Il rifiuto italiano alle proposte di pace di Carlo I Ciò che il recensore riporta sul tema (peraltro già noto) delle trattative di pace è sicuramente del massimo interesse. È vero che si opponevano alla pace l’elemento ungherese, la componente austriaca pangermanistica e, cosa assai più importante, la dirigenza tedesca, che voleva appunto una “pace vittoriosa” e non di compromesso. Dal canto suo, l’Italia rifiutò offerte di pace che la riportavano alla “condizione prebellica”. Come interpretare quest’affermazione? Se le offerte fatte all’Italia per aderire ad una pace di compromesso la riportavano “ad una condizione prebellica”, ciò significa evidentemente che all’Italia non era stato offerto niente di niente, nessun compenso territoriale, anche minimo. Scontato, pertanto, il rifiuto del governo italiano.
Ma qualcuno potrebbe pensare, e lo ha pensato, che il rifiuto dell’Italia all’iniziativa di pace dell’Asburgo sia stata una cattiveria, perché avrebbe costretto gli Alleati a rifiutarle a loro volta, favorendo così il prolungamento dell’”inutile strage” (che, comunque, per noi italiani, pur restando “strage” non fu affatto “inutile” dato che ci permise di completare finalmente l’unità nazionale con il raggiungimento dei legittimi confini naturali). Bisogna aver ben chiara una cosa: sia nel tentativo della primavera del 1917 che in quello dell’inizio del 1918, del quale raramente si parla, Carlo I si rifiutò ostinatamente di fare qualsiasi concessione, anche minima, all’Italia, da lui detestata in quanto “malefico nemico ereditario” da combattere sino all’ultimo sangue. Gli statisti delle grandi potenze dell’Intesa, per quanto rotti a tutte le astuzie e cattiverie della politica, non potevano imporci una pace di compromesso che non ci desse assolutamente nulla, dopo che avevamo dato un notevole contributo di sangue alla causa comune. Questa è la verità, per ciò che riguarda Carlo I e l’Italia nella faccenda delle trattative di pace, anche se non piacerà ai fabbricanti di santini.
E non solo Carlo I mostrò una chiusura totale nei nostri confronti, si fece anche sedurre dall’idea della “pace vittoriosa”. L’inverno del 1918, dopo la vittoria di Caporetto dell’autunno precedente, con l’esercito austro-ungarico attestato saldamente sulla linea dal Grappa al Piave, era il momento decisivo per trattare con l’Intesa (cioè con Wilson) una pace separata in base ai famosi 14 punti del presidente americano, da posizioni ancora valide, nonostante il disgregamento da tempo in atto nell’Impero (spinge centrifughe sempre più forti, fame e carestie, forte calo della produzione industriale, scioperi, ammutinamenti militari repressi nel sangue, enorme numero di disertori nelle retrovie). Con l’entrata in guerra del colosso americano la guerra era persa per gli Imperi Centrali, era solo questione di tempo. Bisogna riconoscere che era difficile sganciarsi dalla pesante tutela tedesca. Mancarono tuttavia la ferrea determinazione e la prontezza di riflessi necessarie: per salvare il salvabile, mantenere cioè l’istituto monarchico e la dinastia e un territorio ancora rispettabile, bisognava diventare una monarchia costituzionale, istituire il federalismo e fare delle concessioni territoriali. Invece Carlo I impegnò le residue forze nella scriteriata offensiva generale sul Piave (battaglia del solstizio, 15-23 giugno 1918) che si risolse in un fiasco completo di fronte alla tenace resistenza italiana. Da quel momento l’esercito imperial-regio fu costretto ad una precaria difensiva, che divenne praticamente impossibile dopo l’improvviso collasso del fronte balcanico, con il crollo della Bulgaria nel settembre del 1918, che apriva al nemico la strada di Sofia, Belgrado, Budapest.
Basta con il cattolicesimo pappa del cuore, inflazionato dalla Gerarchia attuale. Ha sbagliato, allora, il Papa a far beato Carlo I d’Asburgo? Non entro nel merito della questione, anche se da più parti si è sempre sottolineata la disinvoltura con la quale Giovanni Paolo II ha creato tanti santi e beati, dopo aver reso meno severe le regole in proposito. Dico che, nonostante sia stato un nostro pervicace nemico, Carlo merita comunque rispetto per le sue indubbie qualità: di uomo, padre di famiglia, soldato; per la grande dignità e forza d’animo con la quale sopportò l’esilio. Fu uno dei pochissimi monarchi cattolici a non avere amanti (quelle degli Asburgo erano in genere fascinose contesse ungheresi), a condurre quindi una vita privata veramente esemplare, fulgido esempio ai suoi sudditi, come ogni re e principe cattolico avrebbe sempre dovuto essere. Come comandante di battaglione e corpo d’armata fu coraggioso e capace, ben voluto dai soldati. Combatté contro di noi nella cosiddetta “spedizione punitiva” (1916) o battaglia degli altipiani, che nelle intenzioni del feldmaresciallo Conrad doveva prendere da Asiago tutto il nostro fronte sul rovescio e farlo crollare. L’offensiva, dopo un promettente avvio, si arenò ed anzi Cadorna contrattaccò poco dopo conquistando Gorizia, allora importante posizione strategica fortificata sull’Isonzo, in una sanguinosissima battaglia (del resto, come tutte quelle della prima guerra mondiale), unico successo dell’Intesa in tutto il 1916. Come comandante in capo, tuttavia, Carlo I sbagliò nell’autorizzare l’offensiva finale dell’estate del ‘18.
Ma come imperatore e comandante in capo in una guerra della quale non era stato direttamente responsabile, non aveva il diritto di tentare (magari sbagliando) un’ultima battaglia per la salvezza del suo Stato contro quello che considerava “il nemico ereditario”, che da tre anni teneva sanguinosamente inchiodato il suo esercito? Certo che ce l’aveva, ma allora eliminiamo la motivazione “pacifista” della beatificazione, quella che ha fabbricato il santino caramelloso del capo di Stato e di eserciti preoccupato unicamente di por fine, nel pieno di una guerra micidiale, alla “inutile strage”, manco fosse stato una Dama di S.Vincenzo. E si abbia il coraggio di dire, quale che fosse l’intenzione che ha mosso Woityla, il cui padre (disse) aveva servito nell’esercito austro-ungarico durante quella tremenda guerra, che si può esser beati ed anche santi pur se, da reggitori di uno Stato cattolico in guerra, si impugna alta la spada e si decide di combattere sino in fondo, ammazzando il maggior numero possibile di nemici, per conseguire una vittoria decisiva ai fini della sopravvivenza del proprio Stato.
Italiani spergiuri, vi distruggeremo. L’avversione di Carlo I nei nostri confronti risulta in modo espresso da uno scambio epistolare con il Kaiser. Poco dopo i falliti negoziati segreti di pace della primavera del 1917, che, resi pubblici in seguito dal primo ministro francese Clemenceau, procurarono a Carlo I violente accuse di tradimento da parte dei tedeschi, mettendolo momentaneamente in una posizione difficile anche presso l’opinione pubblica del suo impero, ci fu l’undicesima offensiva italiana sull’Isonzo (agosto-settembre 1917), che portò alla conquista dell’altopiano carsico della Bainsizza e del Monte Santo, obiettivi importanti ma non decisivi, ottenuti a prezzo delle consuete gravi perdite. Ma l’esercito imperial-regio era stato sul punto di cedere, il suo fronte era stato rotto anche se solo per poche ore, non vi erano quasi più riserve valide. Carlo I aveva dovuto allora rivolgersi all’imperatore tedesco, Guglielmo II, con una lettera del 26 agosto 1917, chiedendo il suo aiuto. Questa lettera mi sembra mostri la vera personalità dell’imperatore, in quanto capo di Stato e dell’esercito, nell’esercizio di quello che riteneva il suo dovere di capo militare supremo dei suoi popoli. Seriamente preoccupato per la situazione, egli ardeva dal desiderio di infliggere un colpo decisivo a quello che considerava il nemico per antonomasia, verso il quale non nascondeva la sua profonda avversione. Dal punto di vista militare, l’idea di una potente offensiva di alleggerimento era del tutto corretta. Le geniali modifiche al piano iniziale apportate dal generale tedesco Krafft von Dellmensingen l’avrebbero resa micidiale per noi: sfondando a monte dopo essersi procurata di sorpresa la necessaria superiorità locale con truppe scelte a Caporetto, e scendendo rapidamente lungo l’Isonzo alle spalle dell’esercito italiano, si poteva tentare di chiuderlo in una gigantesca sacca, sbilanciato com’era a semicerchio in avanti, verso Trieste.
“Caro amico – scriveva l’imperatore – le esperienze che abbiamo maturato nelle undici battaglie dell’Isonzo hanno fatto crescere in me la convinzione che in una eventuale dodicesima offensiva [italiana] ci troveremmo in spaventose difficoltà […] Perciò vi chiedo, caro amico, di persuadere i vostri generali comandanti affinché tolgano le divisioni austro-ungariche dal fronte orientale [per trasferirle su quello dell’Isonzo] e le sostituiscano con truppe tedesche. Voi certamente capirete perché io tenga molto a guidare solo mie truppe nell’offensiva contro l’Italia. Tutto il mio esercito chiama la guerra contro l’Italia “la nostra guerra”. In ogni ufficiale, sin da giovane, è stata instillata da suo padre l’emozione, il desiderio nel suo cuore di combattere contro il nostro tradizionale nemico. Se truppe tedesche dovessero operare sul fronte italiano, ciò avrebbe un effetto depressivo sul loro entusiasmo”.
Guglielmo II rispose con estremo favore, il 1° settembre 1917. “Voi potete esser sicuro che grandi grida di gioia si sono levate non solo nel mio esercito, ma in tutta la Germania, quando è arrivata la notizia che truppe tedesche, a fianco dei vostri valorosi combattenti dell’Isonzo, daranno insieme un duro colpo agli italiani spergiuri. Dio ci conceda che quel giorno sia vicino.” I generali tedeschi vollero mandare alcune tra le loro truppe migliori in appoggio all’alleato ed esser loro a preparare il piano operativo. Ringraziando comunque per l’offerta, che accettava, Carlo scrisse, per ciò che riguardava gli italiani, che la risposta gli aveva dato “una doppia gioia, perché vedo per noi la possibilità di ferire profondamente il nemico italiano con i mezzi di una potente offensiva” e di “vedere le nostre forze unite nell’inseguire vittoriosamente il malefico nemico”[1].
Noi italiani eravamo dunque per Carlo I ed i suoi popoli, “il nemico ereditario” e “secolare”, addirittura “malefico”. Questa plurisecolare avversione era naturalmente ricambiata, dato che anche per noi l’Austria era “il nemico secolare”, quella potenza che dapprima aveva partecipato attivamente alle ingiustificate Guerre d’Italia (1498-1535), le crudeli campagne delle Potenze di allora, che avevano consegnato quasi tutta l’Italia per più di tre secoli allo straniero, cercando in tutti i modi (l’Austriaco) di conquistare (senza riuscirvi) la Repubblica di Venezia; riuscendoci invece alla fine del ciclo napoleonico, quando organizzò le sue prede italiane nel Lombardo-Veneto; l’Austria, poi Austria-Ungheria, che si era sempre tenacemente opposta non solo alla nostra unificazione nazionale ma anche a qualsiasi federazione di Stati italiani, dominando per decenni la situazione politica e militare della penisola. Era solo l’Austria asburgica, con la quale la Germania ci aveva imposto una forzata coabitazione nella Triplice, a sbarrarci implacabile la via verso i nostri confini naturali sull’arco alpino centro-orientale. E difatti, avevamo dichiarato guerra alla Germania solo nell’agosto del 1916, a più di un anno dal nostro intervento (24 maggio 1915), ritardo che aveva irritato alquanto francesi ed inglesi. La “nostra guerra” era contro gli austriaci, non contro i tedeschi, che del resto non mostrarono mai un particolare desiderio di farcela, nonostante le pressioni austriache, che li costrinsero sin dal 1915 a mandare loro unità sulle Dolomiti. In una di esse militò il futuro filosofo monacense Karl Löwith, l’acuto critico di Heidegger, al tempo diciottenne ebreo patriottico e volontario di guerra, ferito e fatto prigioniero dal nostro esercito. E allora perché gliela dichiarammo la guerra, ai tedeschi? Perché non potevamo evidentemente resistere all’infinito alle pressioni alleate, essendo noi sempre i parenti poveri dell’alleanza, dalla quale dipendevamo per materie prime e rifornimenti alimentari. Costretti ad esser moralmente “spergiuri” dunque? Formalmente, la dichiarazione di guerra alla Germania era tuttavia giustificata, visto che truppe tedesche combattevano comunque contro di noi pur in assenza di dichiarazione di guerra, e quindi in violazione del diritto internazionale[2].
Guglielmo II ci chiamava “spergiuri”, dunque. Si trattava in ogni caso di un tradimento solo morale, dato che noi, dichiaratici neutrali all’inizio della guerra, fatto quasi un anno dopo l’accordo segreto con gli Alleati, avevamo denunciato la Triplice circa tre settimane prima di dichiarar guerra. Nessun attacco a tradimento dunque. Per gli austriaci si apriva un secondo, difficile fronte, impegnati com’erano in Europa orientale e nei Balcani. Ma la nostra entrata in guerra contro di loro era attesa da tempo. Ci aspettavano con calma nelle loro robuste fortificazioni del fronte isontino e dolomitico. Si parla sempre del nostro “tradimento”, e di sicuro ci verrà rinfacciato di nuovo nel pullulare di scritti per il centenario della Grande Guerra, e tuttavia mai della grave slealtà commessa da tedeschi ed austriaci nei nostri confronti, quando l’Austria mandò il 23 luglio 1914 il famoso ultimatum alla Serbia, con l’approvazione della Germania, senza consultarci. Come alleati, non avremmo dovuto dare anche noi la nostra approvazione preventiva? Ci posero di fronte al fatto compiuto, tanto noi eravamo l’anello debole, che non doveva dare fastidio. Il fatto è che, probabilmente, l’Italia si sarebbe opposta ad un ultimatum concepito in quel modo, che non lasciava praticamente ai Serbi alcun margine di manovra, nemmeno la possibilità di salvare la faccia. E a proposito di slealtà e violazione delle alleanze, si è saputo in un secondo tempo (ma la cosa non doveva essere ignota ai nostri vertici dell’epoca) che il feldmaresciallo austriaco Conrad aveva progettato e proposto un attacco di sorpresa (preventivo) in tempo di pace contro l’Italia alleata nella Triplice, per eliminarla in tempo quale potenziale nemico. Un vero e proprio attacco a tradimento. Era una sua fissazione, quella di far fuori l’Italia con una guerra preventiva, nella quale non era tuttavia del tutto isolato. Tant’è vero che di recente alcuni studi hanno scoperto che anche ambienti vicini allo Stato maggiore svizzero si sarebbero associati volentieri all’attacco, per riprendersi la Valtellina, dicevano, e migliorare a loro vantaggio il loro confine con noi (come se il Ticino gli svizzeri non l’avessero tolto a tradimento al Duca di Milano, l’ottuso Lodovico il Moro, quando, da lui assoldati per difenderlo dal re di Francia, si accordarono con quest’ultimo, consegnandogli il Duca e il ducato in cambio del Ticino, appunto). Insomma, chi è senza peccato scagli la prima pietra, come si suol dire. (Chi continua a parlare oggi stoltamente di “secessione” del Nord Italia o anche della sola Lombardia, ricca terra sempre concupita dagli stranieri, farebbe bene a riflettere su questi trascorsi. Trascorsi poi non più di tanto, se è vero che esponenti politici svizzeri e televisioni luganesi (di Stato?) si sono divertiti di recente a giocare alla fantapolitica, ipotizzando l’annessione della Lombardia alla Svizzera, senza che (per quanto ne so) l’on. Bonino, nostra ministra degli esteri, ci trovasse nulla da ridire, presa com’è a difendere i “diritti delle donne” in tutto il mondo, poveretta).
L’offerta di pace di Carlo non contemplava l’Italia, come se non esistesse. Tornando a Carlo I imperatore, dai sentimenti che rivelano le sue lettere al Kaiser, si capisce perché l’offerta di pace di compromesso non contemplasse in alcun modo “il malefico nemico ereditario”. Essa, fatta in segreto dal principe Sisto di Borbone, cognato dell’imperatore ed ufficiale nell’esercito belga, offriva ai franco-inglesi lo sgombero del Belgio occupato, la restituzione alla Francia dell’Alsazia-Lorena occupata dai tedeschi con compensi alla Germania ad opera della stessa Austria (Galizia, parte della Polonia elevata a Regno sotto tutela tedesca), il mantenimento della Duplice Monarchia accanto ad un Regno degli Slavi del Sud sotto sua tutela, con uno sbocco al mare per la Serbia. Per l’Italia si limitava ad augurarsi la mediazione della Francia e l’Inghilterra. Il significato di questa richiesta di “mediazione” resta oscuro. La trattativa fallì perché, pur considerata interessante dai franco-inglesi, non concedeva assolutamente nulla all’alleato italiano, che al tempo non aveva ancora subito la pesante sconfitta di Caporetto (fine ottobre del 1917). Il presidente del consiglio francese, disse alla Camera, il 12 ottobre 1917, che la Francia non poteva accettare un’offerta “qui lassait volontairement de côté l’Italie”. Informato dai francesi, Sidney Sonnino, ministro italiano degli esteri, rifiutò di prendere in considerazione qualsiasi proposta di pace che non riconoscesse all’Italia quanto si erano impegnate a riconoscerle Francia, Gran Bretagna e Russia in caso di vittoria (con il Patto di Londra del 1915, che comunque non prevedeva la dissoluzione dell’Austria-Ungheria).
La calunnia di un doppio gioco del governo italiano A questo punto si ebbe un giallo, perché l’imperatore fece dire ai francesi dal principe Sisto che gli italiani (esteriormente granitici) gli avevano in realtà fatto in segreto offerte di pace da lui rifiutate in cambio di “Trento ed Aquileia”, cosa che suscitò lo sdegno dei negoziatori francesi. La vicenda di questa supposta offerta segreta di pace del governo italiano è stata a suo tempo ricostruita con un’accurata ricerca negli archivi da parte di Leo Valiani (Woiczen), ebreo fiumano di origine bosniaca ma di sentimenti italiani, famoso esponente dell’antifascismo intransigente e trascorso nume tutelare della Costituzione della nostra repubblica. Egli fu a suo tempo valido autore di studi su quegli eventi, concretatisi in un apprezzato volume sulla “dissoluzione dell’Austria-Ungheria”. Per i particolari, rimando il lettore ad un articolo da lui scritto per la ‘Rivista Storica Italiana’. In sintesi, i fatti devono esser stati questi.
Giolitti, sempre neutralista, si manteneva all’opposizione ed in contatto con la galassia antiinterventista e neutralista, rappresentata in Italia da uno schieramento trasversale comprendente cattolici, socialisti, liberali. Le sparute iniziative di pace del tutto autonome, cervellotiche, goffe e prive di fondamento (iniziative alle quali i funzionari austriaci erano abitutati e che non prendevano sul serio), che sembra siano avvenute anche a quell’epoca, provenivano sicuramente da questa galassia e non avevano nulla a che vedere con la posizione ufficiale del governo italiano. Nel caso di specie, il sospettato fu Giolitti, senza però che si trovasse mai alcuna prova. Alla luce delle nostre conoscenze (a meno che non emergano o siano emersi nuovi documenti ) si deve dire che l’imperatore Carlo si sia lasciato fuorviare da informazioni inaccurate, sempre che non le abbia usate maliziosamente, al fine di giustificare il suo rifiuto di concedere alcunché all’Italia[3].
Il pregiudizio antiitaliano dell’alta dirigenza austriaca fece naufragare i negoziati del 1918 per una pace separata. Nel 1918 ci furono nuove e più importanti trattative segrete, coinvolgenti questa volta gli americani, trattative che avrebbero potuto dare un esito diverso alla guerra, per quanto riguardava l’Austria-Ungheria, naturalmente al prezzo di concessioni. Esse entrarono nel vivo dopo l’enunciazione dei 14 punti di Wilson, nel gennaio del 1918. Mi affido sempre a Valiani. Si tratta comunque di fatti abbastanza noti, nelle loro linee generali.
In seguito alle conversazioni fra l’accademico austriaco pacifista Lammasch e il pastore Herron, emissario di Wilson, “che il presidente Wilson aveva perfino autorizzato a recarsi, se necessario, in incognito a Vienna, per discutere sul posto, ove l’imperatore si fosse deciso ad attuarla, la trasformazione federale dell’Austria-Ungheria, in pro delle nazionalità slave– Carlo I fece tuttavia un ulteriore passo. Non appena ebbe ascoltato il rapporto di Lammasch, il sovrano asburgico inviò al re di Spagna, affinché lo trasmettesse a Wilson, un messaggio telegrafico col quale si dichiarava d’accordo coi princìpi di pace posti nel discorso presidenziale dell’11 febbraio [che integrava i famosi 14 punti, enunciati l’8 gennaio precedente). Il messaggio faceva però capire che l’Austria-Ungheria continuava ad esigere il rispetto dello statu quo territoriale prebellico, nei confronti delle richieste italiane, che definiva contrarie ai diritti degli slavi fedeli all’Impero. Il ministro degli Esteri inglese, Balfour, interpellato dal fiduciario, colonnello House, fece presente che il governo di Vienna cercava di respingere a priori le rivendicazioni italiane, e di scoraggiare contemporaneamente le popolazioni slave, che guardavano già all’Intesa. Il presidente americano, rispondendo il 5 marzo all’imperatore, gli chiese dunque proposte concrete per “il soddisfacimento delle aspirazioni nazionali slave” e l’indicazione specifica delle “concessioni del tutto precise all’Italia” che l’Austria-Ungheria sarebbe stata disposta a fare. In una replica che Carlo I redasse, egli non potè nascondere che all’Italia (che, evidentemente, gli austriaci ritenevano, dopo la sconfitta di Caporetto, priva di possibilità di ripresa militare) non era intenzionato a fare concessioni territoriali. Così ogni trattativa s’arenò.
Herron stesso [convinto sostenitore delle aperture di Wilson] si persuase che la tesi di quegli italiani, cechi, jugoslavi (e, indipendentemente da costoro,di quei rivoluzionari ungheresi) che puntavano sul sollevamento dei popoli soggetti all’Austria-Ungheria, aveva per sé l’avvenire”[4].
Così tramontò il progetto americano di una pace separata con la duplice monarchia. Questo progetto era stato perseguito per lungo tempo e tenacemente da Wilson, unitamente a quegli influenti ambienti franco-britannici ad esso favorevoli. Tant’è vero che quando entrò in guerra nella primavera del 1917, il presidente americano non dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. L’avversario vero era la Germania. La dichiarazione venne, dopo molto insistenze italiane, solo nel dicembre del 1917, dopo la nostra sconfitta di Caporetto e dopo che avevamo stabilizzato il fronte. Ma Wilson non volle mai mandare truppe in Italia e dimostrò più volte la sua scarsa simpatia nei nostri confronti. Oltre ai pregiudizi calvinisti contro un popolo “papista”, aveva una moglie di origine croata. Allo sfondamento della fronte nemica a Vittorio Veneto, nell’autunno del 1918, gli americani parteciparono con un solo un reggimento. Dopo Caporetto, l’Italia stava leccandosi le ferite, non era in condizione di porre condizioni a chicchesia. Se Carlo I ci avesse fatto una qualche limitata concessione territoriale, ad esempio il Trentino, molto probabilmente i nostri Alleati non avrebbero avuto troppa difficoltà a farcela accettare. Ci tenevano assai a staccare l’Austria dalla Germania.
Esiste una vulgata secondo la quale la I guerra mondiale fu il risultato di un complotto massonico per distruggere la monarchia asburgica, ultimo Stato ufficialmente cattolico. L’atteggiamento filoaustriaco di Wilson, politico che la summenzionata vulgata considera addirittura “massonissimo”, sembra dimostrare il contrario. Oltre che nei governi dell’Intesa, le Logge erano ben rappresentate anche in quello austro-ungarico. Credo si possa affermare che una parte consistente della massoneria internazionale fosse favorevole a preservare la duplice monarchia, naturalmente riformata in modo “democratico” ovvero in senso federale e disposta ad alcune inevitabili concessioni territoriali, sull’ampiezza delle quali si sarebbe comunque potuto discutere. Wilson cercava inizialmente di continuare la politica inglese, vecchia di due secoli, che, in nome dell’equilibrio europeo, voleva preservare l’impero asburgico, anche se “riformato” nel senso che si è detto. Di una sua trasformazione in senso federale si discuteva del resto da tempo anche nell’ambito dell’Impero, ben prima della guerra, per trovare uno sbocco costituzionalmente valido alle tensioni sempre più forti che lo laceravano.
Il fatale errore di Carlo I I tedeschi, dopo il crollo della Russia, invece di cercare di giungere ad una pace che sarebbe stata abbastanza vantaggiosa perché, di contro alle inevitabili cessioni nei confronti di belgi e francesi, avrebbe dato loro mano libera ad Est, si convinsero di poter vincere la guerra anche in Occidente, prima che gli americani avessero dispiegato tutto il loro enorme potenziale bellico, con un’ultima grande serie di offensive, grazie all’impiego delle truppe liberate dalla scomparsa della Russia dalla guerra. Nella primavera e poi nell’estate del 1918, nonostante notevoli successi iniziali, le offensive tedesche fallirono e la Germania cominciò a subire le controffensive alleate, cominciando a perdere la guerra. In appoggio alla loro strategia, i tedeschi avevano cominciato a premere sugli astro-ungarici per un’offensiva sul fronte italiano. Carlo I non ebbe la forza di opporsi e di certo lo attraeva l’idea di una vittoria contro l’Italia, l’odiato “nemico secolare”; vittoria forse decisiva perché avrebbe potuto eliminare finalmente l’Italia dalla guerra, dare all’impero le agognate risorse agricole della pianura padana e portare ad una pace vantaggiosa o in alternativa costituire il valido presupposto della battaglia finale contro l’Intesa. Purtroppo l’imperatore si lasciò contagiare dal facile ottimismo di quei generali che consideravano gli italiani del tutto finiti militarmente. “Sono pronti timbri e targhe ricordo per l’occupazione, data per scontata, di Venezia e Milano. Ed è pronta persino la cerimonia per assegnare, a Vicenza, il bastone di maresciallo all’imperatore in trionfo”[5].
Lo storico militare austriaco Peter Fiala ha stigmatizzato duramente il fatale errore dell’imperatore, che non volle ascoltare l’opinione di quei generali che sconsigliavano l’offensiva nel modo più assoluto, a causa delle condizioni di esaurimento dell’esercito e del paese. La pur grande vittoria di Caporetto non aveva affatto eliminato l’esercito italiano come forza combattente. Dopo aver bloccato da solo in durissimi combattimenti il nemico austro-tedesco sul Piave e sul Grappa nel novembre 1917, a conclusione della battaglia di Caporetto, iniziatasi il 24 ottobre (da solo, cioè prima che entrassero in linea le cinque divisioni franco-britanniche, dislocate comunque alle sue spalle come riserva operativa), il Regio Esercito si era gradatamente rinforzato e ripreso, migliorando l’addestramento e la tattica. Accanto a 50 divisioni nazionali erano schierate tre divisioni britanniche, due francesi, una cecoslovacca. C’erano poi due divisioni italiane che combattevano in Francia, dove si sarebbero distinte nella battaglia di Reims; una in Macedonia e una in Albania. In prima linea le divisioni italiane e alleate erano 44 contro le 49 e mezzo austro-ungariche. Le loro dotazioni di aerei, artiglieria, munizioni e viveri erano però nettamente superiori. Saggezza imponeva di mettersi sulla stretta difensiva e cercare di giungere rapidamente alla pace[6].
Così, nei nove giorni dal 15 al 23 giugno del 1918, l’offensiva sul Piave e sui monti, dopo qualche successo iniziale, si spense di fronte alla tenace resistenza italiana e gli attaccanti dovettero ritornare sulle posizioni di partenza. Da quel momento, Carlo I cercò disperatamente di giungere a condizioni accettabili di pace, mantenendo il più possibile integro il suo esercito multinazionale, mentre si accentuava sempre più il disgregamento etnico e sociale del suo Stato. Ma ormai era troppo tardi. Visto il successo che la loro controffensiva stava avendo in Francia e nei Balcani, gli Alleati puntavano ormai alla vittoria e facevano orecchie da mercante ad ogni richiesta. E quando la situazione materiale dell’imperial-regio esercito si fu ulteriormente deteriorata, gli italiani e i loro alleati passarono all’offensiva su tutta la linea, ad un anno di distanza da Caporetto, sfondando sul Piave le indebolite linee austro-ungariche dopo una battaglia durata comunque cinque giorni (dal 24 al 29 ottobre) che portò al dissolvimento dell’esercito stesso. In tal modo Carlo I dovette alla fine accettare un armistizio, i cui termini, imposti dal Consiglio Interalleato di Parigi, erano in realtà quelli di una capitolazione incondizionata (4 novembre 1918). Quel giorno, con il raggiungimento dei confini naturali della Patria unita e la scomparsa del secolare nemico, aveva fine per noi il grande dramma apertosi l’8 settembre 1498, quando Carlo VIII re di Francia, occupando Asti, iniziava le infami Guerre d’Italia, che ci avrebbero ridotti per tre secoli in servitù.
[1] Per il testo delle due lettere: Ronald W. Hanks, Il tramonto di un’istituzione. L’armata austro-ungarica in Italia (1918), 1994, tr. it., Mursia, Milano, pp. 37-38.
[2]Karl Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Prefazione di R. Koselleck, Postfazione di Ada Löwith, tr. it. di E. Grillo, Il Saggiatore, Milano, 1988: “ Nel maggio del 1915, dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria, il mio reggimento [di fanteria bavarese] fu aggregato al corpo degli alpini tedeschi e trasferito sul confine italo-austriaco […] Un addestramento da barbari a Brunico, per una parata alla presenza dell’imperatore Carlo d’Austria, ci avvelenò gli ultimi giorni prima della marcia sulle Dolomiti, dove ci accampammo a 2000 metri di quota”. Offertosi di andare coraggiosamente di pattuglia, Löwith fu ferito gravemente al polmone e catturato in uno scontro a fuoco con i nostri alpini, curato in un ospedale da campo italiano e poi smistato in una piccola fortezza in riva al mare per prigionieri austriaci a Finalmarina. Nell’ospedale da campo il Nostro rimase due mesi e il padre riuscì a visitarlo. Egli “riuscì a ottenere il permesso di visitare per alcune ore, in un paese nemico, il suo unico figlio […] (Bisogna ricordare che a quell’epoca l’Italia era in stato di guerra dichiarata solamente con l’Austria, non ancora con la Germania, nonostante che sul fronte austriaco fin dall’inizio della guerra avessero combattuto anche truppe tedesche).” (op. cit., pp. 19-23). Löwith restò prigioniero per due anni e venne rimpatriato a causa della ferita al polmone, in uno scambio di prigionieri. Poiché il polmone si era ormai atrofizzato, venne congedato (op. cit., pp. 25-29).
[3] Leo Valiani, Recenti pubblicazioni sulla prima guerra mondiale, ‘Rivista Storica Italiana’, 1963, IV, pp. 559-560; pp. 575-576. Valiani dovette italianizzare il suo cognome in applicazione di una legge del 1929, durante il fascismo. Esponente di spicco della Resistenza e del Partito d’Azione, dopo la guerra lavorò come funzionario in un’importante banca italiana. Sicuramente avrebbe potuto illuminarci su di un aspetto ancor oggi solo sfiorato: il modo nel quale avveniva il finanziamento del movimento partigiano da parte degli Alleati. A merito di Valiani va comunque ricordato, per obiettività storica, che egli votò contro l’iniquo Trattato di Pace del 1947, assieme a Benedetto Croce, V. E. Orlando e non pochi altri.
[4] Leo Valiani, Nuovi documenti sui tentativi di pace nel 1917, in appendice a ID., La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Mondadori, Milano, 1966, pp. 451-488; pp. 476-477. Dopo il fallimento di queste trattative cominciò sulla stampa britannica una violenta campagna a favore della dissoluzione della duplice monarchia (vedi infra: Peter Fiala, op. cit., nota n. 5, p. 26).
[5] Pier Paolo Cervone, Vittorio Veneto, l’ultima battaglia, Mursia, Milano, 1994, p. 111.
[6] Peter Fiala, Il Piave (1918). L’ultima offensiva della Duplice Monarchia, a cura di G. Primicerij, con annessa Relazione Ufficiale austriaca, tr. it. di G. Primicerij, Arcana ed., Milano, 1982, pp. 17-198; in particolare, pp. 77-101. L’offensiva fu per di più mal concepita perché non attuò l’indispensabile concentrazione delle forze. Fiala accusa l’imperatore (che era comandante in capo e voleva esserlo nei fatti) di inesperienza e dilettantismo per ciò che riguarda l’impostazione strategica generale dell’offensiva.