal Gar, pag. xv, la redazione statutaria di Trento all'inizio del secolo XIV; il Voltelini li attribuisce al 1303-1306)

Evidentemente, si tratta di antichi livellari che vanno trasformandosi in proprietari, ed è caratteristico che i Comuni Trentini lottino contro i signori feudali per liberare queste proprietà dalle restrizioni alla disposizione e dagli oneri che le aggravano, precisamente come avviene nei Comuni Toscani ed Emiliani. Anche nel complesso delle disposizioni, gli statuti del Trentino dimostrano la loro stretta parentela cogli altri Veneti: fu dimostrato come buona parte delle rubriche dei più antichi statuti di Trento e di Rovereto abbia affinità letterali e sostanziali con gli statuti di Vicenza e di Verona (Lo dimostrò il VOLTELINI, Die älteste Redaction cit., pag. 175 e seguenti). E quasi ad affermare solennemente questa Italianità, su di un esemplare degli Statuti di Trento del 1425, conservato ora ad Innsbruck (È il cod. 470. capsa 4. n. 32. dell'Archivio luogotenenziale di Innsbruck; la notizia fu data al Voltelini dal Farinelli (ved. VOLTELINI, op. cit.. pag. 191 e 192. n. 1), troviamo, non senza commozione, trascritti da una mano del secolo XV la terzina Dantesca:

Tu proverai siccome sa di sale 
lo pane altrui o com'è duro calle 
lo seondere e il salir per l'altrui scale.

Sembra che nei tempi felici della libertà, l'ignoto giurista Tridentino antivedesse i mesti giorni del futuro servaggio!

Più interessanti ancora per il nostro argomento, sono i lineamenti del diritto pubblico dell'Istria medievale. Qui non soltanto sono apertissimi, come nel Trentino, i rapporti colla rinascente Venezia, ma son chiare le venerande vestigia di Roma, meglio forse che in ogni altra regione d'Italia. I documenti Istriani ci mostrano come sia ininterrotta la catena che unisce gli istituti del basso Impero e gli ordinamenti Bizantini colla organizzazione provinciale e cittadina dell'Istria nel secolo IX e X, e poi coi Comuni del XII e XIII (La dimostrazione fu data dal MAYER nel suo importantissimo studio. Die istrich-dalmatische Munizipalverfassung, nella Zeitschrift der Savigny Stiftung, g-A, XXIV, pag. 211 e seg). E dove non sopravvivono queste antiche traccie di Romanità, vediamo lineamenti affatto consimili a quelli dell'Italia superiore. Così la costituzione dei magnati dell'Istria del secolo XI per il mantenimento della pace riproduce le norme penali del libro Pavese (La «pax» fu pubblicata dal KANDLER nel Cod. diplomatica istriana e poi nei M. G. H. Constitutiones, I, 610. L'estensione del duello giudiziario, In divisione dei beni del giustiziato fra il fisco ed i parenti ci ricordano i capitoli di Ottone I e di Enrico II del Liber Pupiensis), e più tardi la lotta dei Comuni Istriani contro il Patriarca Aquileiese per ottenere libertà d'eleggersi consoli e podestà ha carattere assolutamente Italiano. La costituzione comunale di Trieste, quale risulta dai suoi antichi Statuti, rientra perfettamente nel quadro degli altri nostri Comuni: l'arrengo, il maggior consiglio, il podestà, i rettori, i procuratori ed i sindaci del Comune, son tutti istituti che noi troviamo cogli identici lineamenti nella maggior parte delle città Italiane. Più tardi i Comuni Istriani entrano completamente nell'orbita di Venezia, ed a chi ha ammirato il palazzo di Capodistria, e i Carpacci ed i Vivarini delle chiese di Pirano e di Parenzo, od ha sentito fiorire sul labbro del popolano d'Isola o d'Albona l'arguzia Goldoniana, non farà meraviglia di vedere come nello statuto di Rovigno le pene siano comminate, «come nell'alma città di Venetia et per ogni loco si osserva». (Statuti municipali di Rovigno (Trieste, 1851), I. III, с. 51).

Il diritto privato non ha minori caratteristiche prettamente Italiche del diritto pubblico. Nei documenti Trentini del secolo XIII avvertiamo questo fatto:

certi istituti Germanici, del resto largamente diffusi anche in Italia, come la Morgengabe, son ricordati soltanto nei contratti celebrati fra i nobili; il rimanente della popolazione regola i propri rapporti patrimoniali colla dote Romana e colla corrispondente donazione «propter nuptias». Erano dunque i feudali venuti dal di fuori al seguito dei Vescovi in buona parte d'origine Tedesca che mantenevano in uso, fra loro, gli istituti Germanici; il popolo si regolava, invece, secondo il diritto Romano. Ciò non può meravigliare, quando pensiamo alle numerose professioni di diritto Romano che si trovano nei documenti Tridentini dell'epoca più antica. Così l'influenza delle scuole che rinnovarono lo studio dei testi Romanistici vi si potè espandere con somma rapidità, e nei documenti dell'inizio del secolo XIII le formule sono perfettamente corrispondenti a quelle dei documenti notarili dell'Istria superiore e media.

Negli statuti dei secoli XIII e XIV vediamo regolata la successione in modo del tutto conforme ai dettami Giustinianei; si parla d'azioni personali, reali, utili, dirette e si distingue l'azione penale dall'«actio civilis» spettante al danneggiato, come si potrebbe fare nelle regioni dove più si sentì l'influsso delle scuole Romanistiche (Statuts di Rovereto cit., r. 80). Nella stessa Gorizia, che pure ebbe ad ospitare una serie di principi rozzi e non ad altro intenti che a guerre ed a rapine, la prevalenza del diritto romano è indubbia. Nel duecento vediamo ricordati dai documenti istituti intieramente Romanistici, come il costituto possessorio, il beneficium divisionis, l'exceptio non numeratae pecuniar, e così via (Lo si può vedere nei Documenti goriziani pubblicati da VINCENZO IOPPI nell'Archeografo triestino, XI seg. (Trieste, 1885 e seg.), e nei Documenti feiulani e goriziani diti dallo Swida, pure nell'Archeografo, XIV (Trieste, 1888). Gli stessi conti della linea più propriamente Goriziana regolano i rapporti patrimoniali del matrimonio colla dote, mentre nei contratti della linea Tirolese troviamo la Morgengabe (Ved. CORONINI, Tentamen Genealogico-Cronologicum-promovendae serici comitum et rerum Goritiae, Viennae, 1752, pagg. 173 206).

D'altronde, i notai della casa contale provenivano sovente dal Friuli patriarcale, dove il diritto romano trionfava da molto tempo sui resti del diritto longobardo. L'unita giuridica della regione friulana così formata praticamente, ebbe poi un riconoscimento ufficiale quando i conti ordinarono che fossero osservate anche nel Goriziano le costituzioni provinciali approvate nel 1366 dal Parlamento friulano.

Il quadro Romanistico diviene poi ancora più intenso quando da queste regioni passiamo all'Istria, e ciò è ben naturale perche quest'ultima non fu mai occupata dai Longobardi, e pur essendo stata più tardi assoggettata dai Franchi non ebbe a subire le vaste colonizzazioni feudali che portarono molti elementi Germanici nelI'Italia settentrionale e nella Toscana. I documenti Istriani dal secolo IX al XII ci rivelano un ordinamento della proprietà fondiaria simile a quello delle regioni più romanizzanti d'Italia (Descrissi tali lineamenti nelle mie Note ai documenti istriani di diritto privato dei secoli IX-XII, nella Miscellanea di studi in onore di Attilio Hortis (Trieste, 1900), pag. 179 segg.)

Caratteristica è pure la mancanza, in tali atti, d'ogni traccia d'istituti Germanici come la Vadia e il Launegildo che pur ebbero tanta diffusione nell'Italia settentrionale e nella Toscana. L'organizzazione della famiglia s'impernia sulla fraterna compagnia e sulla comunione fra i coniugi, due istituti, che troviamo pure in alcune regioni romaniche come la Sicilia e la Sardegna e son certamente dovute ad una formazione giuridica volgare delle plebi Romane.

Se queste sono le caratteristiche del diritto privato Istriano in un'età nella quale sono ancora così forti, in quasi tutta l'Italia le traccie dell'influenza Germanica, è facile comprendere quale dovesse essere lo svolgimento giuridico dell'Istria più tardi quando, attraverso il Friuli, prima, e Venezia, poi, le pervennero i dettami delle grandi senole romanistiche Italiane. Così vediamo, negli statuti Istriani, Romani i termini della prescrizione e dell'età maggiore, la potestà paterna e l'emancipazione, troviamo la donna libera da restrizioni patrimoniali, e nella successione vediamo mancare quella spiccata preferenza per gli agnati che pur si trova in tanti statuti d'altre regioni Italiane (Ved. Statuti di Rovigno cit., libro 11, г 419. 33. 54, e Stututi di Parenzo (Trieste, 1846), 11, c. 81.)

Tutto ci parla, dunque, di Roma e dell'Italia, in queste provincie che, pure, per la loro posizione geografica furono costrette a subire tante volte l'assalto barbarico e poi, più tardi, lingordigia dei principi che se le disputavano come prede agognate. Come le arti vi si affinarono colla materna dolcezza Italica che ci parla nelle splendide cattedrali, nei palazzi, nelle tele, nelle sculture delle città Istriane e Trentine, come le lettere vi trovarono elettissimi interpreti quali a Capodistria il Vergerio, il Muzio, il Carli, e a Rovereto il Tartarotti, e poi più oltre il Rosmini, il Maffei, il Prati, e tanti altri, così anche la coscienza giuridica ebbe uno svolgimento tutto italiano. Come gli altri fratelli della penisola, Istriani, Goriziani, Trentini conservarono nel profondo medioevo gli istituti della romanità e quando la procella Germanica si fu dissipata e gli studi rifiorenti diffusero nell'Europa ammirante le parole solenni degli Imperatori ed i raziocinii dei grandi giuristi Romani, essi pure parteciparono a quell'opera eccelsa di rinnovamento civile che per l'Italia sarà sempre ragione di gloria, una gloria che i secoli potranno bensì accrescere ma non offuscare. Perché non dobbiamo dimenticare che settecento anni or sono, quei nostri giuristi avevano saputo fissare alcuni principii dei quali, invano, oggi, in questa terribile convulsione europea, chiediamo, in nome della giustizia, un'onesta applicazione.

Avevano essi stabilito che i singoli cittadini non dovessero esser ritenuti responsabili di quanto potesse venir addebétato alla comunità, ed ogni giorno vediamo invece popolazioni innocenti perseguitate nella vita e negli averi per le supposte colpe dei loro governi; avevano stabilito che l'innocente non debba esser mai punito in luogo del colpevole, ed ogni giorno infelici ostaggi perdono la vita per fatti altrui molte volte neppur bene accertati. Nulla v'ha di più angoscioso del veder distruggere il patrimonio più sacro dell'umanità, quelle idee che rappresentavano la lenta conquista della civiltà sulla barbarie, ed è veramente un'ironia feroce del destino che i figli di provincie, Italiane per antiche storiche tradizioni, per razza, per ragioni geografiche, debbano combattere nelle file d'eserciti che muovono in nome d'una civiltà nutrita d'uno spirito così profondamente diverso ed opposto alla «humanitas» vanto della gente latina.

Ma dalla tenebra orrenda sorgerà poi la luce anche per quei nostri fratelli infelici; il sangue degli eroi ed il pianto delle madri saranno olocausto che ai popoli d'Europa aprirà di nuovo le vie al progresso civile; al regno della forza succederà il regno della giustizia, ed al sanguinante Edipo perseguitato dalle Furie vendicatrici, Pallade Atena aprirà ancora una volta il suo tempio, e la sotto lo scudo delle leggi immortali della giustizia troverà alfine riposo l'umanità dolorante e placata.

P. S. LEICHT.

domenica 29 settembre 2024

Zara non parlò mai la lingua slava: mito di papa Alessandro III nel 1177

Come in tutti i testi sorti in periodi di transizione, o provenienti da regioni dove sono in lotta dei linguaggi, così anche nei nostri documenti si riscontra una maggiore o minore purezza, o meglio una maggiore o minore vicinanza all'uno o all'altro di questi linguaggi, al veneto o al dalmatico nel caso nostro. Le cause determinanti queste varietà possono essere svariatissime: diversità di educazione che i parlanti o gli scriventi hanno ricevuto, natura dell'ambiente dove sono nati e vissuti, persone che praticano o hanno praticate, relazioni che mantengono e così via. Per questo, nel commento storico e paleografico che facciamo seguire ad ogni documento abbiamo tentato tutte le vie e ci siamo valsi di ogni possibile sussidio della scienza storica e paleografica, non solo per determinare il grado di cultura e gli studi percorsi dai singoli scrittori, ma abbiamo anche tentato di identificarli o almeno di stabilire l'ambiente da cui provennero e quello in cui vissero e operarono.

Non spetta a noi giudicare del maggior o minore grado di purezza dell'uno o dell'altro dei nostri documenti, nei riguardi del volgare dalmatico. Ci basti constatare che i notai transmarini non sempre capivano questo volgare o se lo capivano non sempre arrivavano a rendersi conto della sua natura e della sua origine. Abbiamo veduto discorrendo del documento n.ro VI, come il notaio Pietro da Sarzana non ne intendesse parecchie parole. Ancora più significativo è il caso offertoci da un altro notaio: da Giovanni da Ancona che, per quanto fosse a Spalato già da una ventina d'anni, prende per slave parole dalmatiche. Registrando un inventario del 31 luglio 1359, che molto probabilmente gli fu presentato in volgare, egli, tra altro, annota: «Una conca que dicitur Sclauonice mesiur». Eppure mesiur è parola dalmatica, conservatasi fin quasi ai nostri giorni nel veglioto. Si rinnova così a Spalato l'impressione che il dalmatico faceva ad italiani della penisola che venivano a Ragusa e a Zara. A Ragusa nel 1387 un umanista italiano, appena venuto, Giovanni da Ravenna, si lagnava « per interpretem agenda omnia », ma nel 1440 un altro umanista, Filippo de Diversis da Lucca, dopo sei anni di permanenza, era in grado di specificare che i ragusei «latine loquuntur, non autem sclaue, nec tamen nostro idiomate Italico . . . sed quodam alio uulgari idiomate eis speciali, quod a nobis intelllgi nequit nisi aliqualis, imo magna ejusmodi loquendi ha bea tur saltem audiendo consuetudo».

A Zara si pretende accadesse lo stesso nel 1177, quando Alessando lll, nel suo viaggio da Vasto a Venezia, vi si fermò per quattro giorni. Secondo una redazione del 1360 degli «Acta Alexandri pontificis», attribuita al cardinale Nicola Roselli, il papa sarebbe stato accolto a Zara con grandissimo onore, e condotto dal clero e dal popolo nella cattedrale « immensis laudibus et canticis altissime resonantibus in eorum Sclavica lingua». Il Brunelli, pur dubitando della esattezza e veridicità di questa redazione degli « Acta », afferma tuttavia « che il volgare neolatino di Dalmazia poteva essere detto, da chi lo udiva per la prima volta, lingua schiava, perchè sorto in paese che gl'Italiani chiamano Schiavonia ». E il Bartoli (Das Dalmatische cit., vol. I, pag. 190 sgg.), riprendendo le argomentazioni del Brunelli, crede che canti dalmatici furono presi per slavi. Congetture veramente acute e giustissime tutte e due dal punto di vista filologico, ma inopportune e fatte a vuoto perchè i canti, non importa se slavi o dalmatici, non esistettero mai che nella fantasia del rimaneggiatore trecentesco degli «Acta di Alessandro III ».

Fonte: Atti e memorie della Società dalmata di storia patria, 1927, pp. 70-71


Vedasi il luogo succitato della Storia del Brunelli, dove son messi nel debito rilievo gli anacronismi nei quali incorse il rimaneggiatore trecentesco. Per lui Zara è posta « in capite regni Hungarie », cosa che va benissimo per il 1360, ma non per il 1177 nè per tutto il duecento, nè per tutta la prima metà del trecento. Del resto, già il Muratori, ebbe modo di notare la poca attendibilità dell'opera del Roselli.


Contrariamente a quello della lapide, il testo del Baronio può essere inteso anche in senso più ampio, cioè che i canti "illirici" non provenissero tanto dal clero officiante quanto da una parte della folla di popolo che si assiepava lungo il tragitto papale.

Tra questo popolo vi era anche, ovviamente, la gente del contado slavo affluita in città per la grande, inattesa occasione.

Ce lo conferma una pubblicazione ufficiosa austriaca, che esclude canti liturgici considerando solo canzoni (Lieder): “Allorché, nel 1177, papa Alessandro III visitò la Dalmazia e le isole dalmate, il popolo si riversò massicciamente nella città di Zara, ricevette il Papa in maniera. indescrivibile cantando nel contempo canzoni croate con tanta potenza ed entusiasmo da far tremare l'aria stessa e la città ne rintronava tutta”.

Da dove siano derivate le notizie sugli effetti dei canti, non interessa: quello che invece interessa rilevare in ogni caso è il fatto che si trattava di gente foranea, come viene ben sottolineato dall'autore.

Non si dimentichi che una situazione del tutto analoga, si era verificata agli albori del Mille quando il doge Pietro II Orseolo passò con la flotta veneziana in Istria e Dalmazia a rinfrancare le città latine molestate dagli Slavi e accoglieme la dedizione.

Giunto il Doge a Ossero “la più vicina città della Dalmazia, ivi accorsero non solo i cittadini, sì eziandio gente da tutti i paesi circonvicini, tanto de' Romani quanto degli Slavi, e prestarono al Principe il giuramento di fedeltà”.

Anche in tale occasione è logico ritenere che gli Slavi parlassero e cantassero nella loro lingua, mentre i cittadini e i Romani si saranno di certo espressi in latino o tutt'al più in dalmatico. Fu Matteo Bartoli a confermare che i canti in lingua schiavona non potevano esser stati cantati che da una massa di contadini calati a Zara dalle campagne vicine per implorare la benedizione papale e assistere a un avvenimento che nella storia zaratina e in quella dalmata in generale può dirsi ancor oggi veramente unico“.

Tanta deve essere stata la massa slava calata in città per questa occasione, che i canti slavi potevano aver se non sopraffatto quelli latini dei cittadini ma almeno colpito l'attenzione dei cronisti o meglio solo di alcuni cronisti seriori.

Si deve ancora ricordare e sottolineare che né la cronaca di Romulado né quella bolognese di s. Luca citata dal Farlati né infine quella di Simone Begna parlano di questi canti schiavoni. Tanto che lo storico Giuseppe Praga ritenne di poter affermare che “i canti, non importa se slavi o dalmatici, non esistettero mai che nella fantasia del rimaneggiatore trecentesco degli Acta di Alessandro III”. Ricordava inoltre il Praga i documenti che attestano come i rettori e gli umanisti del resto d'Italia incontrassero difficoltà nel comprendere il dalmatico, specie in Ragusa, anche dopo permanenza di anni in Dalmazia nel Trecento.

Abbiamo fin qui soffermato la nostra attenzione sui “cantici". Ma la frase del Baronio parla anche di “laudi”, mentre è significativo che la lapide del 1822 non ne faccia alcun cenno. Non è questo il luogo e il tempo di parlare delle acclamazioni, ossia delle laudes che si cantavano in Zara e di cui vi è traccia, databile al 1105, intitolata Laus que in Pascha e Natalis die post Evangelium diciturm.

Che in Zara si cantassero, forse anche in greco, le acclamazioni all'Imperatore bizantino è attestato.

Pochi anni dopo questo nostro 1177, nei patti che Venezia dettò alla Zara distrutta dalla IV Crociata nel 1204, si legge che "Clerus autem bis in anno in nativitate domini et in pascha resurrectionis laudes cantabunt in maiori ecclesia solempniter (sic) domino duci et domino patriarche atque archiepiscopo suo et comiti omni anno, propter quod benedictionem recipient consuetam".

Le laudi si cantavano in latino, come è attestato dai documenti pubblicati.

Non ci dilungheremo su questo argomento, dato che sembra pacifico per chiunque che in occasione della venuta di papa Alessandro III in Zara, se lodi vennero cantate a gloria del Pontefice e a invocazione della benedizione divina, esse furono esclusivamente in latino.

In materia non può esservi alcun dubbio.

Fonte: Rivista dalmatica, 1994, pp. 27-29


Papa Alessandro III a Zara nel 1177 e il recente Sinodo africano a Roma

Abbiamo avuto recentemente occasione di pubblicare una sintesi storica sulla visita di papa Alessandro III a Zara nel lontano 1177.

Rilevavamo come le acclamazioni in lingua slava che accolsero il Pontefice non erano da attribuire - come vuole la storiografia croata - al clero e al popolo di Zara, ma soltanto ai foranei accorsi in città per la straordinaria occasione.

E annotavamo: Se ci riferiamo ai giorni nostri, ancor oggi in occasione delle grandi cerimonie papali in Roma, le migliaia di pellegrini che vi giungono da paesi lontani e stranieri, in particolare dalla Polonia, cantano in piazza s. Pietro inni nella propria lingua, e la cosa viene notata subito dai mass-media senza che per questo si possa affermare che Roma e i suoi abitanti non camino in italiano o che siano addirittura dei polacchi“.

Non potevamo allora immaginare che a pochi mesi di distanza, nella massima basilica della Cattolicità si sarebbe tenuto un Sinodo della chiesa d'Africa e sulla sedia papale, essendo assente l'augusta persona del Pontefice felicemente regnante, sarebbe stato assiso il cardinale nigeriano Arinze.

Né potevamo immaginare che, come scrissero i giomali:

Il «tam tam», il suono dei tamburi, gli «ulelo» - gridi di gioia sopra le invocazioni liturgiche - sono echeggiati, ieri mattina, in San Pietro per il rito conclusivo delle sessioni romane del Sinodo africano.

Al termine del rito, come nella Messa di inizio alla fine di aprile, danze ritmate attorno all'altare da ragazze e giovani, indossanti tuniche con disegni a pelle di leopardo.

Al termine, in segno di gioia, si è scatenata una danza alla quale, nei pressi del baldacchino del Bernini, hanno partecipato suore, ragazze e giovani sacerdoti in ritmiche muovenze e battere di mani“.

La presenza, in Roma, di riti, danze e canti africani non fa certo dell'Urbe una città africana.

Come canti in slavo non fanno di Zara - nel 1177 - una città slava e tanto meno croata.

Fonte: Rivista dalmatica, 1994, p. 205


Il Milinović, il Jagic, il Lucianović ed altri, partendo da un passo erroneo del Baronio che tratta uno dei tanti episodi della storia dalmata, del Baronio fanno delle deduzioni che non possono passare inosservate, nè devono essere trascurate.

Secondo il Baronio nei suoi Annali Ecclesiastici, papa Alessandro III durante il suo viaggio da Ancona a Venezia fu trasportato da una bufera in Dalmazia. Viaggiando lungo la costa dalmata si fermò a Zara dove ebbe accoglienze entusiastiche; portato da un bianco destriero ed accompagnato processionalmente il papa si recò alla chiesa di S. Anastasia, mentre immense lodi e cantici in lingua slava altamente risuonavano (immensis laudibus et canticis altissime resonantibus in eorum sclavica lingua), ecc.

Di questo passo del Baronio i suddetti autori si valgono per asserire "come specialmente la nostra Zara emerga nella diffusa dolce armonia del paleoslavo" oppure che "se Zara, ove sussisteva l'elemento romano, usava pure la liturgia slava tanto più è certo che la stessa veniva adoperata nei luoghi di contado, rimasti sempre lontani da qualunque influenza straniera", ecc.

Tutto questo andrebbe bene se il Baronio fosse una fonte impeccabile e se del suo passo non si avesse ragione di dubitare! Ma qui è proprio il caso di soffermarsi! L'episodio di Alessandro III che tratta il Baronio è stato trattato anche dal Sanudo, dalla cronaca di Romualdo di Guarna, da Angelo Zon, da Tommaso Arcidiacono, da Simeone Begna da Zara, ed in parecchi punti non ha l'aspetto che il Baronio gli diede, sicchè ben a ragione si dubitò trattarsi di un lavoro posteriormente rimaneggiato.

Inoltre un errore madornale priva il passo del Baronio di ogni autorità e validità: parlando di Zara, egli afferma che essa è "in capite Hungariae regni" (che si trova in capo al regno d'Ungheria), mentre la storia sostiene che nel 1177, – anno della venuta di Alessandro – Zara era governata da Ruggero Morosini e dipendeva da Venezia e non dall'Ungheria!

Infine anche se il suddetto passo fosse realmente vero e valido, non credo che per ciò stesso si possa venire a quelle conclusioni che sembrano così naturali al Milinović, Lucianović, ecc.

I famosi "cantici in lingua slava", osserva il Bartoli, "potevano essere stati cantati da una massa di ammalati, mendicanti o contadini che dalle campagne vicine calarono a Zara per implorare la benedizione papale ed assistere ad un avvenimento che nella storia zaratina ed in quella dalmata può dirsi veramente raro. E tanta deve esser stata la massa slava calata in città per questa occasione che i cantici slavi avranno sopraffatto quelli latini degli abitanti di Zara.

Il volere ammettere che i veri zaratini abbiano cantato in croato sarebbe un'assurdità storica a cui si opporrebbe anche lo stesso Diplomatario (Codex Diplomaticus) dello Smičiklas. Del resto, d'accordo col Bartoli, non escluderei che qui sia d'un equivoco, cioè che si sia confuso il dalmatico predominante allora in Dalmazia collo "schiavo", perchè si tratta di un avvenimento successo in terre che allora confinavano direttamente con la Schiavonia, cioè la terra ove si parlava lo "schiavo”.

Se il dalmatico fu confuso con lo slavo dallo stesso Giustiniano, forse anche dal francese Cassa, nonchè da parecchi Veneziani, io non troverei difficoltà nell'ammettere che anche nel 1177 si sia commesso lo stesso errore.

In ogni caso, se veramente dovesse constare che in quell'occasione si cantò in "slavo” a Zara, non so perché e come si voglia subito ricorrere al paleoslavo, ormai arcaico e difficile, senza ammettere in prima linea l'esistenza della parlata volgare, intendo dire della lingua nazionale, viva, croata, che in occasioni solenni di giubilo ed esultanza avrà echeggiato rudemente, ma sinceramente dalle masse del contado.

Fonte: Rivista dalmatica, Anno VII., Fasc. 1, 1923, pp. 18-19