domenica 6 ottobre 2024

Qual è il confine dell'Italia secondo Dante?

Benvenuto da Imola nel commento della Divina Commedia (1376) ci dà un'indicazione precisa: «Est enim Carnarium quidam gulphus in mari Adriatico in finibus Italiae continens XL milliaria». Se Pola è presso dei Quarnaro, e se il Quarnaro ha un circuito di quaranta miglia, ne consegue che esso non può nel pensiero del commentatore estendersi al di là del canale della Farasina, e deve comprendere soltanto il tratto di mare situato tra il capo Promontore, il canale stesso e l'isola di Cherso. Se Benvenuto da Imola avesse inteso il Quarnaro per il mare da Pola all'isola di Pago, il «milliaria XL» resterebbe molto al disotto della misura reale, in quanto che esso, secondo i calcoli del Vivien de Saint-Martin, «a une longueur de 68 kil. avec 76 kil. de largeur à l'entrée».

L'ipotesi è che Dante avesse un'opinione analoga a quella di Benvenuto da Imola e del suo concittadino Fazio degli Uberti: che cioè il Quarnaro fosse il braccio di mare fra l'Istria e Cherso, e che l'Italia finisse su per giù al canale della Farasina.

Sembra chiaro inoltre dal confine fissato dal poeta nel passo citato del «De vulgari eloquentia», che i limiti dell'Italia debbano cadere nel Quarnaro così inteso.

Dante aveva concepito un’Italia come una regione in cui si parlava una medesima lingua, osservata nella varietà dei suoi dialetti nel De vulgari eloquentia, in cui si fa menzione anche dell’istrioto. Un’Italia concepita nella Divina Commedia «com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e suoi termini bagna», con riferimento alla necropoli romana di Pola, che l’illustre poeta ebbe quasi sicuramente modo di vedere durante un soggiorno istriano.

Ma la visione di Dante era limitata: si era spinto fino in cima all'Istria senza mettere il naso al di là del golfo che abbraccia il litorale fiumano. Lo schema classico cui si era attenuto, quello Augusteo, non gli permetteva di proseguire per scoprire i luoghi dalmati e approdare nel grandioso palazzo di Diocleziano sulla riva spalatina. Quindi è comprensibile il rimbrotto che il divin poeta si prese sei secoli dopo da quel colto e irruente intellettuale che fu Niccolò Tommaseo da Sebenico il quale scrisse: «Dante dice che il Quarnaro chiude l'Italia, Dante quindi esilia me, il disgraziato. Iddio gli perdoni, ei non sapeva quello che si facesse».

sabato 5 ottobre 2024

I confini della Venezia nella storia del diritto Italiano

[Dal libro: NUOVA ANTOLOGIA DI LETTERE, SCIENZE ED ARTI. SESTA SERIE, GENNAIO-FEBBRAIO 1916]

Duecento anni or sono, fra Modena e Roma ferveva una violenta polemica: ne erano oggetto i diritti della sede pontificia e della casa d'Este sulle paludi di Comacchio, polemisti erano il padre della storia Italiana Lodovico Antonio Muratori ed il celebre Arciveseovo d'Ancira Giusto Fontanini. La lotta si combatté con grande sfoggio d'argomentazioni storiche, d'antichi diplomi, e l'acrimonia fu tale da rompere l'antica amicizia dei due eruditi, così che essi non si rappacificarono mai più. Quest'esempio non è affatto isolato: al contrario, quasi tutte le guerre o controversie diplomatiche dei secoli XVI-XVIII furono precedute ed accompagnate da libelli o da opere di maggior conto d'indole storico-giuridica, nelle quali con argomenti più o meno plausibili, si sosteneva la validità dei diritti dell'uno o dell'altro stato sui territori contestati. Tale procedimento era ben naturale quando si pensa che, per la maggior parte, si trattava di controversie fondate su diritti ereditari che le case principesche vantavano su città o provincie considerate come oggetti del loro patrimonio. In altri casi, però, le discussioni s'elevavano a problemi molto più interessanti, come quelli dibattuti fra tanti eminenti pubblicisti del secolo XVII intorno alla dipendenza di Venezia dal sacro Romano impero.

In questo campo di controversie diplomatiche si svolsero per lunghi secoli i primordi delle discipline storico-giuridiche e soltanto più tardi i compiti di queste si allargarono, e la storia del diritto si liberò dai suoi stretti rapporti col diritto pubblico e colla scienza diplomatica per assurgere a disciplina intieramente indipendente. Però anche nella nuova sua veste essa rasenta sovente importanti questioni politiche, poichè le sue indagini si svolgono in torno a problemi strettamente connessi con punti fondamentali di quelle. Tali sono, anzitutto, le ricerche relative alle forme giuridiche particolar di ciascun popolo.

Dal giorno in cui sorse il concetto di Stato Nazionale l'attenzione degli storici fu tratta naturalmente a studiare le caratteristiche della vita d'ogni nazione attraverso i secoli, lo svolgersi della sua struttura sociale. Nel tempo stesso anche nella giurisprudenza si formarono delle correnti di studi dirette a riconoscere gli istituti giuridici particolari d'un determinato aggregato etnico. Queste correnti trovarono la loro origine nella reazione Germanica contro il codice Francese, e culminarono con gli sforzi diretti a costruire un sistema giuridico nazionale. Tali studi si fondarono in gran parte su ricerche storico-giuridiche; per ogni istituto si cercò di rintracciare le forme originali dovute alle tendenze native d'un popolo, si condussero indagini accurate sulle antiche leggi popolari, si seguì pazientemente la trasformazione dei loro lineamenti, si sceverarono le influenze dei diritti stranieri; così la storia del diritto costituì uno dei lati, e non dei meno interessanti, dell'insieme di studi diretti a dare a ciascun aggregato nazionale la coscienza del proprio essere, dei caratteri peculiari che lo differenziano dalle altre nazioni. Che tali caratteri esistano è evalente. 

L'originalità che un popolo mostra nelle sue manifestazioni letterarie, artistiche, scientifiche si palesa anche nella sua vita giuridica: basta pensare a certi istituti caratteristici del diritto Romano, o ricordare la rinascita degli studi giuridici nell'Italia medievale. Quanto a quest'ultima, si può dire, anzi, che i primi segni della nazione risorgente si trovino nelle manifestazioni giuridiche. Ancor prima che l'istituto del comune cittadino fiorisca nell'Italia media e settentrionale, ancor prima che nei canti dei giullari si sentano le più lontane promesse della poesia Italiana, il processo di unificazione si palesa nel diritto privato, dove il dettato notarile diviene conforme già nel secolo XI e si disegnano consuetudini generali che si sovrappongono alle varietà regionali. Il nuovo diritto previene ed accompagna, dunque, il formarsi della nazione e non a caso perseguiamo i primordi della grande scuola giuridica nazionale proprio nella corte Matildica, cioè nel centro della reazione politica Italiana contro il partito imperiale Germanico-feudale. Naturalmente, non tutto il diritto che così si forma può essere strettamente nazionale; gli studi degli ultimi cinquant'anni hanno dimostrato come ciò non si possa dire né del diritto Romano, né degli stessi diritti popolari Germanici. Dovunque si trovano traccie larghissime d'influenze d'altri diritti anteriori o contemporanei i cui istituti si meschiano agli istituti nazionali o ne modificano la natura, Il caso non poteva essere diverso in Italia dove il substrato d'antiche civiltà e l'influenza di recenti conquistatori non potevano mancare di far sentire il loro peso.

Ma, pur facendo la debita parte alla comunicabilità del diritto, appare certo che ogni popolo possiede, nel suo patrimonio giuridico, accanto a taluni istituti comuni a tutte le nazioni, e ad altri che gli posson esser pervenuti per influenza d'estranee civiltà, un certo numero, maggiore o minore secondo i casi, d'istituti che son propri della sua indole, nei quali si palesa il suo stesso carattere. E ciò non solo nel diritto privato, che si svolge nel campo più intimo, ma anche nel diritto pubblico dove la rapidità dei mutamenti e per ciò la possibilità d'influenze estranee è molto maggiore. Così è certo che il comune medievale, colla sua larghissima autonomia, colla sua organizzazione profondamente democratica è un istituto veramente Italiano, giacchè le sue linee non si possono affatto confrontare colle istituzioni del tutto atrofiche che troviamo, nello stesso campo, in Francia ed in Germania. Così del tutto originale e conciliabile soltanto colla finezza e coll'equilibrio del nostro popolo è la lenta ed insensibile trasformazione dei maggiori comuni in signorie nelle quali però le autonomie locali continuano a vivere con tanta larghezza. Ed anche fuori d'Italia gli esempi di formazioni giuridiche proprie di certi popoli si possono additare facilmente: così il classico svolgimento delle istituzioni parlamentari Inglesi, così, all'opposto, la tendenza Francese verso l'accentramento e le istituzioni che ne derivano. E se dal diritto pubblico passiano al diritto privato si deve pur riconoscere che lo svolgersi dell'istituto dotale, in Italia, dal secolo XIII in poi, è intimamente connesso coll'organizzazione Italiana della famiglia, un'organizzazione che potremmo chiamare monarchica per la posizione che vi tiene il capo, e della quale ancora oggi son visibili le traccie. Simili osservazioni si potrebbero addurre anche per altri istitui.

Ognun vede, perciò, che la presenza di certe forme giuridiche caratteristiche in una regione non ha interesse soltanto per il legista desideroso di conoscere le risposte scaturigini delle norme che egli deve applicare, ma ha importanza altresì per lo storico il quale voglia riconoscere il prevalere dell'uno o dell'altro principio nazionale, dell'una o dell'altra civiltà in un dato periodo ed in un dato territorio. Così anche le ricerche storico-giuridiche possono esser tratte irresistibilmente nel campo della polemica nazionale, in particolar modo per quei paesi di confine che attraverso secoli furon campo aperto alle lotte delle razze e delle civiltà.

Parrà strano, forse, che la pergamena a stento contesa dalle cure dell'archivista al tarlo roditore, il codice miniato prodotto di un'arte squisita, possano divenir armi che preparino il conflitto divoratore d'uomini e di ricchezze, ma ciò non è più singolare del veder tanti strumenti di morte uscire dalle storte e dai fornelli, in apparenza così inoffensivi, dei gabinetti di chimica. Gli uni preparano alla lotta la coscienza popolare facendole intuire la giustizia d'una causa; gli altri danno alle nazioni le armi colle quali sostenere le loro pretese. Pergamene e lambicchi sono anch'essi legati dal nesso profondo che unisce il mondo delle idee al mondo delle cose:

...spiritus intus alit
totamque infusa per artus mens agitat molem.

Nell'opera, veramente insigne, che la scuola storica Tedesca ha compiuto, ricostruendo con sapienti indagini critiche, le fonti medievali di gran parte d'Europa, quante volte ci troviamo di fronte alla preoccupazione di dar rilievo all'importanza dell'elemento Germanico nella formazione delle istituzioni politiche e giuridiche dei vari paesi, nei quali dopo la caduta dell'Impero Romano traboccò la marea Teutonica!

Secondo quei dotti, sarebbero principi prettamente Germanici. in antitesi con quelli del mondo Greco-Romano, gli istituti democratici che reggono ora gli Stati Europei, e così pure, nel diritto privato, la più gran parte dei concetti fondamentali, come quello della persona giuridica, la capacità patrimoniale della donna, il concetto della proprietà e quello del possesso, l'indole dei contratti agrari, il fondamento dell'obbligazione e quello dell'eredità: tutio ciò sarebbe stato profondamente mutato dall'influenza Germanica che avrebbe lasciate in tal modo le più ampie impronte in tutta l'Europa. Si sarebbe così verificato per la parte giuridica quanto Fichte affermava in generale, già nei primi anni dello scorso secolo, cioè che lo spirito tedesco reggeva tutto il mondo occidentale e che Francesi ed Italiani, non erano se non Germani travestiti. Di fronte a tali esagerazioni non bisogna di certo dimenticare i grandi meriti che i dotti Germanici ebbero, insieme ai loro confratelli d'altre nazioni, nel rinnovamento scientifico dei nostri tempi; nondimento si deve pur riconoscere che questa corrente d'idee ebbe anch'essa la sua parte nella formazione di quello stato d'animo che preparo il presente conflitto.

Un tale movimento, nelle sue linee generali, poteva avere per noi un'importanza soltanto riflessa; esso ci colpì invece direttamente quando rivolse le sue indagini alla storia di quelle terre, nelle quali la razza Italiana e la Tedesca si guardano da secoli ben consapevoli, l'una e l'altra, della forza che lor deriva dalla possanza del genio e dal tesoro delle tradizioni.

Io non voglio soffermarmi sulle irose parole pronunziale da qualche dotto d'Oltralpe durante la lotta combattuta, negli ultimi vent'anni, dagli Italiani soggetti all'impero Austriaco per la conquista dei diritti nazionali: parole, ad esempio, come quelle del professore Waldner dell'Università d'Innsbruck il quale non si peritò di asserire che la fondazione della Università di Trieste sarebbe stata affatto inutile in quanto che non vi si sarebbe potuto insegnare altra cosa che scienza Tedesca rivestita di forma Italiana. Tali puerilità non meritano, di certo, più ampia menzione! (Vedasi la dignitosa protesta dei professori della Facoltà giuridica italiana di Innsbruck Parchioni, Sartori-Montecroce, Galante, Lanza. Farinelli e Menestrina contro queste poco ponderate parole del Walbiner pronunziate alla riunione del partito nazionale tenuta nella stessa città. I redattori della protesta osservano fra l'altro che, fatta astrazione per le scienze filosofiche mediche, per le quali nessuno potrebbe seriamente parlare di un monopolio tedesco, anche per le discipline giuridiche si può porre in dubbio che esse siano, nella stessa Austria, un prodotto dello spirito tedesco. La scienza Romanistica e la Canonistica fiorirono, invece, anzitutto, in Italia in celebri scuole e vi contano, ancor oggi, rinomati interpreti; quanto poi al diritto positivo, avrebbe dovuto esser noto ad un professore di diritto austriaco, quale parte importante abbia avuto lo spirito latino nella codificazione austriaca, quello spirito latino che il professore Walkiner dice estraneo all'Austria)

Ricorderò piuttosto come abbastanza di frequente in opere di storici e di giuristi Tedeschi si trovi affermata l'esistenza di vincoli antichissimi che avrebbero congiunto al regno Germanico le provincie Italiane sin qui soggette all'Austria, oppure negata la continuità dei caratteri nazionali nella storia e nel diritto di quelle. Affermazioni, che si connettono strettamente alla propaganda diretta ad estendere oltre i naturali confini delle Alpi il dominio della gente Tedesca.

Così, quanto al Trentino, vediamo posti in prima linea i rapporti di questo colla contea del Tirolo e creata quella denominazione di Südtirol che fu adoperata anche in libri strettamente scientifici a designare città affatto Italiane come Trento o Rovereto. In trattati di storia del diritto Austriaco troviamo l'affermazione che la preponderanza etnografica Italiana del Trentino sia cominciata soltanto nel secolo XVI con alcune immigrazioni che avrebbero mutato il carattere della popolazione originariamente Tedesco. (Luschin v. Ebengreuth, Oesterreichische Rechtsgeschichte (Bamberg, 1914). p. 16. L'opinione che a Trento, ancora nel XIII secolo, la lingua volgare fosse la tedesca, fu espressa da Tomaschrek nell'Archie fur Kunde oesterrrichts her Geschichtsquellen, XXVI, pag. 103 e seg., fu ribattuta validamente, fra gli altri, dallo stesso Voltelini: Die ältesten Statuten von Trient und ihre Leberlieferung, nell'Archivo für vesterreichische Geschichte. XXIX. I. pag. 97 е seg.)

Così quanto al Friuli se ne parla come d'un territorio tedesco dalle invasioni barbariche sino al secolo XIII ed oltre. E tali affermazioni si estendono non solo al Friuli Goriziano, ma anche al Patriarcale. Cividale, l'antica Forum Julii, è qualificata come una città Tedesca, il parlamento Friulano, mirabile istituto dell'antico stato Patriarcale, è considerato come prettamente Germanico.

Quanto a Trieste, la sua dedizione del 1382 ai duchi d'Austria è data come fondamento indubitabile della sua appartenenza al Regno Tedesco (Ved. ad esempio, la III carta storica antuessa allo SCHRÖDER, Lehrbuch der deutschen Reehtsgeschichte (Leipzig, 15902), dove il udeutsches Reich seende, senz'altro, sino all'Adriatico ad Aquileia, a Duino, a Trieste). Persino sull'Istria si appuntano le mire di questi infaticabili studiosi. Si parla della bella penisoletta Adriatica come d'una terra che per molti secoli sarebbe stata, dal punto di vista della storia del diritto pubblico, parte della Germania, mentre soltanto l'influenza Veneziana l'avrebbe tolta ad essa, a partire dal secolo XIV. Gli sforzi dei Patriarchi Aquileiesi per ricuperare l'antico loro dominio sulle città Istriane sono indicati come gli ultimi tentativi dell'Impero Tedesco di ritenere la provincia (DIMITZ, Geschichte Krains (Laibach. 1874). I. 145. il quale asserisce che la marca d'Istria fu staccata sin dal 952 dall'Italia Per la lotta tra il Patriarcato Venezia vedasi il Lener, Veneziarisch-Istrische Studien (Strassburg. 1911), pag. XV.). Non sarà senza qualche utilità il vedere quanta parte di tali affermazioni regga all'esame spassionato dei fatti. Il problema può essere considerato sotto due punti di vista: quello dei legami delle provincie Italiane coll'antico regno Tedesco, una delle parti dell'impero Romano-Germanico, e quello dello svolgimento degli istituti di diritto pubblico e di diritto privato nelle provincie stesse. Proviamoci ad esaminarli partitamente.

A chi guardi i confini della Venezia verso settentrione, si presenta primo, nella cerchia delle Alpi, coronato dalle guglie meravigliose dei suoi monti, il Trentino. Colà tutto ci parla dell'Italia: la vegetazione, il sorriso del cielo, il carattere delle arti; eppure fra le nebbie del medioevo si vollero cercar le prove dell'appartenenza di tutta la valle dell'Adige sino alle chiuse di Verona, al regno Tedesco.

I documenti parlano ben diversamente, però, a chi li sappia leggere senza preconcetti. Neppure nel periodo più oscuro del Medioevo, quando Ottone I, per soffocare ogni germe di ribellione, sottopose la Venezia tutta al duca di Baviera, le fonti ci permettono di credere che dal punto di vista giuridico queste provincie si considerassero come staccate dal regno Italico e congiunte dal regno Tedesco. I diplomi imperiali ci provano invece tutto il contrario. Noi sappiamo, infatti, che i diplomi riguardanti il regno Italico erano controfirmati dal cancelliere per l'Italia, mentre quelli per il regno tedesco lo erano invece dal cancelliere della Germania; ora, così nel X come nell'XI secolo i diplomi della cancelleria imperiale per il Friuli, per Gorizia, per Trieste, per l'Istria, hanno sempre la ricognizione del cancelliere del regno Italico (Ciò fu dimostrato dallo STUMPF-BRENTANO nel suo scritto: Ueber die Grenze des deutschen und italienischen Reichs von X-XII Jahrhundert, nelle Forschungen zur deutschen Geschichte, XV, pag 160. — L'assegnazione di Trento all'uno o all'altro dei due regni presenta qualche incertezza nel secolo XII, ma il diploma di Filippo di Svevia, nel 1207, dichiara, esplicitamente, che Trento appartiene alla marca di Verona е, регciò all'Italia: Muratori. Antichità Estensi. I. 383).

Più tardi, nel secolo XIII, noi troviamo che i vescovi di Coira ci attestano, in un loro documento, come il confine del regno d'Italia non abbracciasse il solo Trentino ma si estendesse nell'alto Adige alla Val Venosta ed al territorio di Bolzano (Il documento è ricordato da Malfatti, I confini del ducato di Trento, in Arch. Storico per Trieste, l'Istria e il Trentino (Roma, 1883). II. pag. 15. Eso è del 1253 e il vescovo di Coira dichiara che la val Venosta ad Italiam dinoscitur pertinere.). 

Questi ultimi erano possessi del vescovo di Trento, uno dei tanti alti ecclesiastici: Italiani che destreggiandosi fra Re Italiani e Re Tedeschi dapprima, e poi fra Impero e Papato, seppero impinguare di ricchi feudi il patrimonio delle loro sedi. Se Bolzano e la Val Venosta andarono perdute per il regno Italico, ciò deriva dalle usurpazioni, prima, della casa di Gorizia, poi della casa d'Austria, che ebbero successivamente l'avvocazia della chiesa Trentina e in tal qualità, anziché proteggere quest'ultima, seppero arricchirsi strappandole parte dei suoi beni. L'appartenenza di Trento al Regno Italico fu riconosciuta, del resto, ancora nel secolo XVI dall'imperatore Carlo V il quale, nel 1524, scriveva al suo ambasciatore duca di Sessa che Trento era provincia d'Italia (Ved. SARDAGNA E NICOLETTI. La guerra rustica nel Trentino (Venezia. 1889), p. 125, nei Monumenti della R. Deputazione Veneta di Storia Patria).In occasione del Concilio, i principi germanici protestarono contro la designazione, dichiarando che Trento era città italiana). È vero che il Vescovo sedeva, come principe, nella dieta Germanica, ma di questa faceva parte anche un circolo di Borgogna come ricordo dell'antico Regno di Borgogna che col regno d'Italia e col regno Tedesco costituivano l'antico impero Romano-Germanico, lo stato caotico e paradossale che dal Baltico nebbioso si estendeva fino all'azzurro Mediterraneo. Non v'ha meraviglia, dunque, se alla dieta Germanica potè rimaner congiunto un principe del regno d'Italia (L'origine di questa partecipazione deriva certo dal fatto che dal secolo XII in poi, alle grandi diete dell'Impero sia in Germania che in Italia partecipano, senza distinzione, principi italiani e tedeschi.). E questo principe, non bisogna dimenticarlo, resse, in modo indipendente, quella nostra bella provincia sino al 1803, quando la casa di Austria, per risarcirsi delle perdite che le vittorie Napoleoniche le avevano inflitte in Italia ed in Germania, eredette suo diritto di sopprimere i principati ecclesiastici di Bressanone, di Salisburgo, di Passau e di Trento aggregandosene, collassenso della dieta Germanica, i territori.

All'antico regno Italico, appartenne pure di pieno diritto Gorizia. Possediamo due documenti del 1150 e del 1202, nei quali i conti di Gorizia riconoscono che i loro possessi derivano, come feudo, dalla Sedia Aquileiese, e che a questa avrebbero dovuto ritornare all'estinzione della loro casa (DE RUBIES, Monumenta Ecclesine Aquilciensis (Argentinae. 1740). col. 645. Ecco le parole del trattato dei 1202: «Comites Goritiae debent habere castrum de Goritia cum omni proprietate, servis et ancillis et omni imre ad ipsum pertinente exceptis ministerialibus... ab Ecclesia Aquileiensi in feudum» E stabilita la devoluzione alla Chiesa nel caso di estinzioze della linea). Ora i Patriarchi Aquileies ebbero a dichiarare solennemente alla Dieta di Norimberga d'esser principi d'Italia e si rifiutarono, come tali, di ricevere l'investitura in Germania (BOHMER. Acta Imperii Selecta, n. 222, 1206, 3 giugno.). Il piccolo territorio dei conti abbracciava in origine soltanto poche terre nella media valle dell'Isonzo: Cormóns, Tolmino, le chiuse di Plezzo furono aggiunte più tardi ai primitivi possessi mercè continue usurpazioni che qui, come nel Trentino, i conti di Gorizia e del Tirolo, commisero a danno della Chiesa di cui erano avvocati (Sulle vicende del possesso di Tolmino sino alla pace di Worms e sugli sforzi fatti da Cividale perché esso e le chiuse del Prodil fossero conservate a Venezia si veda A. SACCHETTI, Per il possesso di Tolmino, nel Nuoro Archivio Veneto, t. X. p. I (1905). pag. 17 seg. Tolmino fu disputato di continuo, nei secoli XIV e XV. dal Patriarca e dal conte di Gorizia: nel 1338. 26 agosto, vediamo ricordata nella Gastalda patriarcale di Tolmino, la mons de Corn, cioè il Monte Nero degli odierni nostri communicati). Il nesso feudale del Goriziano colla sede Aquileiese e perciò coll'Italia fu riconosciuta solennemente, una volta di più, nel 1424, quando il conte Enrico di Gorizia ricevette dal doge di Venezia successo nei diritti del Patriarcato, l'investitura dei suoi antichi feudi. Tale investitura ebbe luogo dinanzi alla chiesa di S. Marco, al cospetto del patriziato Veneto e della nobiltà Goriziana, seguendo gli antichi riti del mondo feudale, ed il conte Enrico presto nelle mani di Francesco Foscari il giuramento di fedeltà alla Repubblica. Se non che, la casa di Gorizia finì ingloriosamente nel 1500, ed in virtù d'antichi patti di successione, gli Absburgo ne impugnarono tosto i possessi con ben altro animo che non fosse quello dei loro deboli antecessori. La Casa d'Austria, infatti, non soltanto disconobbe i legami che univano il Goriziano al Friuli, ma rievocò i diritti dell'Impero sugli antichi possessi della chiesa Aquileiese che la Repubblica Veneta si era appropriati nel 1420 e questa fu una delle cause precipue della lunga guerra fra l'imperatore e Venezia, durata dal 1508 al 1514. La pace di Worms sanzionò i confini fra le due potenze in lotta, attribuendo all'Impero Gorizia e Gradisca e l'alta valle dell'Isonzo fino a Caporetto ed alla chiusa di Plezzo, mentre il rimanente Friuli, compreso Monfalcone, apparteneva a Venezia; ma la Casa d'Austria non se ne accontentò e di lì a poco occupò anche Aquileia, che il trattato aveva riconosciuto come possesso del Patriarca.

Gorizia era così passata definitivamente sotto la signoria Austriaca. Si deve ritenere per questo che, dinanzi al diritto pubblico dell'epoca, il Goriziano s'intendesse staccato dall'Italia? La Casa d'Austria ebbe nella penisola altri possessi che pure, per tale circostanza, non vennero affatto aggregati al regno Tedesco; il dubbio perciò è legittimo. Io penso che la risposta debba essere negativa almeno per il periodo che corre dalla pace di Worms al 1602, anno nel quale l'Imperatore Ferdinando II, unì la contea all'Impero Germanico. Anche quest'atto, cosi tardivo, sembra, però, viziato nei suoi fondamenti, perché Ferdinando dichiara d'aggregare i Goriziani «quali veri antichi tedeschi», mentre dai documente risulta che una tale trasformazione etnografica del Friuli orientale esisteva soltanto nei giudizi della Cancelleria imperiale o nei desideri di qualche nobile desideroso d'appartenere al sacro Romano Impero. Di che razza di Tedeschi si trattasse ce lo dice Carlo VI, il quale nel 1732 dovette prescrivere ai capitani imperiali di Gorizia, di Gradisca e di Trieste d'adoperarsi affinchè il popolo «non canzonasse i forestieri che parlavano Tedesco».

Abbiamo parlato di Trieste. Quanto a Trieste ed all'Istria nessun dubbio può accadere sull'antica loro appartenenza al regno Italico; esse sono compresi nel confine della Venezia quale fu riconosciuto fino al principio del secolo XIX dalla stessa Cancelleria imperiale. Abbiamo già ricordato come i diplomi degli Imperatori dei secoli X-XIII considerino Trieste e l'Istria quali provincie del Regno Italico. Altri documenti confermano esplicitamente questa indicazione. Benchè l'Istria fosse assoggettata, in certi periodi, durante il secolo XI, ai Margravi che dominavano anche nella Carniola e nella Carinzia, il nesso del regno Italico non fu mai posto in dubbio; così il diploma del Vescovo di Parenzo, Sigimbaldo, del 1014, ricorda all'inizio, secondo lo stile dell'epoca, l'imperatore regnante Enrico II «anno imperii eius hic in Italia secundo» (BENUSSI, Nel Medioevo (Parenzo, 1897), pag. 408, n. 240.). 

Dal principio del secolo XIII l'Istria passò ai patriarchi Aquileiesi e per lungo tempo essa e Trieste formarono tutt'uno col Friuli. Poi Venezia estese, a poco a poco, la sua signoria sui porti Istriani e nel corso dei secoli XIV-XV divenne padrona di tutta la piccola penisola, fatta eccezione per un minuscolo territorio interno, la contea di Pisino, che era stata concessa in feudo dai vescovi Parentini ai conti di Gorizia era poi passata, per eredità, ai duchi d'Austria (BENUSSI (op. cit., 428) ricorda un documento del 1368, nel quale il Vescovo di Parenzo infeuda al conte di Gorizia Pisino, Visignano, Montona, cioè le terre che formano parte della così detta contea d'Istria).

L'Istria rimase Veneziana sino al 1797, e fu soltanto la caduta della Repubblica che la pose, dopo le turbinose vicende Napoleoniche, in mano all'Austria.

Quanto a Trieste, essa cadde, è vero, sin dal 1382, in potere del duca, ma da questo non si può affatto dedurre che si intendesse sottratta all'Italia (Quanto alla stessa dedizione del 1382. è molto dubbio che essa sia stata spontanea, come ho osservato nel mio articolo. La dedizione di Trieste, nel Resto del Carlino di Bologna dell'11 febbraio 1915: sulla storia dei rapporti di Trieste coll'Italia son da vedere i notevoli articoli di A. TAMARO, nel Corriere della Sera). 

Erano i tempi nei quali i nostri Comuni amavano chiamare signori d'oltr'Alpe a tutelarli contro le minacce d'altre città e di principi limitrofi. In quel torno il duca d'Austria era signore di Treviso, di Feltre, di Belluno, tutte città che s'erano poste sotto la sua protezione senza punto pensare di staccarsi per questo dall'Italia e di cadere nella cerchia del regno Germanico. Non v'ha dubbio che lo stesso sia avvenuto di Trieste. I documenti Triestini sono espliciti su questo punto. Nel 1485 un documento asserisce che la città era soggetta «imperatoribus qui tunc in Italia dominabantur». Nel 1524 essa si opponeva risolutamente all'introduzione della lingua Tedesca negli atti ufficiali, dichiarando che Trieste è nei confini d'Italia e che i suoi cittadini hanno, come propria, la lingua Italiana (Tolgo queste attestazioni dal memorando discorso Per l'università italiana a Trieste pronunziato da ATTILIO Hortis alla Camera dei deputati di Vienna il 16 marzo 1902 (Trieste, 1902), pag. 10 e seg. — Tale mirabile lotta di Trieste contro il Governo arciducale e gli Stati della Carniola è da raffrontare con quella combattuta, in quel torno, da Rovereto contro il conte del Tirolo per gli stessi scopi: ved, nell'archivio Storico per Trieste, ecc., III. 72 e seg. i documenti pubblicati dal Morandi). 

Soltanto nel 1818 l'Austria pensò di aggregare Trieste alla confederazione Germanica, che s'era sostituita all'Impero spazzato dalla tempesta Napoleonica. L'aggregazione abbracciava tutte le provincie Italiane acquisite dall'Austria nel 1815, ad eccezione dell'Istria, e partiva dal presupposto che tali provincie avessero appartenuto all'antico impero (Nella Confederazione germanica del 1815 entrarono, oltre gli Stati minori, l'Austria e la Prussia con tutte le posessioni... che avevano anticamente appartenuto all'Impero germanico. Del Regno prussiano rimasero fuori le provincie di Prussia e Posen e il principato di Neuemberg. — Vedere SCHRÖDER, op. cit., pag. 879, n. 2). 

Presupposto fallace per due motivi:

anzitutto, perché alcuni territori come Trieste, Monfalcone, Grado non erano mai stati aggregati a quello Stato, e in secondo luogo perché la Confederazione Germanica aveva un carattere strettamente nazionale che l'impero antico non poteva avere, composto com'era di tanti elementi diversi. Tale aggregazione, dunque, mutava profondamente lo stato preesistente al quale pretendeva richiamarsi, e si deve considerare come un atto del tutto arbitrario (Nella costituzione della Confederazione germanica culmina la tendenza, che già si era manifestata nei scoli precedenti, di confondere i diritti spettanti all'Impero romano-germanico, con quelli del Regno tedesco. Un esempio delle conseguenze di questo modo d'agire lo si ha nelle vicende delle provincie borgognone. Queste formavano parte del Regno di Borgogna, che era affatto separato, ancora nel secolo XII. dal Regno tedesco, benchè formasse parte dell'Impero. Sul finire del Quattrocento Massimiliano I d'Austria sposò Maria di Borgogna e venne così in possesso di quelle provincie; nel Cinquecento ne vediamo formato il a «Reichskreis» di Borgogna, che abbracciava, come s'è detto, il Lassemburgo, la Franca Contea e la Fiandra. Nel 1815, su queste basi, il Lussemburgo fu aggregato alla confederazione germanica!)

Abbiamo così esaminato il lato esteriore del problema e l'esame delle fonti ci ha dimostrato come il legame fra le estreme provincie della Venezia ed il Regno Italico non sia mai stato spezzato. Certamente, quelle provincie si trovarono in possesso di dinastie straniere, ma questo non poteva rompere l'unità del regno Italico, come non ruppe l'unità del regno Germanico il fatto che i re d'Inghilterra possedevano il reame d'Annover e per tal motivo facevano parte della dieta Tedesca.

Se questo è il responso delle fonti quanto al legame formale, non diverso è quello che riguarda il problema dell'indole del diritto pubblico e privato, un problema più profondo che interessa la natura stessa del popolo. Del resto, è ben giustificato che sia così, poiché la vita giuridica non è che una faccia del poliedro della vita nazionale, e se l'architettura, la pittura, la poesia, la formazione sociale delie provincie estreme della Venezia sono e furono nei secoli, come ognun sa, profondamente Italiane, non diversa poteva essere la vita del diritto.

Fu gia osservato, ad esempio, come il quadro della società feudale che i documenti Trentini dei secoli XII e XIII ci presentano, risponda esattamente ai lineamenti delle rimanenti provincie Venete (Ved, per ciò, la recente memoria di SALVIOLI. L'italianità di Trento nel suo diritto medioevale, nella Ric. italiana di Sociologia, XIX. 328 e seg (Roma, 1915). Egli fonda in sua disamina sopra tutto sul codice Wangiano): baroni liberi, polenti ministeriali, una bassa feudalità costituita dalle masnade, una serie di feudi esclusivamente amministrativi, tutto ciò ci richiama allorganismo feudale del patriarcato Aquileiese o del vescovado di Treviso.

E come in Friuli, anche nel Trentino, i Comuni riescono ad aprirsi la via con difficoltà, perché accanto ai magistrati elettivi stanno sempre, come ampia giurisdizione, gli ufficiali del Vescovo. Di questa dura lotta, tutta italiana, troviamo le traccie nei più antichi statuti del Trentino, dove si protesta contro la «mala consuetudo» che il Vescovo succedesse nei beni di coloro che fossero morti senza figli, escludendo così gli altri parenti (Statuti di Rovereto (1425-1620), con una introduzione di TOMASO GAR (Trento, 1859), г. 70. — La parte più antica di questi statuti riproduce come fu già avvertito dal Gar, pag. xv, la redazione statutaria di Trento all'inizio del secolo XIV; il Voltelini li attribuisce al 1303-1306)

Evidentemente, si tratta di antichi livellari che vanno trasformandosi in proprietari, ed è caratteristico che i Comuni Trentini lottino contro i signori feudali per liberare queste proprietà dalle restrizioni alla disposizione e dagli oneri che le aggravano, precisamente come avviene nei Comuni Toscani ed Emiliani. Anche nel complesso delle disposizioni, gli statuti del Trentino dimostrano la loro stretta parentela cogli altri Veneti: fu dimostrato come buona parte delle rubriche dei più antichi statuti di Trento e di Rovereto abbia affinità letterali e sostanziali con gli statuti di Vicenza e di Verona (Lo dimostrò il VOLTELINI, Die älteste Redaction cit., pag. 175 e seguenti). E quasi ad affermare solennemente questa Italianità, su di un esemplare degli Statuti di Trento del 1425, conservato ora ad Innsbruck (È il cod. 470. capsa 4. n. 32. dell'Archivio luogotenenziale di Innsbruck; la notizia fu data al Voltelini dal Farinelli (ved. VOLTELINI, op. cit.. pag. 191 e 192. n. 1), troviamo, non senza commozione, trascritti da una mano del secolo XV la terzina Dantesca:

Tu proverai siccome sa di sale 
lo pane altrui o com'è duro calle 
lo seondere e il salir per l'altrui scale.

Sembra che nei tempi felici della libertà, l'ignoto giurista Tridentino antivedesse i mesti giorni del futuro servaggio!

Più interessanti ancora per il nostro argomento, sono i lineamenti del diritto pubblico dell'Istria medievale. Qui non soltanto sono apertissimi, come nel Trentino, i rapporti colla rinascente Venezia, ma son chiare le venerande vestigia di Roma, meglio forse che in ogni altra regione d'Italia. I documenti Istriani ci mostrano come sia ininterrotta la catena che unisce gli istituti del basso Impero e gli ordinamenti Bizantini colla organizzazione provinciale e cittadina dell'Istria nel secolo IX e X, e poi coi Comuni del XII e XIII (La dimostrazione fu data dal MAYER nel suo importantissimo studio. Die istrich-dalmatische Munizipalverfassung, nella Zeitschrift der Savigny Stiftung, g-A, XXIV, pag. 211 e seg). E dove non sopravvivono queste antiche traccie di Romanità, vediamo lineamenti affatto consimili a quelli dell'Italia superiore. Così la costituzione dei magnati dell'Istria del secolo XI per il mantenimento della pace riproduce le norme penali del libro Pavese (La «pax» fu pubblicata dal KANDLER nel Cod. diplomatica istriana e poi nei M. G. H. Constitutiones, I, 610. L'estensione del duello giudiziario, In divisione dei beni del giustiziato fra il fisco ed i parenti ci ricordano i capitoli di Ottone I e di Enrico II del Liber Pupiensis), e più tardi la lotta dei Comuni Istriani contro il Patriarca Aquileiese per ottenere libertà d'eleggersi consoli e podestà ha carattere assolutamente Italiano. La costituzione comunale di Trieste, quale risulta dai suoi antichi Statuti, rientra perfettamente nel quadro degli altri nostri Comuni: l'arrengo, il maggior consiglio, il podestà, i rettori, i procuratori ed i sindaci del Comune, son tutti istituti che noi troviamo cogli identici lineamenti nella maggior parte delle città Italiane. Più tardi i Comuni Istriani entrano completamente nell'orbita di Venezia, ed a chi ha ammirato il palazzo di Capodistria, e i Carpacci ed i Vivarini delle chiese di Pirano e di Parenzo, od ha sentito fiorire sul labbro del popolano d'Isola o d'Albona l'arguzia Goldoniana, non farà meraviglia di vedere come nello statuto di Rovigno le pene siano comminate, «come nell'alma città di Venetia et per ogni loco si osserva». (Statuti municipali di Rovigno (Trieste, 1851), I. III, с. 51).

Il diritto privato non ha minori caratteristiche prettamente Italiche del diritto pubblico. Nei documenti Trentini del secolo XIII avvertiamo questo fatto:

certi istituti Germanici, del resto largamente diffusi anche in Italia, come la Morgengabe, son ricordati soltanto nei contratti celebrati fra i nobili; il rimanente della popolazione regola i propri rapporti patrimoniali colla dote Romana e colla corrispondente donazione «propter nuptias». Erano dunque i feudali venuti dal di fuori al seguito dei Vescovi in buona parte d'origine Tedesca che mantenevano in uso, fra loro, gli istituti Germanici; il popolo si regolava, invece, secondo il diritto Romano. Ciò non può meravigliare, quando pensiamo alle numerose professioni di diritto Romano che si trovano nei documenti Tridentini dell'epoca più antica. Così l'influenza delle scuole che rinnovarono lo studio dei testi Romanistici vi si potè espandere con somma rapidità, e nei documenti dell'inizio del secolo XIII le formule sono perfettamente corrispondenti a quelle dei documenti notarili dell'Istria superiore e media.

Negli statuti dei secoli XIII e XIV vediamo regolata la successione in modo del tutto conforme ai dettami Giustinianei; si parla d'azioni personali, reali, utili, dirette e si distingue l'azione penale dall'«actio civilis» spettante al danneggiato, come si potrebbe fare nelle regioni dove più si sentì l'influsso delle scuole Romanistiche (Statuts di Rovereto cit., r. 80). Nella stessa Gorizia, che pure ebbe ad ospitare una serie di principi rozzi e non ad altro intenti che a guerre ed a rapine, la prevalenza del diritto romano è indubbia. Nel duecento vediamo ricordati dai documenti istituti intieramente Romanistici, come il costituto possessorio, il beneficium divisionis, l'exceptio non numeratae pecuniar, e così via (Lo si può vedere nei Documenti goriziani pubblicati da VINCENZO IOPPI nell'Archeografo triestino, XI seg. (Trieste, 1885 e seg.), e nei Documenti feiulani e goriziani diti dallo Swida, pure nell'Archeografo, XIV (Trieste, 1888). Gli stessi conti della linea più propriamente Goriziana regolano i rapporti patrimoniali del matrimonio colla dote, mentre nei contratti della linea Tirolese troviamo la Morgengabe (Ved. CORONINI, Tentamen Genealogico-Cronologicum-promovendae serici comitum et rerum Goritiae, Viennae, 1752, pagg. 173 206).

D'altronde, i notai della casa contale provenivano sovente dal Friuli patriarcale, dove il diritto romano trionfava da molto tempo sui resti del diritto longobardo. L'unita giuridica della regione friulana così formata praticamente, ebbe poi un riconoscimento ufficiale quando i conti ordinarono che fossero osservate anche nel Goriziano le costituzioni provinciali approvate nel 1366 dal Parlamento friulano.

Il quadro Romanistico diviene poi ancora più intenso quando da queste regioni passiamo all'Istria, e ciò è ben naturale perche quest'ultima non fu mai occupata dai Longobardi, e pur essendo stata più tardi assoggettata dai Franchi non ebbe a subire le vaste colonizzazioni feudali che portarono molti elementi Germanici nelI'Italia settentrionale e nella Toscana. I documenti Istriani dal secolo IX al XII ci rivelano un ordinamento della proprietà fondiaria simile a quello delle regioni più romanizzanti d'Italia (Descrissi tali lineamenti nelle mie Note ai documenti istriani di diritto privato dei secoli IX-XII, nella Miscellanea di studi in onore di Attilio Hortis (Trieste, 1900), pag. 179 segg.)

Caratteristica è pure la mancanza, in tali atti, d'ogni traccia d'istituti Germanici come la Vadia e il Launegildo che pur ebbero tanta diffusione nell'Italia settentrionale e nella Toscana. L'organizzazione della famiglia s'impernia sulla fraterna compagnia e sulla comunione fra i coniugi, due istituti, che troviamo pure in alcune regioni romaniche come la Sicilia e la Sardegna e son certamente dovute ad una formazione giuridica volgare delle plebi Romane.

Se queste sono le caratteristiche del diritto privato Istriano in un'età nella quale sono ancora così forti, in quasi tutta l'Italia le traccie dell'influenza Germanica, è facile comprendere quale dovesse essere lo svolgimento giuridico dell'Istria più tardi quando, attraverso il Friuli, prima, e Venezia, poi, le pervennero i dettami delle grandi senole romanistiche Italiane. Così vediamo, negli statuti Istriani, Romani i termini della prescrizione e dell'età maggiore, la potestà paterna e l'emancipazione, troviamo la donna libera da restrizioni patrimoniali, e nella successione vediamo mancare quella spiccata preferenza per gli agnati che pur si trova in tanti statuti d'altre regioni Italiane (Ved. Statuti di Rovigno cit., libro 11, г 419. 33. 54, e Stututi di Parenzo (Trieste, 1846), 11, c. 81.)

Tutto ci parla, dunque, di Roma e dell'Italia, in queste provincie che, pure, per la loro posizione geografica furono costrette a subire tante volte l'assalto barbarico e poi, più tardi, lingordigia dei principi che se le disputavano come prede agognate. Come le arti vi si affinarono colla materna dolcezza Italica che ci parla nelle splendide cattedrali, nei palazzi, nelle tele, nelle sculture delle città Istriane e Trentine, come le lettere vi trovarono elettissimi interpreti quali a Capodistria il Vergerio, il Muzio, il Carli, e a Rovereto il Tartarotti, e poi più oltre il Rosmini, il Maffei, il Prati, e tanti altri, così anche la coscienza giuridica ebbe uno svolgimento tutto italiano. Come gli altri fratelli della penisola, Istriani, Goriziani, Trentini conservarono nel profondo medioevo gli istituti della romanità e quando la procella Germanica si fu dissipata e gli studi rifiorenti diffusero nell'Europa ammirante le parole solenni degli Imperatori ed i raziocinii dei grandi giuristi Romani, essi pure parteciparono a quell'opera eccelsa di rinnovamento civile che per l'Italia sarà sempre ragione di gloria, una gloria che i secoli potranno bensì accrescere ma non offuscare. Perché non dobbiamo dimenticare che settecento anni or sono, quei nostri giuristi avevano saputo fissare alcuni principii dei quali, invano, oggi, in questa terribile convulsione europea, chiediamo, in nome della giustizia, un'onesta applicazione.

Avevano essi stabilito che i singoli cittadini non dovessero esser ritenuti responsabili di quanto potesse venir addebétato alla comunità, ed ogni giorno vediamo invece popolazioni innocenti perseguitate nella vita e negli averi per le supposte colpe dei loro governi; avevano stabilito che l'innocente non debba esser mai punito in luogo del colpevole, ed ogni giorno infelici ostaggi perdono la vita per fatti altrui molte volte neppur bene accertati. Nulla v'ha di più angoscioso del veder distruggere il patrimonio più sacro dell'umanità, quelle idee che rappresentavano la lenta conquista della civiltà sulla barbarie, ed è veramente un'ironia feroce del destino che i figli di provincie, Italiane per antiche storiche tradizioni, per razza, per ragioni geografiche, debbano combattere nelle file d'eserciti che muovono in nome d'una civiltà nutrita d'uno spirito così profondamente diverso ed opposto alla «humanitas» vanto della gente latina.

Ma dalla tenebra orrenda sorgerà poi la luce anche per quei nostri fratelli infelici; il sangue degli eroi ed il pianto delle madri saranno olocausto che ai popoli d'Europa aprirà di nuovo le vie al progresso civile; al regno della forza succederà il regno della giustizia, ed al sanguinante Edipo perseguitato dalle Furie vendicatrici, Pallade Atena aprirà ancora una volta il suo tempio, e la sotto lo scudo delle leggi immortali della giustizia troverà alfine riposo l'umanità dolorante e placata.

P. S. LEICHT.