domenica 29 settembre 2024

Zara non parlò mai la lingua slava: mito di papa Alessandro III nel 1177

Come in tutti i testi sorti in periodi di transizione, o provenienti da regioni dove sono in lotta dei linguaggi, così anche nei nostri documenti si riscontra una maggiore o minore purezza, o meglio una maggiore o minore vicinanza all'uno o all'altro di questi linguaggi, al veneto o al dalmatico nel caso nostro. Le cause determinanti queste varietà possono essere svariatissime: diversità di educazione che i parlanti o gli scriventi hanno ricevuto, natura dell'ambiente dove sono nati e vissuti, persone che praticano o hanno praticate, relazioni che mantengono e così via. Per questo, nel commento storico e paleografico che facciamo seguire ad ogni documento abbiamo tentato tutte le vie e ci siamo valsi di ogni possibile sussidio della scienza storica e paleografica, non solo per determinare il grado di cultura e gli studi percorsi dai singoli scrittori, ma abbiamo anche tentato di identificarli o almeno di stabilire l'ambiente da cui provennero e quello in cui vissero e operarono.

Non spetta a noi giudicare del maggior o minore grado di purezza dell'uno o dell'altro dei nostri documenti, nei riguardi del volgare dalmatico. Ci basti constatare che i notai transmarini non sempre capivano questo volgare o se lo capivano non sempre arrivavano a rendersi conto della sua natura e della sua origine. Abbiamo veduto discorrendo del documento n.ro VI, come il notaio Pietro da Sarzana non ne intendesse parecchie parole. Ancora più significativo è il caso offertoci da un altro notaio: da Giovanni da Ancona che, per quanto fosse a Spalato già da una ventina d'anni, prende per slave parole dalmatiche. Registrando un inventario del 31 luglio 1359, che molto probabilmente gli fu presentato in volgare, egli, tra altro, annota: «Una conca que dicitur Sclauonice mesiur». Eppure mesiur è parola dalmatica, conservatasi fin quasi ai nostri giorni nel veglioto. Si rinnova così a Spalato l'impressione che il dalmatico faceva ad italiani della penisola che venivano a Ragusa e a Zara. A Ragusa nel 1387 un umanista italiano, appena venuto, Giovanni da Ravenna, si lagnava « per interpretem agenda omnia », ma nel 1440 un altro umanista, Filippo de Diversis da Lucca, dopo sei anni di permanenza, era in grado di specificare che i ragusei «latine loquuntur, non autem sclaue, nec tamen nostro idiomate Italico . . . sed quodam alio uulgari idiomate eis speciali, quod a nobis intelllgi nequit nisi aliqualis, imo magna ejusmodi loquendi ha bea tur saltem audiendo consuetudo».

A Zara si pretende accadesse lo stesso nel 1177, quando Alessando lll, nel suo viaggio da Vasto a Venezia, vi si fermò per quattro giorni. Secondo una redazione del 1360 degli «Acta Alexandri pontificis», attribuita al cardinale Nicola Roselli, il papa sarebbe stato accolto a Zara con grandissimo onore, e condotto dal clero e dal popolo nella cattedrale « immensis laudibus et canticis altissime resonantibus in eorum Sclavica lingua». Il Brunelli, pur dubitando della esattezza e veridicità di questa redazione degli « Acta », afferma tuttavia « che il volgare neolatino di Dalmazia poteva essere detto, da chi lo udiva per la prima volta, lingua schiava, perchè sorto in paese che gl'Italiani chiamano Schiavonia ». E il Bartoli (Das Dalmatische cit., vol. I, pag. 190 sgg.), riprendendo le argomentazioni del Brunelli, crede che canti dalmatici furono presi per slavi. Congetture veramente acute e giustissime tutte e due dal punto di vista filologico, ma inopportune e fatte a vuoto perchè i canti, non importa se slavi o dalmatici, non esistettero mai che nella fantasia del rimaneggiatore trecentesco degli «Acta di Alessandro III ».

Fonte: Atti e memorie della Società dalmata di storia patria, 1927, pp. 70-71


Vedasi il luogo succitato della Storia del Brunelli, dove son messi nel debito rilievo gli anacronismi nei quali incorse il rimaneggiatore trecentesco. Per lui Zara è posta « in capite regni Hungarie », cosa che va benissimo per il 1360, ma non per il 1177 nè per tutto il duecento, nè per tutta la prima metà del trecento. Del resto, già il Muratori, ebbe modo di notare la poca attendibilità dell'opera del Roselli.


Contrariamente a quello della lapide, il testo del Baronio può essere inteso anche in senso più ampio, cioè che i canti "illirici" non provenissero tanto dal clero officiante quanto da una parte della folla di popolo che si assiepava lungo il tragitto papale.

Tra questo popolo vi era anche, ovviamente, la gente del contado slavo affluita in città per la grande, inattesa occasione.

Ce lo conferma una pubblicazione ufficiosa austriaca, che esclude canti liturgici considerando solo canzoni (Lieder): “Allorché, nel 1177, papa Alessandro III visitò la Dalmazia e le isole dalmate, il popolo si riversò massicciamente nella città di Zara, ricevette il Papa in maniera. indescrivibile cantando nel contempo canzoni croate con tanta potenza ed entusiasmo da far tremare l'aria stessa e la città ne rintronava tutta”.

Da dove siano derivate le notizie sugli effetti dei canti, non interessa: quello che invece interessa rilevare in ogni caso è il fatto che si trattava di gente foranea, come viene ben sottolineato dall'autore.

Non si dimentichi che una situazione del tutto analoga, si era verificata agli albori del Mille quando il doge Pietro II Orseolo passò con la flotta veneziana in Istria e Dalmazia a rinfrancare le città latine molestate dagli Slavi e accoglieme la dedizione.

Giunto il Doge a Ossero “la più vicina città della Dalmazia, ivi accorsero non solo i cittadini, sì eziandio gente da tutti i paesi circonvicini, tanto de' Romani quanto degli Slavi, e prestarono al Principe il giuramento di fedeltà”.

Anche in tale occasione è logico ritenere che gli Slavi parlassero e cantassero nella loro lingua, mentre i cittadini e i Romani si saranno di certo espressi in latino o tutt'al più in dalmatico. Fu Matteo Bartoli a confermare che i canti in lingua schiavona non potevano esser stati cantati che da una massa di contadini calati a Zara dalle campagne vicine per implorare la benedizione papale e assistere a un avvenimento che nella storia zaratina e in quella dalmata in generale può dirsi ancor oggi veramente unico“.

Tanta deve essere stata la massa slava calata in città per questa occasione, che i canti slavi potevano aver se non sopraffatto quelli latini dei cittadini ma almeno colpito l'attenzione dei cronisti o meglio solo di alcuni cronisti seriori.

Si deve ancora ricordare e sottolineare che né la cronaca di Romulado né quella bolognese di s. Luca citata dal Farlati né infine quella di Simone Begna parlano di questi canti schiavoni. Tanto che lo storico Giuseppe Praga ritenne di poter affermare che “i canti, non importa se slavi o dalmatici, non esistettero mai che nella fantasia del rimaneggiatore trecentesco degli Acta di Alessandro III”. Ricordava inoltre il Praga i documenti che attestano come i rettori e gli umanisti del resto d'Italia incontrassero difficoltà nel comprendere il dalmatico, specie in Ragusa, anche dopo permanenza di anni in Dalmazia nel Trecento.

Abbiamo fin qui soffermato la nostra attenzione sui “cantici". Ma la frase del Baronio parla anche di “laudi”, mentre è significativo che la lapide del 1822 non ne faccia alcun cenno. Non è questo il luogo e il tempo di parlare delle acclamazioni, ossia delle laudes che si cantavano in Zara e di cui vi è traccia, databile al 1105, intitolata Laus que in Pascha e Natalis die post Evangelium diciturm.

Che in Zara si cantassero, forse anche in greco, le acclamazioni all'Imperatore bizantino è attestato.

Pochi anni dopo questo nostro 1177, nei patti che Venezia dettò alla Zara distrutta dalla IV Crociata nel 1204, si legge che "Clerus autem bis in anno in nativitate domini et in pascha resurrectionis laudes cantabunt in maiori ecclesia solempniter (sic) domino duci et domino patriarche atque archiepiscopo suo et comiti omni anno, propter quod benedictionem recipient consuetam".

Le laudi si cantavano in latino, come è attestato dai documenti pubblicati.

Non ci dilungheremo su questo argomento, dato che sembra pacifico per chiunque che in occasione della venuta di papa Alessandro III in Zara, se lodi vennero cantate a gloria del Pontefice e a invocazione della benedizione divina, esse furono esclusivamente in latino.

In materia non può esservi alcun dubbio.

Fonte: Rivista dalmatica, 1994, pp. 27-29


Papa Alessandro III a Zara nel 1177 e il recente Sinodo africano a Roma

Abbiamo avuto recentemente occasione di pubblicare una sintesi storica sulla visita di papa Alessandro III a Zara nel lontano 1177.

Rilevavamo come le acclamazioni in lingua slava che accolsero il Pontefice non erano da attribuire - come vuole la storiografia croata - al clero e al popolo di Zara, ma soltanto ai foranei accorsi in città per la straordinaria occasione.

E annotavamo: Se ci riferiamo ai giorni nostri, ancor oggi in occasione delle grandi cerimonie papali in Roma, le migliaia di pellegrini che vi giungono da paesi lontani e stranieri, in particolare dalla Polonia, cantano in piazza s. Pietro inni nella propria lingua, e la cosa viene notata subito dai mass-media senza che per questo si possa affermare che Roma e i suoi abitanti non camino in italiano o che siano addirittura dei polacchi“.

Non potevamo allora immaginare che a pochi mesi di distanza, nella massima basilica della Cattolicità si sarebbe tenuto un Sinodo della chiesa d'Africa e sulla sedia papale, essendo assente l'augusta persona del Pontefice felicemente regnante, sarebbe stato assiso il cardinale nigeriano Arinze.

Né potevamo immaginare che, come scrissero i giomali:

Il «tam tam», il suono dei tamburi, gli «ulelo» - gridi di gioia sopra le invocazioni liturgiche - sono echeggiati, ieri mattina, in San Pietro per il rito conclusivo delle sessioni romane del Sinodo africano.

Al termine del rito, come nella Messa di inizio alla fine di aprile, danze ritmate attorno all'altare da ragazze e giovani, indossanti tuniche con disegni a pelle di leopardo.

Al termine, in segno di gioia, si è scatenata una danza alla quale, nei pressi del baldacchino del Bernini, hanno partecipato suore, ragazze e giovani sacerdoti in ritmiche muovenze e battere di mani“.

La presenza, in Roma, di riti, danze e canti africani non fa certo dell'Urbe una città africana.

Come canti in slavo non fanno di Zara - nel 1177 - una città slava e tanto meno croata.

Fonte: Rivista dalmatica, 1994, p. 205


Il Milinović, il Jagic, il Lucianović ed altri, partendo da un passo erroneo del Baronio che tratta uno dei tanti episodi della storia dalmata, del Baronio fanno delle deduzioni che non possono passare inosservate, nè devono essere trascurate.

Secondo il Baronio nei suoi Annali Ecclesiastici, papa Alessandro III durante il suo viaggio da Ancona a Venezia fu trasportato da una bufera in Dalmazia. Viaggiando lungo la costa dalmata si fermò a Zara dove ebbe accoglienze entusiastiche; portato da un bianco destriero ed accompagnato processionalmente il papa si recò alla chiesa di S. Anastasia, mentre immense lodi e cantici in lingua slava altamente risuonavano (immensis laudibus et canticis altissime resonantibus in eorum sclavica lingua), ecc.

Di questo passo del Baronio i suddetti autori si valgono per asserire "come specialmente la nostra Zara emerga nella diffusa dolce armonia del paleoslavo" oppure che "se Zara, ove sussisteva l'elemento romano, usava pure la liturgia slava tanto più è certo che la stessa veniva adoperata nei luoghi di contado, rimasti sempre lontani da qualunque influenza straniera", ecc.

Tutto questo andrebbe bene se il Baronio fosse una fonte impeccabile e se del suo passo non si avesse ragione di dubitare! Ma qui è proprio il caso di soffermarsi! L'episodio di Alessandro III che tratta il Baronio è stato trattato anche dal Sanudo, dalla cronaca di Romualdo di Guarna, da Angelo Zon, da Tommaso Arcidiacono, da Simeone Begna da Zara, ed in parecchi punti non ha l'aspetto che il Baronio gli diede, sicchè ben a ragione si dubitò trattarsi di un lavoro posteriormente rimaneggiato.

Inoltre un errore madornale priva il passo del Baronio di ogni autorità e validità: parlando di Zara, egli afferma che essa è "in capite Hungariae regni" (che si trova in capo al regno d'Ungheria), mentre la storia sostiene che nel 1177, – anno della venuta di Alessandro – Zara era governata da Ruggero Morosini e dipendeva da Venezia e non dall'Ungheria!

Infine anche se il suddetto passo fosse realmente vero e valido, non credo che per ciò stesso si possa venire a quelle conclusioni che sembrano così naturali al Milinović, Lucianović, ecc.

I famosi "cantici in lingua slava", osserva il Bartoli, "potevano essere stati cantati da una massa di ammalati, mendicanti o contadini che dalle campagne vicine calarono a Zara per implorare la benedizione papale ed assistere ad un avvenimento che nella storia zaratina ed in quella dalmata può dirsi veramente raro. E tanta deve esser stata la massa slava calata in città per questa occasione che i cantici slavi avranno sopraffatto quelli latini degli abitanti di Zara.

Il volere ammettere che i veri zaratini abbiano cantato in croato sarebbe un'assurdità storica a cui si opporrebbe anche lo stesso Diplomatario (Codex Diplomaticus) dello Smičiklas. Del resto, d'accordo col Bartoli, non escluderei che qui sia d'un equivoco, cioè che si sia confuso il dalmatico predominante allora in Dalmazia collo "schiavo", perchè si tratta di un avvenimento successo in terre che allora confinavano direttamente con la Schiavonia, cioè la terra ove si parlava lo "schiavo”.

Se il dalmatico fu confuso con lo slavo dallo stesso Giustiniano, forse anche dal francese Cassa, nonchè da parecchi Veneziani, io non troverei difficoltà nell'ammettere che anche nel 1177 si sia commesso lo stesso errore.

In ogni caso, se veramente dovesse constare che in quell'occasione si cantò in "slavo” a Zara, non so perché e come si voglia subito ricorrere al paleoslavo, ormai arcaico e difficile, senza ammettere in prima linea l'esistenza della parlata volgare, intendo dire della lingua nazionale, viva, croata, che in occasioni solenni di giubilo ed esultanza avrà echeggiato rudemente, ma sinceramente dalle masse del contado.

Fonte: Rivista dalmatica, Anno VII., Fasc. 1, 1923, pp. 18-19

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