Utopiche promesse: II Movimento Popolare di Liberazione
Osvaldo Ramous nel suo romanzo offre delucidazioni dei diversi equivoci venutisi a creare nell'immediato secondo dopoguerra, circa i diritti della popolazione italiana di Fiume, diventata in breve tempo una minoranza e il promesso, ma mancato, rispetto della lingua e cultura italiane. Nella lettera a Eraldo Miscia, Ramous spiega le ragioni e i motivi che lo indussero alla stesura del romanzo:
«Il cavallo di cartapesta (titolo più che ironico, amaro) non è nemmeno nelle intenzioni, un vero romanzo. lo l'ho scritto con lo scopo di rivelare lati sconosciuti della situazione storica che ha determinato l'attuale stato della mia città. Ho voluto rendere noti certi equivoci che sono ignorati da chi non li conosce per propria esperienza, e che furono determinanti per la sorte attuale di questa zona, sebbene la mia posizione non sia la più agevole per esprimere certe cose.»
Ovviamente, il governo comunista jugoslavo, una volta giunto al potere, venne meno alle utopiche promesse garantite, specie quelle riguardanti il futuro destino della città di San Vito. (I comunisti, pur di far aderire un maggior numero di fiumani alla causa della lotta popolare di liberazione, garantivano il mantenimento di un'ampia autonomia della città a guerra conclusa:
«Noi non siamo degli imperialisti e non intendiamo prendere terre che non ci appartengono. Combattiamo per la libertà dei popoli e rispettiamo quindi la loro volontà. Sarà la popolazione dell'Istria e delle altre terre di confine a decidere del proprio destino. Nessuna prepotenza e nessuna pressione: tutto sarà fatto nel segno della liberta. (...) L'autonomia amministrativa cittadina di Fiume non può disturbare la nuova Jugoslavia, fondata sopra basi democratiche, e neppure un'autonomia ancora più larga di quella che aveva Fiume sotto l'Ungheria. In essa la lingua italiana potrà conservare quel posto che le vuole dare la maggioranza dei cittadini fiumani: Osvaldo Ramous, Il cavallo di cartapesta, cit., p. 177)»
Infatti, dopo l'armistizio italiano, firmato il 3 settembre 1943 a Cassibile ed entrato in vigore con il proclama del maresciallo Pietro Badoglio l'8 settembre, veniva proclamata dal Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale croato l'annessione di Zara, Fiume e dell'Istria alla futura Jugoslavia. Occorre precisare che tra i dieci e i quindici mila soldati italiani rimasti sul fronte balcanico si unirono al Movimento Popolare di Liberazione (MPL) jugoslavo mentre solo una parte di loro si schierarono a fianco dell'esercito nazista. Nonostante ciò, la componente italiana della Resistenza, poiché nata due anni dopo quella croata e slovena, non fu affatto coinvolta nelle trattative sui nuovi confini da stabilirsi a guerra finita. Infatti, stando a quanto rilevato da Stelli, "i Partiti comunisti croato e sloveno all'interno del MPL imposero rapidamente la loro egemonia con una politica di epurazione degli elementi italiani «sgraditi».
Non sorprende quindi il fatto che, già all'indomani dell'armistizio, si verificarono i primi casi di rivolte e insurrezioni popolari contro gli "elementi" fascisti, le quali assunsero piuttosto la forma di veri e propri eccidi, giudicando dalla loro sistematicità e brutalità dei metodi usati. Secondo la storiografia jugoslava, la causa principale di queste ribellioni brutali era l'oppressione della dittatura fascista esercitata nei confronti delle popolazioni croata e slovena nei territori annessi all'Italia, pertanto considerata una reazione spontanea e "naturale", quasi giustificata. Oggi, a più di mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale, quando l'argomento delle foibe non rappresenta più un tema-tabù, si è propensi a considerare le rivolte popolari del 1943, stando alle ricerche più recenti, una manifestazione del nazionalismo jugoslavo e preannuncio della furia epuratrice messa in atto, a guerra finita, dai comunisti titini.
(Ramous affronta l'argomento delle foibe e le sue presunte cause. Risulta significativo il dialogo tra i partigiani, Furio, Miljenko e Boris, dal quale traspare il rifiuto dello scrittore fiumano di considerare l'infoibamento degli italiani dell'Istria e di Fiume una conseguenza dell'oppressione fascista quanto piuttosto un atto barbarico attentamente pianificato dai comunisti titini... Bisogna abituarsi a tutto, se si vuol vincere. Una fucilazione è un atto di giustizia. (...) "Oggi, purtroppo, si combatte più con le fucilazioni che con le battaglie. Ce lo insegnano i tedeschi" disse Miljenko (...) "Ma quello che i tedeschi non sanno è che far fucilare agli altri è molto più utile che fucilare" riprese Boris. "È una specie di strategia che a noi riuscì magnificamente con gli italiani" (...) "Fu una cosa necessaria" continuò Boris. «Gli italiani, come tu stesso sai, non sono per natura dei guerrieri. In Jugoslavia, appena entrati, si comportavano come in casa loro. Trattavano la gente, soprattutto nelle campagne, come dei compaesani. Il guaio era che la popolazione ci stava. (...) Il fatto è che c'era sotto un equivoco, e che l'equivoco doveva essere, con qualsiasi mezzo, eliminato. Non si poteva mica permettere che la popolazione andasse a bracetto con gli occupatori! Ti pare? Se i soldati italiani non erano cattivi, bisognava costringere alla cattiveria i loro comandanti. Per arrivarci, si doveva mettere delle bombe sotto le caserme, far cadere i soldati in imboscate, fa saltare dei treni e rendere di tutto responsabile la popolazione" "Un sistema infallibile." commentoò Furio.»
«Difatti. Picchia e ripicchia, i comandi italiani furono costretti a ricorrere alle rappresaglie. Così lo stato d'animo della popolazione fu portato al punto giusto. "La guerra senza l'odio non la si fa. O almeno non la si vince." "Ora però la situazione è chiara" disse Miljenko. L'esercito italiano non c'è più. Molti italiani sono passati, e continuano a passare, nelle nostre file." "Quelli passati ai tedeschi. Con loro non c'è che una cosa da fare" concluse Boris. "Se ci capitano tra le mani, metterli al muro o buttarli nelle foibe." (Osvaldo Ramous. Il cavallo di cartapesta, cit., pp. 186-187.)»
La secolare autonomia fiumana
Le testimonianze sulla particolare autonomia di Fiume risalgono al XVI secolo, quando questa venne sancita giuridicamente dallo Statuto Fernandineo del 1530.
Tuttavia, la "questione fiumana" si complicò nella seconda metà del XVIII secolo. Con un Diploma del 14 febbraio 1776 Maria Teresa, erede al trono in quanto figlia dell'imperatore Carlo VI, cedette Fiume alla Croazia. Questa sua decisione venne accolta sfavorevolmente dalla Municipalità fiumana e quindi l'imperatrice, per aderire ai desideri dei fiumani e degli ungheresi, dovette modificare il diploma precedente e con un rescritto del 23 aprile 1779 enunciò l'annessione della città alla Corona di Santo Stefano. Con il Diploma del 1779 furono ricompensati gli interessi dei fiumani, venne confermato lo status della città quale "corpus separatum" incorporato direttamente all'Ungheria. Venne inoltre stabilita un'amministrazione cittadina libera e privilegiata, esclusa da ogni pretesa esterna. Nonostante i fiumani rivendicassero fermamente l'autonomia della propria città all'interno dell'Impero, il diploma teresiano diede origine a una lunga controversia storico-giuridica tra il non indipendente regno di Croazia e l'Ungheria e rappresentò, in realtà, "il nocciolo di tutti i problemi politici della città del periodo più recente." Infatti, i primi sostenevano che in base ai provvedimenti del Diploma, veniva concessa un'amministrazione privilegiata della città senza però alterarne la dipendenza politica mentre l'Ungheria affermava che Fiume facesse parte integrante della Corona di Santo Stefano in veste di "corpus separatum" e, come tale, ne era politicamente dipendente. Fiume rimase "corpo separato" dell'Ungheria, con brevi intervalli, fino alla metà del XIX secolo. Con i moti rivoluzionari del 1848 che cambiarono notevolmente il clima politico, la città di Fiume passa sotto il dominio croato.
Il "periodo croato"
Destinato a durare non più di due decenni, precisamente dal 1848 al 1868, il "periodo croato" ebbe inizio con l'occupazione della città da parte delle truppe del capitano Josip Bunjevaz in nome del bano Josip Jelačić. Quest'ultimo, rimasto fedele alla Corona d'Austria dopo la rivoluzione ungherese, mirava a creare un vasto "Stato Illirico" unendo la Croazia, la Dalmazia e la Slavonia. Questo stato comprendeva pure la zona del litorale liburnico compresa la città di Fiume quale capoluogo, considerata in effetti parte integrante della Croazia all'interno dell'Impero. (Ad ostacolare i piani del bano croato furono i fiumani che per custodire la tradizionale autonomia fondarono, nel 1848, la Commissione storica in base a un decreto della Municipalità fiumana con il compito di raccogliere la documentazione storica sull'autonomia di Fiume, dando cosi l'avvio alle prime sistematiche ricerche storiografiche circa le radici culturali della città sull'Eneo. Cfr. Giovanni Stelli, La storiografia fiumana e la tradizione dell'autonomia cittadina, in Fiume crocevia di popoli e culture, cit., pp. 109-110)
Opponendosi tenacemente all'annessione e temendo che quest'ultima avrebbe compromesso la privilegiata posizione di Fiume con gravi ripercussioni economiche e culturali, il Consiglio comunale inviò diverse proteste e petizioni all'imperatore affermando che "Fiume, sebbene dall'anno 1848, interinalmente unita alla Croazia, non si considerò mai parte integrante di questo regno al quale non appartenne mai, poiché prima della sua incorporazione all'Ungheria non aveva mai avuto con la Croazia relazione alcuna e formava un corpo autonomo".
Per conciliare le due parti contrastate, quella croata e ungherese, e per adempire ai desideri del Consiglio comunale di Fiume, l'imperatore fu costretto a trovare una soluzione. L'accordo venne raggiunto e codificato il 27 novembre 1868 con la nomina di una commissione mista ungaro-croato-fiumana mentre la città, secondo le esplicite richieste della Municipalità cittadina, venne riunita al Regno d'Ungheria. È doveroso precisare che l'accordo, considerato sin dall'inizio provvisorio, venne firmato solo dopo che la corte viennese falsificò il testo del controverso paragrafo 66, denominato dagli storici lo Straccetto fiumano, e lo incollò sopra quello originale. (Il paragrafo 66 dell'Accordo ungaro-croato nella versione originale ammetteva nei regni di Dalmazia, Croazia e Slavonia tutta la contea di Fiume, "inclusa fa città di Buccari e il suo distretto [...] ad eccezione della città di Fiume e del suo distretto, riguardo alla quale i comitati dei regni di entrambi gli Stati non sono riusciti a raggiungere un accordo." Lo Stracetto fiumano invece dichiarava che la città di Fiume e il suo distretto "formano un Corpo separato unito alla corona ungarica (Separatum sacrae regni coronae adnexum corpus) [...] avente come tale un'autonomia particolare e un ordinamento giudiziario e amministrativo" e che i parlamenti di Dalmazia, Croazia, Slavonia e di Fiume avrebbero discusso e risolto in futuro. Cfr. Maja Polić, Riječka krpica"1868. godine i uvjeti za njezino naljepljivanje na Hrvatsko-ugarsku nagodbu, cit., pp. 79-80.)
L'idillio ungherese-fiumano
La riannessione di Fiume all'Ungheria portò grandissimi benefici alla città poiché, essendo il suo unico sbocco sul mare, il governo ungherese investì considerevoli somme nella modernizzazione del porto. In questo periodo, denominato dai storici come "l'idillio ungherese-fiumano", si assistette a un progressivo sviluppo economico della città dovuto innanzitutto alla costruzione di moli, dighe, magazzini ed altre infrastrutture portuali. A contribuire allo slancio dell'attività commerciale ebbe notevole impatto la fondazione di compagnie marittime quali l'Adria. Sotto l'abile guida del Podestà e benefattore, Giovanni de Ciotta, venne costruito il tratto ferroviario Karlovac-Fiume che collegò la città quarnerina all'entroterra e alla capitale ungherese, Budapest.
Tuttavia, già verso la fine del XIX secolo si intravedeva la fine dell'idillio" in seguito a una nuova politica adottata dalla Corona di Santo Stefano quale riflesso del nascente nazionalismo ungherese. In tal contesto, i fiumani pur sempre fiduciosi nella lealtà degli ungheresi nel rispettare i diritti stipulati nei diversi decreti e diplomi, commisero, stando a Stelli, un grave errore non avendo definito esplicitamente i limiti della loro autonomia. Errore questo che i fiumani pagheranno a caro prezzo dato che gli ungheresi, considerandosi gli unici meritevoli dello sviluppo e della prosperità di Fiume, promuovevano nel campo politico, a cavallo tra l'Ottocento e Novecento, una prassi delilliberale. Due leggi restrittive vennero introdotte dal governo ungherese senza il consenso della Rappresentanza. La prima diminuiva l'autorità della Rappresentanza municipale fiumana mentre l'altra prevedeva il controllo del governo ungherese sull'istruzione pubblica, restringendo in tal modo l'autonomia fiumana e mettendo in crisi l'italianità di Fiume. Con l'introduzione delle due leggi, iniziarono le avversità tra le due componenti etniche dominanti. Queste culmineranno all'inizio del XX secolo.
Il partito autonomo e la salvaguardia dell'autonomia fiumana
Al fine di difendere i diritti dell'autonoma municipalità cittadina e della lingua italiana, venne fondato da Michele Maylender il partito autonomo. Maylender venne eletto a podestà nel 1897 e rieletto altre sei volte. Quando a inizio Novecento il governo ungherese cominciò a realizzare politiche di magiarizzazione forzata, i giovani fiumani insorsero e, ormai scettici nei confronti della politica lealista del partito autonomo, fondarono nel 1905 il circolo La giovine Fiume, di stampo nettamente nazionalistico. Un nuovo provvedimento del governo ungherese che segnò la frattura definitiva tra Fiume e Budapest fu l'introduzione, in città, della polizia di Stato nel 1913, seguita da massiece dimostrazioni popolari.
Fortunatamente per i fiumani, i piani di magiarizzazione e il processo di abolizione dell'autonomia di Khuen-Héderváry furono troncati dallo scoppio della Grande Guerra. (Nonostante il sodalizio, fondato da giovani irredenti italiani, si presentasse come un circolo con scopi sportivi, ricreativi e culturali, non mancarono manifestazioni di carattere politico. La prima di queste fu organizzata dalla società nel novembre 1905:
«Nel corso di una rappresentazione da parte di una compagnia italiana al Teatro civico del dramma La morte civile di Paolo Giacometti venne dispiegato un grande tricolore da una parte all'altra del tatro; intervennero i poliziotti, ma il funzionario preposto, evidentemente per nulla ostile ai manifestanti, sostenne nella sua relazione. che il tricolore dispiegato era quello...ungherese (che, come è noto, ha gli stessi colori di quello italiano, disposti però in bande orizzontali)!"; Giovanni Stelli, Storia di Fiume-Dalle origini ai giorni nostri, cit., p. 190.)»
Dopo la guerra e la dissoluzione della monarchia, gli ungheresi abbandonarono la città che fu Stato Libero dal 1920 al 1924 quando Fiume fu annessa all'Italia. Ventun'anni dopo, esattamente il 3 maggio 1945, le truppe titine occuparono la città, ma la presunta conquista di libertà toglierà ai fiumani la propria storica identità e autonomia, ed è questa macro-storia che Osvaldo Ramous con dolorosa profondità e senza false illusioni dipinge ne II Cavallo di cartapesta, in un'analisi attenta e perspicace.
Gli anni del terrore comunista: La politica epuratrice del governo jugoslavo
Con la fine del conflitto mondiale e l'occupazione di Fiume da parte delle truppe partigiane avvenuta il 3 maggio 1945, il governo comunista jugoslavo adottò un'accanita politica repressiva, volta a "neutralizzare" quelli che venivano considerati i "nemici del popolo".
Venne instaurato, su modello sovietico, il sistema della cosiddetta "democrazia popolare" secondo il quale, almeno in teoria, il potere era in mano al popolo. Tale sistema politico-organizzativo era però assai lontano da quello democratico e si rivelò ben presto come un regime totalitario monopartitico.
A proposito delle diverse organizzazioni politiche presenti a Fiume nell'immediato dopoguerra, la cui influenza era però trascurabile, vanno nominati il "Partito Autonomo" cappeggiato da Riccardo Zannella, il movimento "Fiume Autonoma Italiana" fondata da don Luigi Polano e la "Federazione liburnica" promossa da Giovanni Rubinich. Siccome il nuovo governo comunista non ammetteva l'esistenza di altri partiti e organizzazioni politiche, i fondatori dei suddetti movimenti, insieme ad altre centinaia di persone ritenute "nemici del popolo" e "oppositori", reali o potenziali, furono spietatamente liquidati dalla polizia segreta, l'OZNA, oppure svanirono nel nulla, inghiottiti dal buio. In alcuni passi del romanzo, Ramous offre cenno di queste sparizioni e dell'agghiacciante atmosfera che si respirava a Fiume nei giorni successivi all'occupazione jugoslava:
«In città, intanto, si diffondevano delle voci tutt'altro che tranquillanti. Si parlava di arresti notturni, di deportazioni, di esecuzioni capitali avvenute senza pubblici processi, e perciò incontrollabili. Delle persone sparite, il più delle volte non era possibile aver nessuna notizia. Ai familiari che ne chiedevano, veniva risposto che nulla si sapeva di loro.»
Un sommario approssimativo delle vittime fiumane della politica repressiva jugoslava è stato tracciato dallo storico Amleto Ballarini:
«A Fiume, per mano dei militari e della polizia segreta (OZNA prima e UDBA poi), sotto le direttive del Partito comunista croato (...), con la complicità diretta o indiretta del Comitato popolare cittadino (...), non meno di 500 persone di nazionalità italiana persero la vita tra il 3 maggio (1945) e il 31 dicembre del 1947. A questi dovremmo aggiungere un numero impreciso di "scomparsi" (non meno di un centinaio) che il mancato controllo nominativo nell'anagrafe storica comunale ci costringe a relegare nell'anonimato insieme al consistente numero, nei paesi della provincia del Carnaro e dei distretti annessi dopo il 1941, di vittime di nazionalità croata (che spesso ebbero, almeno tra il 1940 e il 1943, anche la cittadinanza italiana) determinate a guerra finita dal regime comunista jugoslavo.»
Alle sparizioni casuali e liquidazioni massicce fecero seguito, tra il 1946 e il 1948 innumerevoli sequestri e confische di beni messe in atto, sempre con motivazioni generiche, dalle autorità comuniste. Ne scrive a proposito Ramous:
«Qualche giorno prima, era uscita da quell'alloggio una coppia di anziani negozianti, rimasti senza lavoro e senza mezzi, dopo il sequestro della loro bottega. L'espropriazione era avvenuta, come già in altri casi, non in base a pubbliche generali disposizioni, ma in seguito a un controllo, durante il quale erano state rilevate alcune trasgressioni di regole che i proprietari non avevano avuto mai l'occasione di conoscere.»
Tale fatto, come se non bastasse, rese ancora più opprimente la situazione nei territori annessi alla Jugoslavia costringendo la stragrande maggioranza della popolazione di quelle zone alla dura e forzata scelta dell'esilio.
L'esodo
Nonostante il regime comunista jugoslavo avesse inizialmente garantito il rispetto della tradizionale autonomia fiumana e dei diritti etnici e culturali delle minoranze, una volta giunto al potere assunse un atteggiamento diametralmente opposto, svelando le sue vere intenzioni. Negli ultimi capitoli del romanzo, in particolare quello intitolato La tua logica non è la mia, Ramous affronta un preciso momento storico, cioè le delusioni alle quali andarono incontro i fiumani che hanno creduto nella tanto proclamata libertà e fratellanza tra i popoli, ovvero nell'internazionalismo socialista che risultò, anzi, un nazionalismo jugoslavo. In tal
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