mercoledì 28 febbraio 2024

Le aspirazioni nazionali dell'Italia

(Scritto da Guglielmo Ferrero, tratto da The Living Age, volume 301, 26 aprile 1919.)

Le aspirazioni nazionali dell'Italia sono davanti alla Conferenza di Pace. Divulgare queste aspirazioni, così come le vede l’intera nazione, e rivelare i principi chiari e semplici che ne sono alla base, non dovrebbe essere una questione priva di interesse.

Una nazione è un’unità morale che cerca di realizzare, per quanto possibile, la sua unità materiale: geografica, economica e politica. Se la teoria delle frontiere naturali si è spinta troppo oltre, è tuttavia vero che soltanto il possesso delle frontiere naturali può rendere perfetta, sicura e definitiva la formazione storica di una nazionalità. Quali guerre hanno desolato la terra semplicemente perché le grandi pianure non offrono, per dividere popoli e stati, che le linee ideali tracciate dalla forza degli uomini! Ora, se c'è un paese in Europa di cui la natura ha creato una perfetta unità geografica, quello è l'Italia. In tutte le epoche i geografi hanno visto nelle Alpi i confini naturali di quella penisola destinata ad essere il primo focolare di civiltà in Europa.

Si può facilmente comprendere, quindi, come l'Italia sia arrivata a includere tra le sue ambizioni belliche, l'obiettivo di riunire a sé le creste settentrionali ed orientali delle Alpi, vale a dire le frontiere che Augusto aveva assegnato all'Italia, ma che erano tenute nel 1914, dall'Impero austro-ungarico. Avanzando su quella linea, e annettendo il Trentino e l'Istria, l'Italia realizzerebbe, ad un tempo, la sua unità geografica e nazionale. Sarebbe, in Europa, il modello quasi perfetto della nazione che, qualora il desiderio di guerra la prendesse, dovrebbe affrontare le maggiori difficoltà nell'attaccare gli altri, possedendo, nel contempo, le migliori strutture di difesa nel caso fosse attaccata da altri.

È vero che l'unità nazionale non corrisponde sempre e dovunque all'unità geografica, soprattutto in Istria piccoli gruppi slavi sono radicati entro le frontiere che l'Italia considera suoi confini naturali. Le popolazioni di questa regione sono così mescolate che sarebbe impossibile tracciare una frontiera che rispetti tutte le razze e tutte le lingue senza mandare in frantumi in modo assurdo ogni unità politica e amministrativa. La questione da decidere è dunque questa: da quale delle due razze e lingue prenderà il carattere nazionale il potere che governa l'Istria? Si possono avere dubbi su questo punto? Gli slavi che popolano l'Istria si trovano più o meno nella stessa situazione di certi gruppi europei che abitano tante regioni e città dell'America; cioè questi slavi sono una minoranza immigrata che ha valicato poco a poco le Alpi e si è stabilita nelle campagne e nelle città come pastori, agricoltori e operai; sono venuti per colmare le lacune lasciate tra le fila dei nativi da guerre o epidemie. L'antica stirpe che per prima popolò questa regione, costruì le città e organizzò lo Stato era di ceppo italiano. Si può negare ad un primo abitante il diritto di conservare al suo paese il carattere nazionale che gli ha dato, e la sua unità geografica e morale?

Queste piccole minoranze slave, però, non sono gli unici gruppi alieni presenti entro i confini del Regno d'Italia. Nelle Alpi occidentali si trovano popolazioni francesi e nelle Alpi centrali gruppi tedeschi. L'uno e l'altro sono i relitti di vecchie immigrazioni o invasioni. Da più di cinquant'anni queste popolazioni vivono sotto la legge italiana e non si lamentano. Hanno le loro scuole e non sono mai state oggetto di una campagna di denazionalizzazione forzata. Ogni famiglia è lasciata libera di mantenere la propria lingua madre o di scegliere la lingua italiana, o anche di mescolarsi liberamente con entrambe le nazionalità come desidera. La fortuna dei piccoli gruppi slavi dell'Istria non sarà dissimile.

Un po' fuori dalla questione dei confini geografici della penisola, troviamo la questione di Fiume, che in questo momento appassiona al massimo grado l'opinione italiana. Questa questione si pose all'improvviso sull'Europa e l'armistizio fu appena firmato. Per comprendere questa vicenda bisogna avere ben chiara la situazione in cui Fiume si era trovata con la caduta dell'Impero austro-ungarico. Fiume è un'antica città italiana circondata da zone rurali slave, una città che ha conservato il suo carattere italiano nonostante la presenza di elementi ungheresi, croati e tedeschi, più o meno allo stesso modo di New York, nonostante i suoi milioni di abitanti. degli europei, conserva il suo carattere americano. Questa città, mentre era sotto il dominio degli Asburgo, era stata incorporata all'Ungheria, di cui divenne il porto sull'Adriatico. La città fu, quindi, sottoposta alla dominazione straniera. La sua situazione, tuttavia, aveva alcune compensazioni che la rendevano tollerabile. Fiume non era solo una città autonoma che godeva di certi privilegi; era anche il secondo porto di una delle grandi potenze d'Europa e faceva parte di un impero di alto rango culturale. Per una città italiana, fondata e abitata da un popolo in grado di rivendicare il diritto di primogenitura tra i popoli civili d'Europa, questo risarcimento aveva un'importanza capitale. Si può così immaginare che Fiume restasse parte dell'Impero austro-ungarico, mentre Trieste passava nelle mani dell'Italia; cioè se nel 1918 come nel 1859 e nel 1866, l'Impero Asburgico fosse riuscito a salvarsi cedendo parte del suo territorio. Ciò spiega perché il Trattato di Londra non si occupò del caso di Fiume.

Ma l'impero austro-ungarico è scomparso, e dalla sua scomparsa nasce la questione di Fiume. Se Fiume avesse potuto restare nell'Impero austro-ungarico, non avrebbe mai potuto essere incorporata, senza violenze ed ingiustizie, a quel nuovo Stato slavo che sta sorgendo sulle rovine dell'Austria. L'antica città italiana perderebbe il suo rango e i suoi privilegi di autogoverno; passerebbe da uno dei grandi imperi e delle alte culture d'Europa a uno Stato secondario, che senza dubbio farà una brillante campagna nel campo della cultura superiore, ma deve ancora conquistarsi l'ingresso in quel dominio; il paese, non potendo ricongiungersi con quelli della propria nazionalità, subirà nuovamente una dominazione straniera. Soltanto per Fiume la guerra mondiale, che porta a tanti popoli la libertà e la soddisfazione delle aspirazioni nazionali, apparirebbe come una calamità e un disastro. Ma Fiume non può accettare questo destino senza diventare un pericoloso focolaio di malcontento e una causa permanente di discordia tra gli stati vicini.

Resta inoltre la questione della sicurezza militare dell'Adriatico e delle città e dei centri di vita italiana che fioriscono sulla costa orientale, ultime vestigia della colonizzazione veneziana, Zara, Spalato, Sebenico, ecc. Eviterò qui di entrare in quelle vivaci discussioni che sono scoppiate in Italia intorno alla soluzione più saggia di queste due questioni. Mi accontenterò di dire che qualunque sarà la soluzione adottata, essa sarà accolta favorevolmente dal popolo italiano se gli darà soddisfazione riguardo ai due punti a lui più cari. L'Italia desidera che la costa orientale dell'Adriatico, così ricca di porti e di isole (famoso nido di pirati fin dall'epoca classica), non possa minacciare la costa occidentale, quasi indifesa. Desidera anche che i gruppi italiani della costa orientale possano vivere in pace e svolgere liberamente la loro vita nazionale. L’Italia non può tollerare a lungo che queste città e gruppi siano oggetto di persecuzione o di una campagna di denazionalizzazione violenta, anche se questi attacchi sono mascherati.

Queste sono le pietre miliari delle aspirazioni nazionali dell'Italia. Per essere riconosciuto, il popolo italiano guarda soprattutto all'alto spirito di giustizia del presidente Wilson e alla calorosa amicizia della Francia.

Con la sua imparzialità disinteressata, il presidente Wilson ha saputo dominare, nel ruolo di giudice e arbitro, questa terribile tragedia dell’Europa. Ci auguriamo, pertanto, che egli riconosca che in tutte le questioni l'Italia guarda meno alla questione dell'annessione territoriale quanto a quella di sostenere e portare a conclusione trionfante alcuni principi cari. Rispetto ai terribili sacrifici che abbiamo fatto, 500.000 morti, 80.000.000.000 spesi, la nostra esistenza disordinata per mezzo secolo, il territorio che l'Italia rivendica non è che piccolo. Fiume, la cui sorte è oggetto della viva ansia dell'intera nazione, non è che una graziosa cittadina di 45.000 abitanti. Non è possibile alcun paragone tra le conquiste territoriali che otterrà l’Italia e quelle che otterrà la Serbia. Ma questi territori, per quanto piccoli in estensione, sono per noi simboli di alcuni principi vitali per il mondo intero: la completa emancipazione delle popolazioni italiane da ogni dominio straniero, il raggiungimento dell'unità morale e geografica della nazione, la sicurezza delle frontiere e dei mari, la possibilità di partecipare al sistema politico che assicurerà all’Europa la pace e la libertà di tutti i popoli, grandi e piccoli. Abbiamo sopportato volentieri tutti i sacrifici necessari per portare alla vittoria in guerra proprio questi principi; speriamo di gioire del loro trionfo nella misura in cui la giustizia e la sicurezza della civiltà occidentale lo richiedono.

Per quanto riguarda la Francia, speriamo che sosterrà le nostre giuste rivendicazioni, per una ragione basata su principi di portata più generale dei nostri interessi particolari. Il mondo slavo è entrato, presto entrerà il mondo teutonico, nell’era della rivoluzione. È facile prevedere che la lotta sarà lunga, seria, complicata e che le sue conseguenze saranno infinite. Bisogna dunque opporre alle convulsioni e alla follia che sconvolgeranno i popoli slavi e germanici la fermezza politica e morale degli Stati, nei quali prevarranno ancora la ragione e la giustizia. Nell’Europa continentale solo la Francia e l’Italia possono compiere questa missione, dalla quale dipende, forse, la salvezza dell’Europa. Si ribalta così la situazione di un secolo fa. Ma per raggiungere questo scopo Italia e Francia devono essere unite, e per essere unite devono fare la pace come hanno fatto la guerra, in pieno accordo quanto alle loro aspirazioni e ai loro principi.

Bufala: la falsa frase pronunciata da Mussolini a Pola

"Io credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 Slavi Barbari a 50.000 Italiani!"

Si sostiene che questa frase fu pronunciata da Mussolini il 21 settembre 1920 in un discorso a Pola (Istria). Infatti, Mussolini pronunciò un discorso a Pola il 21 settembre 1920. L'intero testo del discorso fu pubblicato nel 1920 quando fu pronunciato, ma quella frase non fu mai pronunciata da Mussolini. L'intero discorso è contenuto in uno dei volumi dell'Opera Omnia di Mussolini. Il discorso è citato anche da Giorgio Chiurco nel suo libro Storia della Rivoluzione Fascista, Vol. 2 (1929). E quella falsa frase non c'è.








Tuttavia, la fonte originale (dove è stato pubblicato il testo completo del discorso) è dato: «Il Popolo d'Italia, N. 230, 25 Settembre 1920».

Il discorso è vero, ma la frase è falsa. La fonte più antica che possiamo trovare (sia in italiano che in serbo-croato) proviene da un libro del 1998 di Darko Dukovski (macedone nato a Pola) intitolato "Fašizam u Istri: 1918-1943" che cita queste due frasi (in italiano e croato): 

"Io credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 Slavi Barbari a 50.000 Italiani!" "Vjerujem da lakše Mogu žrtvovati 500.000 barbarskih Slavena od 50.000 Talijana." 

Se Mussolini lo ha detto davvero in un discorso, allora perché non c'è un testo italiano degli anni '20, '30, '40? Perché la citazione non si trova nelle sue opere ufficiali? 
La citazione sembra apparire per la prima volta in italiano nel libro di Darko Dukovski del 1998.

Sembra che chi ha pensato a questo deve aver pensato alla politica dei tedeschi, vale a dire: 10 uccisi per ogni 1 tedesco ucciso. I tedeschi utilizzarono questa politica in Italia (e probabilmente altrove). Giustiziarono 10 partigiani italiani per ogni tedesco morto.

Ecco cosa ha detto veramente: "Ma per realizzare il Sogno Mediterraneo bisogna che l'Adriatico, che è un nostro Golfo, sia in mani nostre. Di Fronte a una Razza come la Slava, Inferiore e barbara, non si deve seguire la Politica che dà lo zuccherino, ma quella del Bastone."

Discorso di Pola, 21 settembre 1920
di Benito Mussolini

Cittadini di Pola! Combattenti!

Sta dinanzi a voi uno degli uomini politici italiani più combattuti e più odiati negli ultimi venti anni di vita politica. Questi hanno inasprito talmente la mia eloquenza, se mai si può parlare di eloquenza, per cui io non so fare delle sviolinate.

Per me un discorso è un'azione, è un combattimento. Punto direttamente nell'obiettivo. Perciò dovrete credermi se vi dico che sono profondamente commosso.

Noi cittadini della vecchia Italia siamo un po' adusati: abbiamo bisogno di venire fra voi per rituffarci in questi magnifici bagni di idealità.

Ho visto delinearsi la grandezza dell'Arena romana, nella quale la civiltà nostra millenaria incise i suoi segni eterni. Questi segni ci dicono che l'italianità di questa città non può perire. Vorrei condurre qui quegli scettici che vogliono vedere la concretizzazione della nostra vittoria.

Per me il valore della vittoria è in questi segni; è negli imponderabili del futuro; consiste nel fatto che il popolo ha realizzato dopo quindici anni di schiavitù, con le proprie forze, con le proprie energie, la sua vittoria.

Lo sforzo dell'Italia in guerra è stato infinitamente superiore a quello delle altre nazioni, alle quali la fortuna aveva dato imperi coloniali da sfruttare, mentre noi abbiamo costruito la vittoria dalla nostra carne viva e dal sangue vermiglio dei nostri morti.

E questo segno della nostra vittoria è più visibile a Pola, dove gli Absburgo avevano fatto il loro covo per la flotta, che non osò mai uscire in campo aperto, che bisognò rintracciare. Da qui gli Absburgo sognavano la conquista dell'Adriatico.

Ora quest'impero è finito, è crollato come uno scenario sdrucito.

Io so che nel futuro, quando tutti gli italiani avranno conquistato la coscienza della loro vittoria, si sentiranno orgogliosi e ripeteranno come i legionari di Napoleone, venti anni dopo la fine dell'epopea napoleonica: « Io sono stato in trincea; io sono stato a Vittorio Veneto ».

Io penso, o amici di Pola, che l'unità della stirpe italiana si è realizzata. In questo è il valore spirituale della vittoria.

Io penso che l'Adriatico è nostro.

Certo se noi avessimo avuto altri uomini politici, più visibile sarebbe questo valore, che oggi è nascosto.

Gli ultimi uomini politici assomigliavano a una scala discendente: da Boselli, troppo vecchio, siamo scesi a Orlando, che piangeva sempre, per discendere infine a Nitti. Questi era l'uomo dalla mentalità economista. Non dico che l'economia per uno Stato grande sia una cosa trascurabile. Dico che tutta la vita di un popolo non può esser vista entro un prisma che schiaccia ogni spiritualità. Nitti era ossessionato da problemi più materiali. Non vedeva la parte superbamente ideale della vita nazionale. Ci darà Giolitti la pace adriatica che noi vogliamo? Non oso affermarlo; non oso dirlo, perché troppa politica rinunciataria si è fatta.

Tante pagine di eroismo per mare, per cielo e sulla terra non le ha scritte nessun popolo del mondo come quello italiano in questa guerra! Vorrei leggervi il testamento dei nostri eroi; quello di Decio Raggi e del nostro Nazario Sauro; vorrei leggervi l'epistolario di quei giovani imberbi, che andavano ad una battaglia come ad una festa di nozze, per mostrarvi come si è battuto il popolo italiano. E si è battuta meravigliosamente la plebe agricola, quella che solo imperfettamente comprendeva i motivi ideali della grande lotta. Ricordo sul Carso il discorso di un fante durante una battaglia. Egli mi diceva: « La guerra la fa la scarpa grossa ». E noi abbiamo vinto per noi e per gli altri. Quale nazione ha saputo fare lo sforzo che abbiamo fatto noi nel giugno? Nessuna.

I nostri giovani andavano all'assalto scherzando, accendevano le bombe come s'accendono le sigarette. Basta ricordare lo Stelvio e l'Ortigara, il Carso e il Grappa. Romanamente ha espresso la nostra vittoria il generalissimo Diaz nel bollettino del 3 novembre. Il valore della vittoria è, come dissi, negli imponderabili del futuro.

Noi siamo in crisi. Ma in crisi sono tutti gli Stati d'Europa. Chi non ha subito spostamenti, dissesti, dopo questa guerra? Forse è peggiore la crisi del dopoguerra in Francia e in Inghilterra, molto peggiore ancora in Germania e negli Stati sorti dall'ex impero austro-ungarico che quella dell' Italia. Non parliamo della crisi russa. Non bisogna essere pessimisti. Noi in questi giorni abbiamo dimostrato come noi stiamo superando felicemente la nostra crisi.

Pareva che dovesse scoppiare la guerra civile; mentre noi abbiamo raggiunto una trasformazione profondamente rivoluzionaria nel rapporto della produzione. Io sono pronto a riconoscere alla classe lavoratrice il diritto di controllo nella fabbrica: quando esso sarà in grado di portare maggior benessere alla Nazione.

Se la classe dirigente è moribonda, è necessario che, secondo la convinzione di Vilfredo Pareto, sorgano delle nuove èlites sociali a sostituirla. Ma oggi nego questa superiorita alla classe lavoratrice. La nego specialmente per il fatto che è dominata da una demagogia che ha soltanto mutato colore. Ai preti si sono sostituiti i preti.

Pazienza se questi demagoghi si limitassero a fare una politica economica; ma essi trattano anche di politica estera mettendosi sempre contro gli interessi italiani e dalla parte dei nostri nemici nazionali! Cosi voi vedete che il bolscevismo è più acceso a Trieste e a Pola che a Milano; solo per danneggiare l'Italia, per creare dei pericoli ai confini.

Io faccio assegnamento nei Fasci di Combattimento. Essi sono nati in un'ora di passione della vita politica italiana. Quando cioè tutti cercavano di dimenticare Vittorio Veneto, tutti si vergognavano quasi d'aver vinto.

Io mi domando: dove trovo la fiammella ideale, la fede per questa vittoria morale?

Una nazione che ha avuto cinquecentomila morti, che ha gioventù come quella che ha combattuto, ha energie tali da meravigliare rutto il mondo.

Ma altri sintomi non meno positivi irrobustiscono questa mia fede. Fra questi il più grande è impresa di Gabriele D'Annunzio! È l'unico grande gesto di rivolta contro l'oligarchia plutocratica di Versaglia; contro i tiranni che hanno nome di Lloyd George, Clemenceau e Wilson! E l'unica volontà in Europa che, diritta e tesa come una lama di una grande spada latina, non si è piegata sotto la violenza di Versaglia!

Noi allora volevamo fare la rivoluzione italianissima!

Qual'è la storia dei Fasci? Essa è brillante. Abbiamo incendiato l'Avanti! di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali. Abbiamo incendiato la casa croata a Trieste, l'abbiamo incendiata a Pola.

Abbiamo dimostrato che non impunemente si può tentare di distruggere l'Italia; e che bisogna passare attraverso i nostri corpi!

I nostri avversali ci calunniano: ci dicono borghesi. Noi ce ne infischiamo. Sono etichette su bottiglie vuote. Noi diamo ragione a chi ha ragione, torto a chi ha torto.

Noi siamo reazionari, siamo reagenti di una pazzia: abbiamo frenato la massa popolare sull'orlo dell'abisso. Se in Italia si fosse ripetuto l'esperimento ungherese, sarebbe caduto il popolo italiano in un baratro.

La reazione sarebbe stata senz'altro vittoriosa. Pensiamo quasi che era meglio lasciar compiere il destino per liberare la nazione da quest'incubo.

Oggi però il Partito Socialista non fa più il prepotente: deve ricorrere ai sobborghi se vuole stare sicuro a Milano.

Noi non possiamo prestar fede alle minchionerie idealistiche, che per esser troppo universali, sono troppo positive.

Oltre alla cerchia dei nostri monti, o istriani, c'è un popolo aggressivo, che vuole raggiungere l'Adriatico.

Questo mare potrà essere commercialmente un mare italo-serbo, ma militarmente non lo sarà mai!

L'Italia, come il più compatto nucleo dopo la Russia e la Germania, perché ha cinquanta milioni, sarà la potenza destinata a dirigere dal Mediterraneo tutta la politica europea. Da Londra, Parigi e Berlino, l'asse si sposterà verso Roma. Italia dovrà essere il ponte fra l'Occidente e l'Oriente.

Verso l'espansione nel Mediterraneo e nell'Oriente l'Italia è spinta dal fattore demografico. È troppo ristretto il nostro territorio per un popolo così esuberante.

Ma per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l'Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre. Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone.

Il popolo italiano ha tre qualità che gli garantiscono il successo: è prolifico, è laborioso, è intelligente.

Nel futuro prossimo ogni italiano ripeterà come il cittadino romano: sono orgoglioso di essere italiano!

Noi non temiamo più le rinunce. Se il conte Sforza oserà qualche rinuncia, i legionari di Gabriele d'Annunzio occuperanno tutti quei territori a cui il ministro avrà rinunciato!

I confini d'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche; sì le Dinariche per la Dalmazia dimenticata!

Oggi l'opera dei fascisti si riduce a quella di sprangare la porta di casa e rastrellare nell'interno. Chi è dentro le nostre terre di frodo o con frode deve andarsene.

Il nostro imperialismo, che vuole raggiungere i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e che vuole espandersi nel Mediterraneo, non è quello prussiano violento, né quello inglese ipocrita; è invece quello romano.

Noi non possiamo disarmare, finché gli altri non avranno disarmato; noi non possiamo trasformare nostre spade in aratri, finché la stessa cosa non avranno fatto gli altri Stati e la Jugoslavia vicina!

Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche.

Ma a tenere salda l'Italia nelle future sue battaglie, occorre la vostra fede, o cittadini, occorre il vostro giuramento!

La voce di un soldato di Capodistria

(Scritto da Ugo Pizzarello, tratto da The Journal of American History, Vol. 13, N. 1, 1919.)

Il colonnello Ugo Pizzarello, valoroso combattente della Grande Guerra, è originario di Capodistria, che si trova poche miglia a sud di Trieste. Nacque nel mezzo della tragedia delle province irredenti, poiché, nella sua infanzia, suo padre fu sequestrato e imprigionato per l'atroce colpa di amare l'Italia e combattere con Garibaldi. Tutta la sua famiglia, esiliata dalla propria casa, si rifugiò nel regno d'Italia. Queste circostanze rimasero impresse nella sua mente giovanile come una fiamma. La sua giovinezza fu consacrata alla preparazione spirituale e morale per quella grande ora in cui l'Italia si sarebbe levata in potenza materna e avrebbe raccolto nel suo ovile i suoi figli: Trieste, Fiume, l'Istria, la Dalmazia e la valle dell'Adige. Prese le armi per l'Italia quando era ancora un ragazzo. La Grande Guerra fu per lui un chiaro appello alla realizzazione dei suoi primi sogni. Come capitano di fanteria combatté con tale eroismo che, dopo ventisei mesi di trincea, e dopo aver ricevuto quattro gravi ferite (una da un proiettile che ancora oggi giace conficcato nel cervello), fu promosso colonnello il 1 dicembre 1916. Gli furono conferite due medaglie d'argento al valor militare ed una d'oro, oltre alla croce di Cavaliere dell'Ordine Militare di Savoia. Le ultime due gli furono assegnate dal Re d'Italia, e sono le due più ambite tra tutte le onorificenze militari italiane. È stato decorato anche da Francia, Russia e Serbia. Le sue parole meritano un ascolto.
— Gli autori.

La voce di un soldato di Capodistria
Del colonnello Ugo Pizzarello

Durante gli anni della Grande Guerra ebbi viva la consapevolezza di tutti gli enormi sacrifici sopportati dal mio Paese per dare seguito a quella vittoria che si irradiava con decisione da ogni fronte italiano. Era quindi naturale che mi addolorassi ancora di più per le ingiuste trattative volte a defraudarla delle sue province italiane in favore di una nazionalità che, sul teatro dell'azione, è stata nostra nemica, oltre che dell'Intesa, fino all'ultimo battaglia.

Le nostre aspirazioni adriatiche sono solo ed esclusivamente nazionali. A chi capisce, sembra tradire ignoranza chiamare tali aspirazioni imperialismo italiano quando si ricorda che l'idea dell'unità nazionale italiana ha sempre abbracciato le regioni della Valle dell'Adige, del Friuli orientale, di Trieste, dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia.

La nostra antica madre, Roma, dopo la seconda guerra punica, sentì l'assoluto bisogno di occupare e colonizzare la Dalmazia per la propria vita e per la protezione dell'Adriatico orientale. Ancora oggi permangono le tracce di questa antica occupazione, tracce molto evidenti e positive che, per la maggior parte, la civiltà della Dalmazia moderna è essenzialmente latina.

Tale esigenza è necessariamente richiamata alla mente nel caso di Venezia, la quale, per la protezione dei suoi commerci e per la sua stessa esistenza, aveva un disperato bisogno delle coste della Dalmazia. Solo dalla Dalmazia come base d'azione poteva ostacolare le incursioni predatorie dei pirati provenienti dai numerosi porti illirici. Tutte le cittadine della costa dalmata, nei loro grandi monumenti e nelle loro costruzioni architettoniche, cantano Venezia e il suo glorioso spirito di grandezza. La stessa terribile necessità grava oggi sull'Italia, solo rafforzata dalla verità che, durante la Grande Guerra, il non possedere la costa adriatica orientale costituì uno dei maggiori svantaggi nella lotta armata. È quasi esclusivamente a causa di questo svantaggio strategico via mare se, nonostante il superbo valore della Marina Militare Italiana, noi italiani abbiamo subito così tante gravi perdite sull'acqua. Il Bollettino Ufficiale Navale, nelle sue pubblicazioni, ha chiarito molto chiaramente che, durante la crudele lotta del suo popolo, l'Italia ha sacrificato 60 unità, grandi e piccole, della sua Marina Militare e ha subito la perdita di tante navi della sua marina mercantile quante sono complessivamente a 880.000 in termini di stazza. Tutto questo depauperamento non comprende la situazione penosa della nostra costa adriatica; poiché nelle città recuperate, costantemente minacciate da invasioni così accessibili e da bombardamenti così facili, soffrimmo gravi perdite materiali e molte vittime. Oltre a ciò, furono chiamati a sopportare la rovina economica che seguì alla necessaria cessazione di tutti i loro traffici marittimi.

Dopo tanti sacrifici sul mare; dopo quell’oceano di sangue che costò circa mezzo milione di vite; dopo centinaia di migliaia di nostri feriti sparsi per l'Italia in ogni città, in ogni villaggio e nei lager, tutti registrando con la tortura vivente del proprio corpo il prezzo della propria vittoria; dopo il sacrificio economico, che grava su di noi tanto e più delle nostre risorse (la spesa di sessanta miliardi di lire per la Guerra); dobbiamo subire la discussione e la disputa su quell'unità nazionale che noi italiani nella nostra lotta abbiamo anelato e nella nostra vittoria effettivamente ottenuta?

L'Italia aveva già salvato l'umanità restando neutrale, e rendendo così possibile la prima grande vittoria dell'Intesa, quella della Marna. Quando l'Italia entrò in guerra, lo fece rinunciando a facili e magnifici guadagni e all'offerta di terre ben più estese di quelle stesse a cui aspira oggi. Ella vi entrò, affrontando serenamente tutte le torture e tutte le distruzioni di una guerra come quella che si combatte oggi, perché, terra di giustizia quale è, era consapevole dell'ideale del diritto che la spingeva a difendere la giusta causa e ciò le rese chiara la necessità del ristabilimento del Belgio, della restaurazione dell'Alsazia e della Lorena alla Francia e della giusta restaurazione di Boemia, Polonia, Romania, Serbia e Armenia.

Ma accanto all'ideale della libertà per gli altri popoli e per le altre nazionalità, è sempre esistita e tuttora vive sia nel popolo che nell'esercito una viva coscienza dell'urgente necessità dell'unità nazionale. Solo questo può assicurare lo sviluppo economico dell'Italia senza ostacoli o minacce, uno sviluppo economico che possa metterla in una situazione di potenziale prosperità per il futuro. Questa unità nazionale alla quale siamo impegnati, dopo un secolo di lotta pieno di martiri e sublimi sacrifici, non può, anzi, non deve giungere a noi contestata, soprattutto dai nostri grandi alleati che conoscono così bene lo sforzo eroico compiuto dal nostro Paese, e sappiamo altrettanto bene quanto potentemente questo sforzo abbia contribuito alla vittoria di tutti.

Riteniamo, inoltre, che le nostre aspirazioni adriatiche siano ridotte ad un minimo tale da non poter certo offendere o limitare lo sviluppo economico degli altri popoli adriatici, i quali, sotto la protezione della libera bandiera italiana, possono avere libero spazio per le loro sviluppo economico e per il loro commercio.

Chiediamo solo quel tratto di costa della Dalmazia dove gli italiani di quella terra riuscirono a difendere e mantenere la loro nazionalità nonostante le grandi avversità a loro sfavore. Gli Italiani della Dalmazia, esaltati dal lungo martirio di sottomissione al giogo straniero, devono ottenere la giusta ricompensa per tutte le sofferenze sopportate nella lunga lotta come solo i Latini sanno sopportare. Quella ricompensa è l’unione con il proprio paese.

In tutta la Dalmazia il tenore di vita e la prosperità civile portano da sempre l'impronta della civiltà italiana, mentre in tutti i suoi duemila anni di storia non scendevano in Dalmazia dalle Alpi Dinariche altro che barbari, pericoli, devastazioni, e massacri. Aspra fu la lotta di Venezia contro il suo feroce sterminatore venuto dai Balcani orientali.

La storia più recente delle nazioni balcaniche ha messo ben in luce le loro inquietudini e le loro violenze. Dopo la vittoria si rivoltarono l'uno contro l'altro, facendosi a pezzi a vicenda. Peggio ancora, un popolo tra loro, i bulgari, non ha esitato ad allearsi con i loro spietati oppressori, gli infedeli turchi, per combattere la Russia, la madre alla quale la Bulgaria deve la sua stessa esistenza come nazione.

L'Italia desidera l'amicizia con gli slavi, e lo ha dimostrato con l'efficace assistenza diplomatica sempre estesa alla Serbia nei momenti critici prima della guerra. Lo ha dimostrato durante la Guerra con le gesta compiute dai corpi dell'Esercito italiano che combatterono nei Balcani e lasciarono migliaia di morti per la resurrezione della Serbia. Lo ha dimostrato con le gesta della Marina italiana, la cui meravigliosa audacia e sacrificio sia di navi che di uomini ha salvato l'eroico esercito serbo dalla rovina definitiva.

L'Italia ha tutto l'interesse a favorire l'ascesa dei popoli slavi, ma non fino al punto di sacrificare una parte di sé e del suo popolo. Se lo facesse, si esporrebbe a nuovi pericoli di tipo pericoloso e a crescenti occasioni di guai futuri. L'Italia offre e può offrire amicizia, giusto governo, legislazione autonoma e libere comunità a tutti i popoli di ceppo non italiano che vivono nel suo territorio; ma una dura necessità oggi, che non può essere ignorata, ci spinge, ancor più di quando esisteva l'Impero austriaco, a garantire sotto adeguato controllo la sponda orientale dell'Adriatico. Questo è, ed è sempre stato, l'avamposto latino d'Oriente. Qui abbiamo un popolo nuovo nella società delle nazioni civili, un popolo al quale l’Italia ha offerto ospitalità e ha effettivamente iniziato il cammino verso la civiltà, alla cui redenzione l’Italia ha contribuito così tanto nei suoi recenti sacrifici di linfa vitale e prosperità. Eppure pretendono di esigere che l’Italia abbandoni il proprio popolo all’inevitabile violenza barbarica, i cui segni sono ormai fin troppo evidenti. Essi infatti vorrebbero che l'Italia cedesse, al di là di un mare stretto, a poca distanza dalle proprie coste incapaci di difesa, quella parte del proprio territorio meglio fortificata dalla natura per respingere i pericoli che minacciano la sicurezza e la pace dell'intera nazione...

A queste affermazioni l'Italia risponde all'unanimità: "Per i nostri figli morti in guerra; per l'eroismo dei nostri caduti; per i migliori tra i nostri figli viventi, i soldati; per le aspre battaglie delle Alpi, del Carso, dell'Isonzo, il Grappa, il Piave; dalle epiche imprese di Luigi Rizzo, Goiran, Pellegrini, Paolucci, Rossetti, Ciano e d'Annunzio; dal martirio di Battisti, Sauro, Chiesa, Felzi, Rismondo; dai supplizi di tutti i nostri feriti; in nome della Giustizia, del Diritto e della Libertà, imploriamo che ci siano restituiti i nostri figli del Trentino, del Friuli Orientale, di Trieste, dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia. Sono lo scopo speciale del nostro tenero amore, perché per tanti anni hanno sofferto invano sotto il giogo insopportabile degli stranieri."

Redenzione, non conquista

(Tratto dalla rivista "Italy Today: A Fortnightly Bulletin", Volume 2, Numero 2, 1919.)

Alcuni organi dell'opinione pubblica di questo e di altri paesi hanno più volte accusato l'Italia di una presunta tendenza all'imperialismo e di violazione dei diritti della neonata nazione jugoslava. Essi sostengono che gli italiani sono animati da spirito di conquista e che la nazione italiana, prima di entrare in guerra, avrebbe voluto che le altre grandi potenze europee si impegnassero a donarle, in caso di vittoria, alcune terre appartenute ad altre nazionalità. Ma le terre rivendicate dall'Italia sono, agli occhi di ogni italiano, alla luce di ragioni storico-geografiche, altrettanto italiane quanto la Lombardia e il Veneto, riscattati dalla dominazione austriaca rispettivamente nel 1859 e nel 1866. L'annessione dell'Istria, del Trentino e di parte della Dalmazia è il compimento dell'unità d'Italia, di quell'unità per la quale gli italiani lottarono per quattro lunghi anni, con perfetta fiducia nella giustizia della loro causa.

Se – come sostengono gli avversari e i critici dell'Italia – sono molti gli slavi che abitano la costa orientale dell'Adriatico, non è meno vero che la storia di questa terra costiera è italiana nonostante i censimenti. Non è meno vero che l’elemento italiano è sempre stato preponderante. Non è meno vero che la storia della Dalmazia, i suoi monumenti più importanti e tutta la sua cultura sono prodotti dell'influenza romana o veneziana. Non è meno vero che soprattutto le città restano ancora roccaforti del pensiero italiano. Non è meno vero che nonostante l'inferiorità numerica in alcune parti delle terre redenti, la lingua, i costumi, la civiltà di quelle terre sono prettamente italiane.

Per riscattare, non per conquistare, quelle terre, gli italiani hanno lottato, sanguinato e sofferto. Non annettono nuove terre, ma uniscono alla Madrepatria comune parti che ne erano staccate.

Questo non è imperialismo, non è conquista, è redenzione.

Precisazioni sul Beato Carlo d’Asburgo e i suoi tentativi di pace nel 1917 e 1918, per ciò che riguarda l’Italia – di Paolo Pasqualucci

Nel presentare una nuova biografia del Beato Carlo d’Asburgo, Giovanni Lugaresi ci informa che l’autrice della stessa ha analizzato “nei particolari i tentativi (trattative segrete) di porre fine alla guerra da lui intrapresi nel 1917, tentativi andati regolarmente a vuoto per diverse ragioni, non ultimi, il rifiuto da parte dell’Italia (che non voleva tornare alla condizione prebellica) da un lato, e l’avversione dell’elemento ungherese e di quella parte pangermanica dell’Austria dall’altro, nonché della Germania stessa che voleva una “pace vittoriosa”!” (RC del 7 febbraio 2014).


Il rifiuto italiano alle proposte di pace di Carlo I Ciò che il recensore riporta sul tema (peraltro già noto) delle trattative di pace è sicuramente del massimo interesse. È vero che si opponevano alla pace l’elemento ungherese, la componente austriaca pangermanistica e, cosa assai più importante, la dirigenza tedesca, che voleva appunto una “pace vittoriosa” e non di compromesso. Dal canto suo, l’Italia rifiutò offerte di pace che la riportavano alla “condizione prebellica”. Come interpretare quest’affermazione? Se le offerte fatte all’Italia per aderire ad una pace di compromesso la riportavano “ad una condizione prebellica”, ciò significa evidentemente che all’Italia non era stato offerto niente di niente, nessun compenso territoriale, anche minimo. Scontato, pertanto, il rifiuto del governo italiano.

Ma qualcuno potrebbe pensare, e lo ha pensato, che il rifiuto dell’Italia all’iniziativa di pace dell’Asburgo sia stata una cattiveria, perché avrebbe costretto gli Alleati a rifiutarle a loro volta, favorendo così il prolungamento dell’”inutile strage” (che, comunque, per noi italiani, pur restando “strage” non fu affatto “inutile” dato che ci permise di completare finalmente l’unità nazionale con il raggiungimento dei legittimi confini naturali). Bisogna aver ben chiara una cosa: sia nel tentativo della primavera del 1917 che in quello dell’inizio del 1918, del quale raramente si parla, Carlo I si rifiutò ostinatamente di fare qualsiasi concessione, anche minima, all’Italia, da lui detestata in quanto “malefico nemico ereditario” da combattere sino all’ultimo sangue. Gli statisti delle grandi potenze dell’Intesa, per quanto rotti a tutte le astuzie e cattiverie della politica, non potevano imporci una pace di compromesso che non ci desse assolutamente nulla, dopo che avevamo dato un notevole contributo di sangue alla causa comune. Questa è la verità, per ciò che riguarda Carlo I e l’Italia nella faccenda delle trattative di pace, anche se non piacerà ai fabbricanti di santini.

E non solo Carlo I mostrò una chiusura totale nei nostri confronti, si fece anche sedurre dall’idea della “pace vittoriosa”. L’inverno del 1918, dopo la vittoria di Caporetto dell’autunno precedente, con l’esercito austro-ungarico attestato saldamente sulla linea dal Grappa al Piave, era il momento decisivo per trattare con l’Intesa (cioè con Wilson) una pace separata in base ai famosi 14 punti del presidente americano, da posizioni ancora valide, nonostante il disgregamento da tempo in atto nell’Impero (spinge centrifughe sempre più forti, fame e carestie, forte calo della produzione industriale, scioperi, ammutinamenti militari repressi nel sangue, enorme numero di disertori nelle retrovie). Con l’entrata in guerra del colosso americano la guerra era persa per gli Imperi Centrali, era solo questione di tempo. Bisogna riconoscere che era difficile sganciarsi dalla pesante tutela tedesca. Mancarono tuttavia la ferrea determinazione e la prontezza di riflessi necessarie: per salvare il salvabile, mantenere cioè l’istituto monarchico e la dinastia e un territorio ancora rispettabile, bisognava diventare una monarchia costituzionale, istituire il federalismo e fare delle concessioni territoriali. Invece Carlo I impegnò le residue forze nella scriteriata offensiva generale sul Piave (battaglia del solstizio, 15-23 giugno 1918) che si risolse in un fiasco completo di fronte alla tenace resistenza italiana. Da quel momento l’esercito imperial-regio fu costretto ad una precaria difensiva, che divenne praticamente impossibile dopo l’improvviso collasso del fronte balcanico, con il crollo della Bulgaria nel settembre del 1918, che apriva al nemico la strada di Sofia, Belgrado, Budapest.

Basta con il cattolicesimo pappa del cuore, inflazionato dalla Gerarchia attuale. Ha sbagliato, allora, il Papa a far beato Carlo I d’Asburgo? Non entro nel merito della questione, anche se da più parti si è sempre sottolineata la disinvoltura con la quale Giovanni Paolo II ha creato tanti santi e beati, dopo aver reso meno severe le regole in proposito. Dico che, nonostante sia stato un nostro pervicace nemico, Carlo merita comunque rispetto per le sue indubbie qualità: di uomo, padre di famiglia, soldato; per la grande dignità e forza d’animo con la quale sopportò l’esilio. Fu uno dei pochissimi monarchi cattolici a non avere amanti (quelle degli Asburgo erano in genere fascinose contesse ungheresi), a condurre quindi una vita privata veramente esemplare, fulgido esempio ai suoi sudditi, come ogni re e principe cattolico avrebbe sempre dovuto essere. Come comandante di battaglione e corpo d’armata fu coraggioso e capace, ben voluto dai soldati. Combatté contro di noi nella cosiddetta “spedizione punitiva” (1916) o battaglia degli altipiani, che nelle intenzioni del feldmaresciallo Conrad doveva prendere da Asiago tutto il nostro fronte sul rovescio e farlo crollare. L’offensiva, dopo un promettente avvio, si arenò ed anzi Cadorna contrattaccò poco dopo conquistando Gorizia, allora importante posizione strategica fortificata sull’Isonzo, in una sanguinosissima battaglia (del resto, come tutte quelle della prima guerra mondiale), unico successo dell’Intesa in tutto il 1916. Come comandante in capo, tuttavia, Carlo I sbagliò nell’autorizzare l’offensiva finale dell’estate del ‘18.

Ma come imperatore e comandante in capo in una guerra della quale non era stato direttamente responsabile, non aveva il diritto di tentare (magari sbagliando) un’ultima battaglia per la salvezza del suo Stato contro quello che considerava “il nemico ereditario”, che da tre anni teneva sanguinosamente inchiodato il suo esercito? Certo che ce l’aveva, ma allora eliminiamo la motivazione “pacifista” della beatificazione, quella che ha fabbricato il santino caramelloso del capo di Stato e di eserciti preoccupato unicamente di por fine, nel pieno di una guerra micidiale, alla “inutile strage”, manco fosse stato una Dama di S.Vincenzo. E si abbia il coraggio di dire, quale che fosse l’intenzione che ha mosso Woityla, il cui padre (disse) aveva servito nell’esercito austro-ungarico durante quella tremenda guerra, che si può esser beati ed anche santi pur se, da reggitori di uno Stato cattolico in guerra, si impugna alta la spada e si decide di combattere sino in fondo, ammazzando il maggior numero possibile di nemici, per conseguire una vittoria decisiva ai fini della sopravvivenza del proprio Stato.

Italiani spergiuri, vi distruggeremo. L’avversione di Carlo I nei nostri confronti risulta in modo espresso da uno scambio epistolare con il Kaiser. Poco dopo i falliti negoziati segreti di pace della primavera del 1917, che, resi pubblici in seguito dal primo ministro francese Clemenceau, procurarono a Carlo I violente accuse di tradimento da parte dei tedeschi, mettendolo momentaneamente in una posizione difficile anche presso l’opinione pubblica del suo impero, ci fu l’undicesima offensiva italiana sull’Isonzo (agosto-settembre 1917), che portò alla conquista dell’altopiano carsico della Bainsizza e del Monte Santo, obiettivi importanti ma non decisivi, ottenuti a prezzo delle consuete gravi perdite. Ma l’esercito imperial-regio era stato sul punto di cedere, il suo fronte era stato rotto anche se solo per poche ore, non vi erano quasi più riserve valide. Carlo I aveva dovuto allora rivolgersi all’imperatore tedesco, Guglielmo II, con una lettera del 26 agosto 1917, chiedendo il suo aiuto. Questa lettera mi sembra mostri la vera personalità dell’imperatore, in quanto capo di Stato e dell’esercito, nell’esercizio di quello che riteneva il suo dovere di capo militare supremo dei suoi popoli. Seriamente preoccupato per la situazione, egli ardeva dal desiderio di infliggere un colpo decisivo a quello che considerava il nemico per antonomasia, verso il quale non nascondeva la sua profonda avversione. Dal punto di vista militare, l’idea di una potente offensiva di alleggerimento era del tutto corretta. Le geniali modifiche al piano iniziale apportate dal generale tedesco Krafft von Dellmensingen l’avrebbero resa micidiale per noi: sfondando a monte dopo essersi procurata di sorpresa la necessaria superiorità locale con truppe scelte a Caporetto, e scendendo rapidamente lungo l’Isonzo alle spalle dell’esercito italiano, si poteva tentare di chiuderlo in una gigantesca sacca, sbilanciato com’era a semicerchio in avanti, verso Trieste.

Caro amico – scriveva l’imperatore – le esperienze che abbiamo maturato nelle undici battaglie dell’Isonzo hanno fatto crescere in me la convinzione che in una eventuale dodicesima offensiva [italiana] ci troveremmo in spaventose difficoltà […] Perciò vi chiedo, caro amico, di persuadere i vostri generali comandanti affinché tolgano le divisioni austro-ungariche dal fronte orientale [per trasferirle su quello dell’Isonzo] e le sostituiscano con truppe tedesche. Voi certamente capirete perché io tenga molto a guidare solo mie truppe nell’offensiva contro l’Italia. Tutto il mio esercito chiama la guerra contro l’Italia “la nostra guerra”. In ogni ufficiale, sin da giovane, è stata instillata da suo padre l’emozione, il desiderio nel suo cuore di combattere contro il nostro tradizionale nemico. Se truppe tedesche dovessero operare sul fronte italiano, ciò avrebbe un effetto depressivo sul loro entusiasmo”.

Guglielmo II rispose con estremo favore, il 1° settembre 1917. “Voi potete esser sicuro che grandi grida di gioia si sono levate non solo nel mio esercito, ma in tutta la Germania, quando è arrivata la notizia che truppe tedesche, a fianco dei vostri valorosi combattenti dell’Isonzo, daranno insieme un duro colpo agli italiani spergiuri. Dio ci conceda che quel giorno sia vicino.” I generali tedeschi vollero mandare alcune tra le loro truppe migliori in appoggio all’alleato ed esser loro a preparare il piano operativo. Ringraziando comunque per l’offerta, che accettava, Carlo scrisse, per ciò che riguardava gli italiani, che la risposta gli aveva dato “una doppia gioia, perché vedo per noi la possibilità di ferire profondamente il nemico italiano con i mezzi di una potente offensiva” e di “vedere le nostre forze unite nell’inseguire vittoriosamente il malefico nemico”[1].

Noi italiani eravamo dunque per Carlo I ed i suoi popoli, “il nemico ereditario” e “secolare”, addirittura “malefico”. Questa plurisecolare avversione era naturalmente ricambiata, dato che anche per noi l’Austria era “il nemico secolare”, quella potenza che dapprima aveva partecipato attivamente alle ingiustificate Guerre d’Italia (1498-1535), le crudeli campagne delle Potenze di allora, che avevano consegnato quasi tutta l’Italia per più di tre secoli allo straniero, cercando in tutti i modi (l’Austriaco) di conquistare (senza riuscirvi) la Repubblica di Venezia; riuscendoci invece alla fine del ciclo napoleonico, quando organizzò le sue prede italiane nel Lombardo-Veneto; l’Austria, poi Austria-Ungheria, che si era sempre tenacemente opposta non solo alla nostra unificazione nazionale ma anche a qualsiasi federazione di Stati italiani, dominando per decenni la situazione politica e militare della penisola. Era solo l’Austria asburgica, con la quale la Germania ci aveva imposto una forzata coabitazione nella Triplice, a sbarrarci implacabile la via verso i nostri confini naturali sull’arco alpino centro-orientale. E difatti, avevamo dichiarato guerra alla Germania solo nell’agosto del 1916, a più di un anno dal nostro intervento (24 maggio 1915), ritardo che aveva irritato alquanto francesi ed inglesi. La “nostra guerra” era contro gli austriaci, non contro i tedeschi, che del resto non mostrarono mai un particolare desiderio di farcela, nonostante le pressioni austriache, che li costrinsero sin dal 1915 a mandare loro unità sulle Dolomiti. In una di esse militò il futuro filosofo monacense Karl Löwith, l’acuto critico di Heidegger, al tempo diciottenne ebreo patriottico e volontario di guerra, ferito e fatto prigioniero dal nostro esercito. E allora perché gliela dichiarammo la guerra, ai tedeschi? Perché non potevamo evidentemente resistere all’infinito alle pressioni alleate, essendo noi sempre i parenti poveri dell’alleanza, dalla quale dipendevamo per materie prime e rifornimenti alimentari. Costretti ad esser moralmente “spergiuri” dunque? Formalmente, la dichiarazione di guerra alla Germania era tuttavia giustificata, visto che truppe tedesche combattevano comunque contro di noi pur in assenza di dichiarazione di guerra, e quindi in violazione del diritto internazionale[2].

Guglielmo II ci chiamava “spergiuri”, dunque. Si trattava in ogni caso di un tradimento solo morale, dato che noi, dichiaratici neutrali all’inizio della guerra, fatto quasi un anno dopo l’accordo segreto con gli Alleati, avevamo denunciato la Triplice circa tre settimane prima di dichiarar guerra. Nessun attacco a tradimento dunque. Per gli austriaci si apriva un secondo, difficile fronte, impegnati com’erano in Europa orientale e nei Balcani. Ma la nostra entrata in guerra contro di loro era attesa da tempo. Ci aspettavano con calma nelle loro robuste fortificazioni del fronte isontino e dolomitico. Si parla sempre del nostro “tradimento”, e di sicuro ci verrà rinfacciato di nuovo nel pullulare di scritti per il centenario della Grande Guerra, e tuttavia mai della grave slealtà commessa da tedeschi ed austriaci nei nostri confronti, quando l’Austria mandò il 23 luglio 1914 il famoso ultimatum alla Serbia, con l’approvazione della Germania, senza consultarci. Come alleati, non avremmo dovuto dare anche noi la nostra approvazione preventiva? Ci posero di fronte al fatto compiuto, tanto noi eravamo l’anello debole, che non doveva dare fastidio. Il fatto è che, probabilmente, l’Italia si sarebbe opposta ad un ultimatum concepito in quel modo, che non lasciava praticamente ai Serbi alcun margine di manovra, nemmeno la possibilità di salvare la faccia. E a proposito di slealtà e violazione delle alleanze, si è saputo in un secondo tempo (ma la cosa non doveva essere ignota ai nostri vertici dell’epoca) che il feldmaresciallo austriaco Conrad aveva progettato e proposto un attacco di sorpresa (preventivo) in tempo di pace contro l’Italia alleata nella Triplice, per eliminarla in tempo quale potenziale nemico. Un vero e proprio attacco a tradimento. Era una sua fissazione, quella di far fuori l’Italia con una guerra preventiva, nella quale non era tuttavia del tutto isolato. Tant’è vero che di recente alcuni studi hanno scoperto che anche ambienti vicini allo Stato maggiore svizzero si sarebbero associati volentieri all’attacco, per riprendersi la Valtellina, dicevano, e migliorare a loro vantaggio il loro confine con noi (come se il Ticino gli svizzeri non l’avessero tolto a tradimento al Duca di Milano, l’ottuso Lodovico il Moro, quando, da lui assoldati per difenderlo dal re di Francia, si accordarono con quest’ultimo, consegnandogli il Duca e il ducato in cambio del Ticino, appunto). Insomma, chi è senza peccato scagli la prima pietra, come si suol dire. (Chi continua a parlare oggi stoltamente di “secessione” del Nord Italia o anche della sola Lombardia, ricca terra sempre concupita dagli stranieri, farebbe bene a riflettere su questi trascorsi. Trascorsi poi non più di tanto, se è vero che esponenti politici svizzeri e televisioni luganesi (di Stato?) si sono divertiti di recente a giocare alla fantapolitica, ipotizzando l’annessione della Lombardia alla Svizzera, senza che (per quanto ne so) l’on. Bonino, nostra ministra degli esteri, ci trovasse nulla da ridire, presa com’è a difendere i “diritti delle donne” in tutto il mondo, poveretta).

L’offerta di pace di Carlo non contemplava l’Italia, come se non esistesse. Tornando a Carlo I imperatore, dai sentimenti che rivelano le sue lettere al Kaiser, si capisce perché l’offerta di pace di compromesso non contemplasse in alcun modo “il malefico nemico ereditario”. Essa, fatta in segreto dal principe Sisto di Borbone, cognato dell’imperatore ed ufficiale nell’esercito belga, offriva ai franco-inglesi lo sgombero del Belgio occupato, la restituzione alla Francia dell’Alsazia-Lorena occupata dai tedeschi con compensi alla Germania ad opera della stessa Austria (Galizia, parte della Polonia elevata a Regno sotto tutela tedesca), il mantenimento della Duplice Monarchia accanto ad un Regno degli Slavi del Sud sotto sua tutela, con uno sbocco al mare per la Serbia. Per l’Italia si limitava ad augurarsi la mediazione della Francia e l’Inghilterra. Il significato di questa richiesta di “mediazione” resta oscuro. La trattativa fallì perché, pur considerata interessante dai franco-inglesi, non concedeva assolutamente nulla all’alleato italiano, che al tempo non aveva ancora subito la pesante sconfitta di Caporetto (fine ottobre del 1917). Il presidente del consiglio francese, disse alla Camera, il 12 ottobre 1917, che la Francia non poteva accettare un’offerta “qui lassait volontairement de côté l’Italie”. Informato dai francesi, Sidney Sonnino, ministro italiano degli esteri, rifiutò di prendere in considerazione qualsiasi proposta di pace che non riconoscesse all’Italia quanto si erano impegnate a riconoscerle Francia, Gran Bretagna e Russia in caso di vittoria (con il Patto di Londra del 1915, che comunque non prevedeva la dissoluzione dell’Austria-Ungheria).

La calunnia di un doppio gioco del governo italiano A questo punto si ebbe un giallo, perché l’imperatore fece dire ai francesi dal principe Sisto che gli italiani (esteriormente granitici) gli avevano in realtà fatto in segreto offerte di pace da lui rifiutate in cambio di “Trento ed Aquileia”, cosa che suscitò lo sdegno dei negoziatori francesi. La vicenda di questa supposta offerta segreta di pace del governo italiano è stata a suo tempo ricostruita con un’accurata ricerca negli archivi da parte di Leo Valiani (Woiczen), ebreo fiumano di origine bosniaca ma di sentimenti italiani, famoso esponente dell’antifascismo intransigente e trascorso nume tutelare della Costituzione della nostra repubblica. Egli fu a suo tempo valido autore di studi su quegli eventi, concretatisi in un apprezzato volume sulla “dissoluzione dell’Austria-Ungheria”. Per i particolari, rimando il lettore ad un articolo da lui scritto per la ‘Rivista Storica Italiana’. In sintesi, i fatti devono esser stati questi.

Giolitti, sempre neutralista, si manteneva all’opposizione ed in contatto con la galassia antiinterventista e neutralista, rappresentata in Italia da uno schieramento trasversale comprendente cattolici, socialisti, liberali. Le sparute iniziative di pace del tutto autonome, cervellotiche, goffe e prive di fondamento (iniziative alle quali i funzionari austriaci erano abitutati e che non prendevano sul serio), che sembra siano avvenute anche a quell’epoca, provenivano sicuramente da questa galassia e non avevano nulla a che vedere con la posizione ufficiale del governo italiano. Nel caso di specie, il sospettato fu Giolitti, senza però che si trovasse mai alcuna prova. Alla luce delle nostre conoscenze (a meno che non emergano o siano emersi nuovi documenti ) si deve dire che l’imperatore Carlo si sia lasciato fuorviare da informazioni inaccurate, sempre che non le abbia usate maliziosamente, al fine di giustificare il suo rifiuto di concedere alcunché all’Italia[3].

Il pregiudizio antiitaliano dell’alta dirigenza austriaca fece naufragare i negoziati del 1918 per una pace separata. Nel 1918 ci furono nuove e più importanti trattative segrete, coinvolgenti questa volta gli americani, trattative che avrebbero potuto dare un esito diverso alla guerra, per quanto riguardava l’Austria-Ungheria, naturalmente al prezzo di concessioni. Esse entrarono nel vivo dopo l’enunciazione dei 14 punti di Wilson, nel gennaio del 1918. Mi affido sempre a Valiani. Si tratta comunque di fatti abbastanza noti, nelle loro linee generali.

In seguito alle conversazioni fra l’accademico austriaco pacifista Lammasch e il pastore Herron, emissario di Wilson, “che il presidente Wilson aveva perfino autorizzato a recarsi, se necessario, in incognito a Vienna, per discutere sul posto, ove l’imperatore si fosse deciso ad attuarla, la trasformazione federale dell’Austria-Ungheria, in pro delle nazionalità slave– Carlo I fece tuttavia un ulteriore passo. Non appena ebbe ascoltato il rapporto di Lammasch, il sovrano asburgico inviò al re di Spagna, affinché lo trasmettesse a Wilson, un messaggio telegrafico col quale si dichiarava d’accordo coi princìpi di pace posti nel discorso presidenziale dell’11 febbraio [che integrava i famosi 14 punti, enunciati l’8 gennaio precedente). Il messaggio faceva però capire che l’Austria-Ungheria continuava ad esigere il rispetto dello statu quo territoriale prebellico, nei confronti delle richieste italiane, che definiva contrarie ai diritti degli slavi fedeli all’Impero. Il ministro degli Esteri inglese, Balfour, interpellato dal fiduciario, colonnello House, fece presente che il governo di Vienna cercava di respingere a priori le rivendicazioni italiane, e di scoraggiare contemporaneamente le popolazioni slave, che guardavano già all’Intesa. Il presidente americano, rispondendo il 5 marzo all’imperatore, gli chiese dunque proposte concrete per “il soddisfacimento delle aspirazioni nazionali slave” e l’indicazione specifica delle “concessioni del tutto precise all’Italia” che l’Austria-Ungheria sarebbe stata disposta a fare. In una replica che Carlo I redasse, egli non potè nascondere che all’Italia (che, evidentemente, gli austriaci ritenevano, dopo la sconfitta di Caporetto, priva di possibilità di ripresa militare) non era intenzionato a fare concessioni territoriali. Così ogni trattativa s’arenò.

Herron stesso [convinto sostenitore delle aperture di Wilson] si persuase che la tesi di quegli italiani, cechi, jugoslavi (e, indipendentemente da costoro,di quei rivoluzionari ungheresi) che puntavano sul sollevamento dei popoli soggetti all’Austria-Ungheria, aveva per sé l’avvenire”[4].

Così tramontò il progetto americano di una pace separata con la duplice monarchia. Questo progetto era stato perseguito per lungo tempo e tenacemente da Wilson, unitamente a quegli influenti ambienti franco-britannici ad esso favorevoli. Tant’è vero che quando entrò in guerra nella primavera del 1917, il presidente americano non dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. L’avversario vero era la Germania. La dichiarazione venne, dopo molto insistenze italiane, solo nel dicembre del 1917, dopo la nostra sconfitta di Caporetto e dopo che avevamo stabilizzato il fronte. Ma Wilson non volle mai mandare truppe in Italia e dimostrò più volte la sua scarsa simpatia nei nostri confronti. Oltre ai pregiudizi calvinisti contro un popolo “papista”, aveva una moglie di origine croata. Allo sfondamento della fronte nemica a Vittorio Veneto, nell’autunno del 1918, gli americani parteciparono con un solo un reggimento. Dopo Caporetto, l’Italia stava leccandosi le ferite, non era in condizione di porre condizioni a chicchesia. Se Carlo I ci avesse fatto una qualche limitata concessione territoriale, ad esempio il Trentino, molto probabilmente i nostri Alleati non avrebbero avuto troppa difficoltà a farcela accettare. Ci tenevano assai a staccare l’Austria dalla Germania.

Esiste una vulgata secondo la quale la I guerra mondiale fu il risultato di un complotto massonico per distruggere la monarchia asburgica, ultimo Stato ufficialmente cattolico. L’atteggiamento filoaustriaco di Wilson, politico che la summenzionata vulgata considera addirittura “massonissimo”, sembra dimostrare il contrario. Oltre che nei governi dell’Intesa, le Logge erano ben rappresentate anche in quello austro-ungarico. Credo si possa affermare che una parte consistente della massoneria internazionale fosse favorevole a preservare la duplice monarchia, naturalmente riformata in modo “democratico” ovvero in senso federale e disposta ad alcune inevitabili concessioni territoriali, sull’ampiezza delle quali si sarebbe comunque potuto discutere. Wilson cercava inizialmente di continuare la politica inglese, vecchia di due secoli, che, in nome dell’equilibrio europeo, voleva preservare l’impero asburgico, anche se “riformato” nel senso che si è detto. Di una sua trasformazione in senso federale si discuteva del resto da tempo anche nell’ambito dell’Impero, ben prima della guerra, per trovare uno sbocco costituzionalmente valido alle tensioni sempre più forti che lo laceravano.

Il fatale errore di Carlo I I tedeschi, dopo il crollo della Russia, invece di cercare di giungere ad una pace che sarebbe stata abbastanza vantaggiosa perché, di contro alle inevitabili cessioni nei confronti di belgi e francesi, avrebbe dato loro mano libera ad Est, si convinsero di poter vincere la guerra anche in Occidente, prima che gli americani avessero dispiegato tutto il loro enorme potenziale bellico, con un’ultima grande serie di offensive, grazie all’impiego delle truppe liberate dalla scomparsa della Russia dalla guerra. Nella primavera e poi nell’estate del 1918, nonostante notevoli successi iniziali, le offensive tedesche fallirono e la Germania cominciò a subire le controffensive alleate, cominciando a perdere la guerra. In appoggio alla loro strategia, i tedeschi avevano cominciato a premere sugli astro-ungarici per un’offensiva sul fronte italiano. Carlo I non ebbe la forza di opporsi e di certo lo attraeva l’idea di una vittoria contro l’Italia, l’odiato “nemico secolare”; vittoria forse decisiva perché avrebbe potuto eliminare finalmente l’Italia dalla guerra, dare all’impero le agognate risorse agricole della pianura padana e portare ad una pace vantaggiosa o in alternativa costituire il valido presupposto della battaglia finale contro l’Intesa. Purtroppo l’imperatore si lasciò contagiare dal facile ottimismo di quei generali che consideravano gli italiani del tutto finiti militarmente. “Sono pronti timbri e targhe ricordo per l’occupazione, data per scontata, di Venezia e Milano. Ed è pronta persino la cerimonia per assegnare, a Vicenza, il bastone di maresciallo all’imperatore in trionfo”[5].

Lo storico militare austriaco Peter Fiala ha stigmatizzato duramente il fatale errore dell’imperatore, che non volle ascoltare l’opinione di quei generali che sconsigliavano l’offensiva nel modo più assoluto, a causa delle condizioni di esaurimento dell’esercito e del paese. La pur grande vittoria di Caporetto non aveva affatto eliminato l’esercito italiano come forza combattente. Dopo aver bloccato da solo in durissimi combattimenti il nemico austro-tedesco sul Piave e sul Grappa nel novembre 1917, a conclusione della battaglia di Caporetto, iniziatasi il 24 ottobre (da solo, cioè prima che entrassero in linea le cinque divisioni franco-britanniche, dislocate comunque alle sue spalle come riserva operativa), il Regio Esercito si era gradatamente rinforzato e ripreso, migliorando l’addestramento e la tattica. Accanto a 50 divisioni nazionali erano schierate tre divisioni britanniche, due francesi, una cecoslovacca. C’erano poi due divisioni italiane che combattevano in Francia, dove si sarebbero distinte nella battaglia di Reims; una in Macedonia e una in Albania. In prima linea le divisioni italiane e alleate erano 44 contro le 49 e mezzo austro-ungariche. Le loro dotazioni di aerei, artiglieria, munizioni e viveri erano però nettamente superiori. Saggezza imponeva di mettersi sulla stretta difensiva e cercare di giungere rapidamente alla pace[6].

Così, nei nove giorni dal 15 al 23 giugno del 1918, l’offensiva sul Piave e sui monti, dopo qualche successo iniziale, si spense di fronte alla tenace resistenza italiana e gli attaccanti dovettero ritornare sulle posizioni di partenza. Da quel momento, Carlo I cercò disperatamente di giungere a condizioni accettabili di pace, mantenendo il più possibile integro il suo esercito multinazionale, mentre si accentuava sempre più il disgregamento etnico e sociale del suo Stato. Ma ormai era troppo tardi. Visto il successo che la loro controffensiva stava avendo in Francia e nei Balcani, gli Alleati puntavano ormai alla vittoria e facevano orecchie da mercante ad ogni richiesta. E quando la situazione materiale dell’imperial-regio esercito si fu ulteriormente deteriorata, gli italiani e i loro alleati passarono all’offensiva su tutta la linea, ad un anno di distanza da Caporetto, sfondando sul Piave le indebolite linee austro-ungariche dopo una battaglia durata comunque cinque giorni (dal 24 al 29 ottobre) che portò al dissolvimento dell’esercito stesso. In tal modo Carlo I dovette alla fine accettare un armistizio, i cui termini, imposti dal Consiglio Interalleato di Parigi, erano in realtà quelli di una capitolazione incondizionata (4 novembre 1918). Quel giorno, con il raggiungimento dei confini naturali della Patria unita e la scomparsa del secolare nemico, aveva fine per noi il grande dramma apertosi l’8 settembre 1498, quando Carlo VIII re di Francia, occupando Asti, iniziava le infami Guerre d’Italia, che ci avrebbero ridotti per tre secoli in servitù.


[1] Per il testo delle due lettere: Ronald W. Hanks, Il tramonto di un’istituzione. L’armata austro-ungarica in Italia (1918), 1994, tr. it., Mursia, Milano, pp. 37-38.

[2]Karl Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Prefazione di R. Koselleck, Postfazione di Ada Löwith, tr. it. di E. Grillo, Il Saggiatore, Milano, 1988: “ Nel maggio del 1915, dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria, il mio reggimento [di fanteria bavarese] fu aggregato al corpo degli alpini tedeschi e trasferito sul confine italo-austriaco […] Un addestramento da barbari a Brunico, per una parata alla presenza dell’imperatore Carlo d’Austria, ci avvelenò gli ultimi giorni prima della marcia sulle Dolomiti, dove ci accampammo a 2000 metri di quota”. Offertosi di andare coraggiosamente di pattuglia, Löwith fu ferito gravemente al polmone e catturato in uno scontro a fuoco con i nostri alpini, curato in un ospedale da campo italiano e poi smistato in una piccola fortezza in riva al mare per prigionieri austriaci a Finalmarina. Nell’ospedale da campo il Nostro rimase due mesi e il padre riuscì a visitarlo. Egli “riuscì a ottenere il permesso di visitare per alcune ore, in un paese nemico, il suo unico figlio […] (Bisogna ricordare che a quell’epoca l’Italia era in stato di guerra dichiarata solamente con l’Austria, non ancora con la Germania, nonostante che sul fronte austriaco fin dall’inizio della guerra avessero combattuto anche truppe tedesche).” (op. cit., pp. 19-23). Löwith restò prigioniero per due anni e venne rimpatriato a causa della ferita al polmone, in uno scambio di prigionieri. Poiché il polmone si era ormai atrofizzato, venne congedato (op. cit., pp. 25-29).

[3] Leo Valiani, Recenti pubblicazioni sulla prima guerra mondiale, ‘Rivista Storica Italiana’, 1963, IV, pp. 559-560; pp. 575-576. Valiani dovette italianizzare il suo cognome in applicazione di una legge del 1929, durante il fascismo. Esponente di spicco della Resistenza e del Partito d’Azione, dopo la guerra lavorò come funzionario in un’importante banca italiana. Sicuramente avrebbe potuto illuminarci su di un aspetto ancor oggi solo sfiorato: il modo nel quale avveniva il finanziamento del movimento partigiano da parte degli Alleati. A merito di Valiani va comunque ricordato, per obiettività storica, che egli votò contro l’iniquo Trattato di Pace del 1947, assieme a Benedetto Croce, V. E. Orlando e non pochi altri.

[4] Leo Valiani, Nuovi documenti sui tentativi di pace nel 1917, in appendice a ID., La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Mondadori, Milano, 1966, pp. 451-488; pp. 476-477. Dopo il fallimento di queste trattative cominciò sulla stampa britannica una violenta campagna a favore della dissoluzione della duplice monarchia (vedi infra: Peter Fiala, op. cit., nota n. 5, p. 26).

[5] Pier Paolo Cervone, Vittorio Veneto, l’ultima battaglia, Mursia, Milano, 1994, p. 111.

[6] Peter Fiala, Il Piave (1918). L’ultima offensiva della Duplice Monarchia, a cura di G. Primicerij, con annessa Relazione Ufficiale austriaca, tr. it. di G. Primicerij, Arcana ed., Milano, 1982, pp. 17-198; in particolare, pp. 77-101. L’offensiva fu per di più mal concepita perché non attuò l’indispensabile concentrazione delle forze. Fiala accusa l’imperatore (che era comandante in capo e voleva esserlo nei fatti) di inesperienza e dilettantismo per ciò che riguarda l’impostazione strategica generale dell’offensiva.

domenica 25 febbraio 2024

L'italianità di Fiume - Gino Antoni

(Scritto da Gino Antoni, tratto da “The Journal of American History”, Vol. 13, N. 1, 1919.)
L'Onorevole Gino Antoni è nato a Fiume e negli ultimi vent'anni ha avuto un solo scopo nella vita: aiutare i suoi connazionali italiani a riportare la loro città alla madrepatria. Nel 1914 e l'anno successivo un buon numero di fiumani impetuosi e audaci, con la lealtà nel cuore e la gloriosa visione dell'unione con l'Italia davanti alle loro menti, affrontarono i pericoli di varcare le frontiere, per la gioia di combattere al fianco degli italiani. Sull'Isonzo e sulle Alpi combatterono e morirono, felici di una morte che li trovò finalmente sulla loro terra. Il sentimento vulcanico si esprimeva non solo sui campi di battaglia, ma anche tra i civili fiumani che erano riusciti a sfuggire alla tirannia magiara e tra i loro concittadini che si trovavano in Italia prima dello scoppio della guerra. Per essere pronti all'ora tanto pregata formarono un Comitato nazionale per Fiume e il Quarnaro. La coppa per la quale avevano coraggiosamente vissuto ed erano coraggiosamente morti era proprio alle loro labbra, ma si rivelò piena delle acque di Tantalo. Ma l’amarezza della delusione non fece altro che stuzzicare la loro determinazione, lasciando il loro spirito intatto e imperterrito. Il dottor Antoni parla per sé e per i suoi concittadini.

– Gli autori.

FIUME
Del Dottor Gino Antoni
Vicesindaco di Fiume e Membro del Consiglio Nazionale della Città

Da vent'anni io e i miei concittadini ci battiamo per la causa del riscatto di Fiume. Durante la guerra fui tra i processati per irredentismo implacabile. Il modo in cui sono scampato alla forca non fa altro che aggiungerne un altro alla lista dei miracoli inspiegabili. Ora sono venuto in America per far sentire la vera voce della mia città e per far capire chiaramente nella mia veste ufficiale che Fiume desidera ardentemente essere unita all'Italia. Fiume è italiana per il sangue che le scorre nelle vene, per le parole della sua bocca e per l'ardente desiderio del suo cuore!

Fiume si è sempre battuta contro l'oppressione straniera. Faceva parte dell'Ungheria, ma come “corpo separato”. L'Ungheria era composta da tre stati: Ungheria vera e propria, Croazia e Fiume. La vittoria dell'esercito italiano spezzò questa unione e Fiume riacquistò la sua indipendenza. Il 30 ottobre 1918, quattro giorni prima che l'Austria firmasse l'armistizio, Fiume dichiarò all'unanimità la sua unione all'Italia, ripetendo così la propria storia. Infatti nel 1779 si oppose alla proposta di annessione alla Croazia e nel 1868 ottenne il riconoscimento della sua peculiare posizione di città libera e indipendente, unita temporaneamente all'Ungheria, ma stato a sé stante.

Per quanto riguarda la sua autodeterminazione conta sul simpatico incoraggiamento dell'America. A Fiume tutti i Sindaci, tutti i Deputati, i Membri del Consiglio Comunale, della Camera di Commercio e dei Tribunali, sono sempre stati italiani. Stando così le cose, essi si credono liberi di disporre del proprio destino e chi può negare loro il diritto di unirsi alla loro Patria?

Si sente dire che se Fiume sarà unita all'Italia, le popolazioni dell'interno non avranno sbocco al mare. Questo non è vero. La Jugoslavia dispone di ottimi porti naturali tra Buccari e Carlopago. Non è affatto necessario sacrificare il carattere puramente italiano di Fiume per dare uno sbocco all'interno. È interessante ricordare che prima della guerra il commercio della Croazia a Fiume rappresentava solo il 7% della produzione commerciale totale, il resto del traffico spettava all'Ungheria. Non siamo nemici degli jugoslavi, a meno che non invadano il nostro territorio. Vicino a Fiume hanno la bella città di Sussak che potranno facilmente e naturalmente svilupparsi ed ampliarsi. Se ognuno di noi può vivere entro i propri confini, la pace e l’amicizia seguiranno naturalmente.

Il sindaco, il presidente del Consiglio nazionale e il deputato di Fiume al Parlamento ungherese sono stati ricevuti a Parigi dal presidente Wilson, al quale è stata spiegata chiaramente la situazione e dimostrata la fondatezza delle nostre aspirazioni nazionali. Il presidente Wilson ed i delegati americani si dichiararono profondamente impressionati dal loro significato: si riferì addirittura trionfalmente che il silenzioso colonnello House alzò la voce in loro favore.

Fiume ha una popolazione di 35.000 italiani nativi. Questa popolazione governa la propria città e la volontà dei cittadini fiumani deve essere presa seriamente in considerazione. Vogliamo essere italiani e l’Italia vuole che siamo italiani. Siamo come fratelli finalmente riuniti dopo secoli di sofferenze e di lotte.

Dalmazia - Roberto Ghiglianovich

Dalmazia del Dott. Roberto Ghiglianovich

(Scritto da Roberto Ghiglianovich, tratto da “The Journal of American History”, Vol. 13, N. 1, 1919.)

L'Onorevole Roberto Ghiglianovich è il rappresentante degli Italiani della Dalmazia. Da trent'anni è membro della Dieta dalmata; è stato Presidente dell'Associazione Politica degli Italiani di Dalmazia e del Consiglio Direttivo della Lega Nazionale per le rispettive scuole italiane. Durante la guerra fu membro del consiglio direttivo dell'Associazione Politica degli Italiani Irredenti a Roma. Un uomo del suo calibro sarebbe stato naturalmente un bersaglio luminoso per la polizia austriaca, che lo perseguitò incessantemente e alla fine riuscì a ottenere un'ordinanza di arresto. Ciò lo prevenne con la fuga in Italia nel marzo 1915.

È costante motivo di dolore per i dalmati italiani ricordare quanto fossero arrivati vicini al traguardo dell'unità con l'Italia quando Garibaldi, nel 1866, aveva effettivamente pianificato la spedizione per la loro liberazione, nella quale era sostenuto dal primo ministro Ricasoli. Garibaldi lo concepì come una continuazione del programma generale di unità e libertà italiana. Gli sfortunati eventi che seguirono stroncarono le nutrite speranze di Garibaldi e dei suoi fratelli dalmati. Questi ultimi presupponevano sempre che, in ogni attività marziale per la liberazione e l'unità italiana, dovessero prendere la loro parte di pericoli e di difficoltà in egual misura con gli italiani del Regno. Lo dimostrarono gloriosamente nel 1848, nel 1859 e nel 1866. La seguente chiara affermazione del dottor Ghiglianovich è piena di inevitabili suggestioni.

— Gli autori.

DALMAZIA

A cura del Dottor Roberto Ghiglianovich

Membro della Dieta dalmata.

Dopo essere fuggito in Italia nel marzo del 1915, ebbi la gioia di ritornare nel mio paese natale insieme all'ammiraglio Millo, l'eroe dei Dardanelli, che il governo italiano aveva nominato governatore della Dalmazia. Con lui approdai prima a Sebenico e poi a Zara. Le due città e le isole dalmate erano state occupate pochi giorni prima dalle forze italiane di terra e di mare. Quando sbarcammo, gli italiani a Sebenico ci accolsero con manifestazioni di gioia. Trovai la mia città natale, Zara, in estasi dopo la firma dell'Armistizio nel novembre del 1918. Le sue strade erano tutte adornate da migliaia di bandiere italiane. Quando arrivò la corazzata italiana, con il Comandante che aveva occupato Zara diverse ore prima della firma dell'Armistizio, tutta la popolazione della città si radunò lungo la riva. Giovani e vecchi, donne e bambini, si inginocchiarono devotamente, benedicendo l'Italia, la loro liberatrice!

Quando l'ammiraglio Millo parlò alla folla dal balcone del Palazzo Municipale di Zara, la manifestazione pubblica non conobbe limiti. L'intero popolo giurò eterna fedeltà alla Madre Patria, l'Italia, e al suo Re glorioso e vittorioso. Gli italiani delle Isole Dalmate hanno accolto le forze italiane di occupazione con la stessa gioiosa acclamazione. Grazie ai provvedimenti presi dal governatore italiano, superate le prime difficoltà legate al sostentamento della popolazione, e dopo aver affrontato i soldati e i prigionieri bolscevichi che l'Austria disperse nell'interno del paese, la vita assunse un aspetto normale. Il cibo è abbondante lì e le comunicazioni terrestri e marittime vengono ristabilite. La pubblica amministrazione e le scuole hanno ripreso il loro regolare funzionamento. Il comportamento delle truppe di occupazione è corretto sotto ogni aspetto. Anche gli slavi rurali dell'interno sono ricettivi e riconoscenti.

Ma la gioia di tutti gli italiani liberati è tutt’altro che pura. Il capoluogo della Dalmazia, Spalato, la città che porta con sé una storia così lunga e triste di lotte per il trionfo del sentimento italiano in Dalmazia, non è stata occupata dall'Esercito e dalla Marina italiana. Non rientrava nella linea di occupazione della Dalmazia tracciata dalle condizioni del Trattato di Armistizio tra Italia e Austria-Ungheria. A Spalato c'è ora un governo croato provvisorio, che agisce sotto le direttive del Comitato nazionale di Sagabria [Zagabria]. Con inaudita violenza reprimono ogni manifestazione della numerosa e importante componente italiana della città. Giornali italiani e stranieri hanno pubblicato per l'opinione pubblica americana e alleata la notizia degli attentati commessi contro gli italiani a Spalato. Il loro tragico destino è facilmente prevedibile se la loro città non dovesse essere riunificata all'Italia come lo saranno Zara, Sebenico e le Isole Dalmate.

A testimonianza del persistente carattere italiano di Spalato e dell'ardente desiderio degli italiani di Spalato di unire la loro città all'Italia, il seguente episodio sarà illuminante. A soli due giorni dalla firma dell'Armistizio, circa 5.000 italiani di Spalato sono diventati membri dell'Associazione Nazionale “Dante Alighieri” di Roma, che, fin dalla sua fondazione circa trent'anni fa, non ha mai smesso di impegnarsi per la tutela del sacro Aspirazioni italiane tra le quali, come il Trentino, la Venezia Giulia, Trieste e Fiume, ha sempre largamente figurato la Dalmazia.

La Dalmazia è italiana quanto Roma e Venezia da 2000 anni. Fu romana fino alla caduta dell'Impero Romano; poi si costituì in libere comunità, di carattere interamente latino e italiano. Appartenne alla Repubblica di Venezia dal 1409 al 1797, anno in cui venne ceduta da Napoleone all'Austria, insieme a Venezia e all'Istria.

Nonostante i metodi barbari impiegati dall'Austria dal 1866 fino al giorno della sua disgregazione, per imporre con la forza la preponderanza della popolazione croata in Dalmazia, il sentimento italiano è lì molto vivo. Questo fatto dovrebbe essere riconosciuto e preso in seria considerazione. La Dalmazia non ha nulla del carattere balcanico e orientale. Basta vedere le sue città ed entrare davvero in contatto con le sue popolazioni per convincersi che Roma e Venezia non le hanno influenzate solo esteriormente, ma hanno lasciato su di loro tracce indelebili del pensiero e della cultura italiana. L’Italia, quindi, non ha solo un diritto legale, ma una presa spirituale sulla Regione.

L'indipendentismo triestino: una creazione di Tito con la maschera di Francesco Giuseppe (M. Vigna)

Dopo la seconda guerra mondiale parte del territorio invaso dalla Jugoslavia e rimasto conteso diplomaticamente con l’Italia permase in stato di amministrazione militare provvisoria, il cosiddetto TLT (Territorio libero di Trieste).

Il TLT divenne uno dei punti di frizione fra blocco occidentale e blocco comunista e fu lacerato all’interno da contrasti politici intensissimi. Ai sostenitori della riunificazione con l’Italia si opponevano i simpatizzanti della Jugoslavia comunista, ma fra i due si trovava anche un raggruppamento indipendentista, diviso in vari partiti.

Sia alle elezioni del 1849, sia alle amministrative del 1952 stravinsero i partiti italiani. Nel 1952 i nazionali italiani ebbero il 62,3% dei voti, gli indipendentisti il 35%, gli jugoslavi il 2,7% con il minuscolo Fronte Popolare Italo-Sloveno.

L’analisi però deve essere più approfondita, perché gli indipendentisti erano di fatto in maggioranza o comunisti, o nazionalisti slavi, od ambedue.

Il 35% degli indipendentisti derivava per metà dal Partito Comunista del Territorio Libero di Trieste, che altro non era che il ramo triestino del PCI. Esso non appoggiava l’annessione alla Jugoslavia, poiché questo stato aveva rifiutato l’obbedienza all’URSS pur rimanendo comunista, mentre il PCI di Togliatti era di stretta osservanza stalinista. Però, i due partiti che facevano dell’indipendenza il loro cavallo di battaglia e ragione stessa d’esistenza, il Fronte dell’Indipendenza ed il Movimento Autonomista Giuliano, che cosa erano realmente?

In teoria, essi rivendicavano per Trieste e dintorni una presunta identità mitteleuropea e cosmopolita, che sarebbe stata quella dell’impero asburgico. Erano gli eredi ideologici dei vecchi “austriacanti” e “fedeloni” dei tempi dell’Austria imperiale, con fra le loro fila talora esattamente le stesse persone soltanto più anziane.

Tuttavia, gli italiani li accusavano d’essere di fatto filoslavi e di volere la creazione d’uno stato minuscolo alle frontiere della dittatura di Tito al fine di preparare una futura annessione a Belgrado. Oggigiorno è dimostrato che la creazione di questi movimenti indipendentisti fu voluta dal governo di Tito e che furono finanziati di nascosto dal denaro proveniente dalla Jugoslavia. I titini, consapevoli che non avrebbero mai potuto vincere in una città a stragrande maggioranza italiana ed anticomunista, scelsero di camuffarsi e di spacciarsi per indipendentisti, ovvero di creare dei movimenti fantoccio che potessero avere voti anche dagli italiani.

Due considerazioni sono opportune:

primo, l’indipendentismo triestino è sorto su impulso e finanziamento del dittatore Tito;

secondo, tale azione politica si è servita del “mito asburgico” per ottenere consensi, ossia il nazionalismo slavo si è mascherato da nostalgia mitteleuropea;

La contraddizione è apparente, perché il binomio fra simpatia per l’Austria imperiale e nazionalismo slavo italofobo era radicato già nella Duplice Monarchia.

(sui finanziamenti jugoslavi all’indipendentismo triestino: D’Amelio Diego, Di Michele Andrea, Mezzalira Giorgio (a cura di), La difesa dell’italianità. L’Ufficio per le zone di confine a Bolzano, Trento e Trieste (1945-1954), Il Mulino, Bologna, 2015, pp. 404-405)

Il massacro di Prozor, il crimine di guerra più efferato di cui furono vittime militari italiani prima dell’armistizio dell’8 settembre 1943

Il 17 febbraio 1943, 771 soldati semplici, ufficiali, feriti e mutilati, disamati, arresisi dopo aver fatto il proprio dovere, assassinati dai partigiani comunisti sino all’ultimo uomo, senza pietà alcuna né rispetto per le consuetudini di guerra e le leggi internazionali, di cui il Regno di Jugoslavia era firmatario.

Prozor nei pressi di Sarajevo, è stato lo scenario di una delle più efferate atrocità commesse durante la Seconda Guerra Mondiale ai danni di militari italiani prima dell'armistizio dell'8 settembre 1943. Soldati semplici, ufficiali, feriti e mutilati, disertori, prigionieri di guerra che avevano compiuto il proprio dovere, sono stati lucidamente massacrati dagli partigiani comunisti senza alcuna compassione e senza rispetto per le leggi internazionali a cui il Regno di Jugoslavia era sottoscrittore.

La 154ª Divisione di fanteria di occupazione Murge fu attaccata da cinque brigate partigiane che avevano oltrepassato il fiume per sfuggire all’inseguimento dei reparti dell’Asse e dei cetnici.

I Partigiani comunisti decisero di dirigersi verso la cittadina di Prozor, occupata dai soldati del III° Battaglione del 259° Murge, che avevano fortificato un loro presidio. Offrirono loro l'opportunità di arrendersi ma questa offerta fu rifiutata dai soldati italiani. I partigiani erano composti da circa cinquemila membri, divisi in cinque Brigate Proletarie d'Assalto, mentre gli italiani erano meno di ottocento. La notte tra il 15 e 16 febbraio 1943, gli italiani respinsero con valore e disperazione il primo attacco di Prozor. Il secondo attacco, invece, avvenne nella notte tra il 16 e 17 febbraio e vide la vittoria della 5a Brigata d'assalto montenegrina, guidata dal suo comandante Sava Kovacevic. Gli italiani avevano finito le munizioni, e così la città è stata conquistata dopo una feroce lotta all'arma bianca. I prigionieri catturati sono stati tutti massacrati. Milovan Gilas ha ordinato l'esecuzione dell'intero battaglione, come ha ricordato nelle sue memorie. In totale, 740 prigionieri sono stati uccisi a Prozor semplicemente perché avevano rifiutato di arrendersi al primo giorno dell'attacco.

Gli ufficiali dell'esercito italiano vennero catturati e portati alla foce della Narenta, dove sarebbero stati massacrati. Tale strage divenne possibile grazie alla delazione di un capitano triestino antifascista, Riccardo Illeni, che consegnò un elenco con i nomi di tutti gli ufficiali ai partigiani. Questa vicenda è stata descritta da Gino Bambara nell'opera La guerra di liberazione nazionale jugoslava (1941-1943). Successivamente, la figura del capitano Illeni è stata rievocata in un film di propaganda jugoslavo del 1969 intitolato La battaglia della Narenta, nel quale è interpretato da Franco Nero e presentato come un idealista di eccezione. Nell'evento storico in questione, anche il colonnello Molteni, comandante del III Battaglione, venne ucciso con un colpo di pistola alla nuca da Sava Kovacevic, capo della formazione. I partigiani non erano riusciti a trovare un ufficiale della sussistenza, il cui nome era presente nel ruolino del presidio consegnato dal capitano Illeni ai guerriglieri. Pertanto, hanno annunciato che avrebbero fucilato venti soldati al suo posto. A quel punto, l'ufficiale si è consegnato spontaneamente e, nonostante questo, è stato fucilato insieme ai venti fanti. Il generale Mario Roatta, comandante della 2a Armata, ha scritto una relazione ufficiale sull'accaduto a Roma. Qui ha descritto l'uccisione di 21 ufficiali della divisione Murge, catturati in precedenza in combattimento, da parte di una formazione partigiana e l'uccisione del colonnello Molteni con un colpo di pistola da parte del capo della formazione stessa. Dopo che il presidio fu riconquistato, il cappellano del 259° Fanteria, padre Giuseppe de Canelli, scoprì le salme degli ufficiali, tra cui quella di Molteni che era stata squartata e sepolta in una fossa comune con alcuni soldati e i quadrupedi morti del presidio. I numeri parlano chiaro: 771 morti, due volte i 335 morti delle Fosse Ardeatine, più dei 560 di Sant'Anna di Stazzema e quasi gli stessi 770 morti di Marzabotto. I tedeschi responsabili dell'eccidio furono processati, condannati e incarcerati, mentre i responsabili jugoslavi no. In Italia non c'è stato mai un interesse particolare su questo episodio, né saggi o memoriali dedicati o inchieste aperte, anche a causa dei taciti accordi tra Tito e la Repubblica italiana. È vero anche che alcune reazioni italiane (e dell’Asse) nei Balcani non sono state esenti da crimini di guerra, ma molte altre sono state perfettamente legittime secondo le leggi e le convenzioni dell'epoca. Ad esempio, la rappresaglia italiana più pesante in Jugoslavia, quella di Piedicolle del 12 luglio 1942 che causò 91 morti, fu portata a una ratio di 5 a 1 invece del consueto 10 a 1 per l'omicidio di due maestri elementari italiani e di 16 militari torturati e uccisi.

La vicenda di Prozor è una triste pagina della storia. Dopo la riconquista di questa località da parte delle forze italiane, non vennero eseguite rappresaglie: ciò in quanto le stragi erano state perpetrate da bande partigiane in fuga dall'offensiva congiunta italo-tedesca, e quindi le popolazioni locali non erano da considerare responsabili. Inoltre, applicare un rapporto di 10 a 1 (che prevede l'uccisione di 10 persone per ogni italiano morto) avrebbe voluto dire uccidere 7710 persone. Per i titini, che chiamavano gli italiani "nemico fascista", non sarebbe stato un problema ma, evidentemente, non era una soluzione accettabile per l'Italia.

A sinistra Milovan Gilas (1911 – 1995), responsabile del massacro di soldati italiani a Prozor nel febbraio 1943. A destra: Il colonnello Enrico Molteni, comandante del III Battaglione Murge, assassinato dai partigiani titini a Jablanica nell’aprile 1943 insieme a tutti i suoi uomini: 771 fra ufficiali e soldati italiani.