martedì 20 febbraio 2024

Vittorio Premoli

Vittorio Premoli è stato un militare italiano nato a Vipacco nel 1917, nel Goriziano usurpato nel 1947.

Premoli era un soldato del 57º fanteria; all'indomani dell'armistizio si batté contro i tedeschi nella zona di Ponte Grillo a Monterotondo (provincia di Roma), rimanendo gravemente ferito. Al momento di essere dimesso dall'ospedale riuscì a fuggire, evitando così di essere deportato. Venne congedato nel 1946. Fu insignito di medaglia d'oro al valor militare.

«Durante l’attacco su Monterotondo, porta munizioni di un gruppo mitragliatori, vistisi cadere attorno colpiti a morte da raffiche di mitra a bruciapelo il caposquadra, il portarme e un fornitore e per quanto ferito egli stesso ad una spalla, afferrato il mitragliatore di uno dei caduti, balzava dietro un riparo e faceva fuoco sui nemici, abbattendone diversi. Rimasto solo, accerchiato, ferito due volte balzava nuovamente in piedi ed afferrata l’arma per la canna si faceva largo tra gli assalitori abbattendone altri. Approfittando di questo fatto e benché ferito per la quarta volta, riusciva a raggiungere la compagnia che nel frattempo era venuta avanti. Medicato sommariamente sul campo delle sue quattro ferite, di cui tre gravi, non emetteva un lamento. Ricoverato all’ospedale, rimessosi grazie alla sua eccezionale costituzione fisica, dopo più di due mesi di dolorosi interventi chirurgici che non riuscivano però a salvargli il libero uso del braccio, veniva preso dai tedeschi per essere trasportato al Nord. Con forza d’animo veramente eccezionale, sebbene ancora con le ferite non rimarginate, si lanciava dall’autombulanza in corsa e si dava alla macchia. Monterotondo (Roma), 9-10 settembre 1943 - gennaio 1944.»

Dopo la guerra Vittorio Premoli si trasferì in provincia di Latina, a Priverno, dove è poi deceduto. Nel novembre del 2006 l'amministrazione di Priverno ha deposto una corona alla Stele, eretta in memoria di Premoli, nei giardini di Piazzale d'Ungheria a Borgo Sant'Antonio.

Giulio Cesare da Beatiano

Giulio Cesare da Beatiano (Capodistria, prima metà del XVII secolo – post 1689) è stato un nobile e scrittore italiano.

Fu cavaliere dell'Ordine Reale di Christian Maestà e lavorò come diplomatico in diversi tribunali, soprattutto in Italia, a Venezia, Brescia, Ferrara e Parma.

Opere

  • La Verità, discorso Genealogico Nobilissima della famiglia di Piloni Belluno.
  • La fede coronata vita di s. Osualdo re' di Nortumbria, 1668.
  • L'araldo veneto, ouero vniuersale armerista, mettodico di tutta la scienza araldica. Trattato in cui si rappresentano le figure, e simboli di tutti gl'armeggi nobili, 1680.
  • Discorso Araldico Sopra l'armeggio di Brescia, 1684.
  • La Corona Imperiale , 1689.

Monaldo da Capodistria

Monaldo da Capodistria nacque tra il 1210 e il 1220 a Capodistria o Pirano secondo alcuni - da una ricca famiglia contadina probabilmente di origine toscano-marchigiana (Monaldi o Bonaccorsi). Da ragazzo, gli fu insegnato a leggere e scrivere da uno dei cappellani di Pirano. All'età di nove anni fu inviato ai Benedettini di Valdoltro a San Nicola, poi probabilmente a studiare presso la facoltà di giurisprudenza di Bologna o Padova. A Padova avrebbe ascoltato la predicazione del famoso Antonio di Padova e decise di unirsi ai frati minori. Dovette anche partecipare al capitolo generale dell'ordine ad Assisi (1227) e incontrare San Francesco. Negli anni dal 1227 al 1230, Antonio di Padova era a capo della provincia lombarda e, durante la sua visita sulla costa nord-orientale del mare Adriatico, fondò anche qui dei conventi (Trieste, Capodistria, Parenzo).

Dopo la consacrazione a sacerdote, nel 1230 Monaldo fu inviato a Trieste, dove fu a capo del convento. Il fatto che anche i frati francescani più giovani fossero a Capodistria quell'anno è citato da Gedeone Pusterla. Fu lui a far costruire la chiesa di Maria Ausiliatrice nella Città Vecchia di Trieste, alla Cavana. Il 26 maggio 1257 fu nominato capo della provincia dalmata, con sede a Zara, che comprendeva 26 conventi tra Albania e Istria. Nel 1266 tornò a Capodistria, dove fu nominato guardiano della comunità dei frati. Trascorse qui gli ultimi anni della sua vita. Costruì un convento (divenuto poi sede del liceo di Capodistria) e la chiesa di San Francescano (poi trasformata in palestra).

I biografi descrivono Monaldo come un uomo gentile. A causa della sua vita virtuosa e santa, dopo la sua morte a Capodistria nel 1280-1284, la gente iniziò a raccomandare a lui le proprie necessità. Fu sepolto in una chiesa a lui dedicata in un sarcofago di pietra, e in quel momento iniziarono a verificarsi miracoli, quindi il suo corpo fu posto in una nuova arca (1617) e posto sull'altare per il culto pubblico.

Prima del secondo concilio di Lione del 1274 Monaldo scrisse la sua Summa, che lo rese famoso per secoli; quest'opera testimonia la sua capacità di canonista e teologo. Il libro, di 600 pagine, con sentenze ordinate alfabeticamente riguardanti la casistica penitenziale, è meglio conosciuto come Summa Monaldina e si inserisce nel solco della tradizione delle Summae confessorum.

Oltre un quinto della Summa tratta di aspetti economici, in particolare di come conciliare il commercio con l'etica civile: dei 295 fogli a stampa dell'opera, 49 trattano del mercato e delle questioni etiche ad esso legate, 12 alla simonia.

Si contano 65 manoscritti della Summa (tutti completi tranne uno), conservati in varie biblioteche, tra cui Padova (manoscritto del 1293, il più antico), Praga, Oxford, Nuova York e altrove. Un codice è conservato anche a Lubiana. La Summa è stata un punto di riferimento nella storia del diritto, motivo per cui è ancora menzionata, citata e discussa dalla letteratura critica ed è allo stesso tempo un prezioso documento dell'identità cristiana istriana di Capodistria. Sono stati attribuiti a Monaldo anche alcuni sermoni e scritti teologici, ma la sua paternità potrà essere dimostrata solo da uno studio critico dei testi.

lunedì 19 febbraio 2024

Il leone di Zara danneggiato

Il leone della porta terra ferma di Zara danneggiato nel 1953 dagli Jugoslavi (quale dalmato farebbe un atto simile?) che manifestavano contro l'Italia per la questione di Trieste. Nel 1994 è stato restaurato a spese della Regione Veneto.

Zara non c'è più, e noi abbiamo subito una pulizia etnica

"Il «Giorno del ricordo» è un momento di riflessione che accomuna tutti coloro che hanno subito la tragedia adriatica e vuole essere una compensazione per i troppi che non hanno una sepoltura nota e degna di questo nome, sulla quale parenti e amici possano deporre un fiore.

Personalmente questa storia potrei iniziarla dal Natale 1941, l’ultimo che ho passato a Zara. Subito dopo, gennaio 1942, militare. Quindi in Africa settentrionale, combattente sul fronte di El Alamein, quindi prigioniero degli inglesi, quattro anni in Egitto. 

Al rientro, settembre 1946, la mia famiglia, mamma, papà e un fratello, dopo circa cinque anni li ho rivisti non a Zara ma a Trieste. Così arriviamo al nostro dramma di esuli. 

L’opinione pubblica italiana solo di recente è venuta pienamente a conoscenza dell’esodo che ha costretto noi Dalmati, unitamente a Fiumani e Istriani, a lasciare Zara e le altre terre della Dalmazia. 

Le cifre dicono che gli esuli sono stati 360mila, senza mettere in conto i morti, infoibati in Istria e affogati nel mare Adriatico in Dalmazia. 360mila significa che l’esodo è stato totale. Oggi si parlerebbe di «pulizia etnica». 

In Italia si festeggia la giornata della «Liberazione» ma c’è una piccola differenza tra l’essere stati liberati dagli americani e l’essere stati liberati dai nazional-comunisti di Tito.

Oggi ci si chiede come mai questo dramma sia stato ignorato per cinquant’anni. Evidentemente a molti la «verità» non faceva comodo e i molti dovevano essere in tanti. Così i tanti hanno semplicemente mistificato la «verità» tacendo. 

Dopo cinquant’anni se ne parla, il Parlamento ha istituzionalizzato votando all’unanimità il «Giorno del ricordo». Come si usa dire: «Meglio tardi che mai». Così si può sperare che i nostri pronipoti abbiano l’opportunità di apprendere queste vicende dai libri di storia. 

Ho detto all’inizio che al mio rientro dalla prigionia, settembre 1946, ho trovato i miei genitori a Trieste non a Zara. 

Perché Zara è una città che non esiste più."

— Ottavio Missoni, stilista ed atleta olimpionico (Ragusa di Dalmazia 11.2.1921 - Sumirago, 9.5.2013)

Claudio Mandelli

Claudio Mandelli nacque a Zara il 21 settembre 1941 e visse a Padova. Il padre era un militare di carriera. Subito dopo aver conseguito il diploma di geometra, anche lui, come il padre, aveva deciso di intraprendere la carriera militare e si era arruolato nei paracadutisti.

CROCE D'ORO ALLA MEMORIA
Al ten. Col. Claudio Mandelli, nato il 21 settembre 1941 a Zara, con la motivazione:

«Comandante del reparto comando e supporti tattici della brigata multinazionale nord nell'ambito dell'operazione "Joint-Endeavour" in Bosnia Erzegovina, ha svolto il suo incarico con straordinaria volontà, incisività ed altissimo senso del dovere, accrescendo rapidamente l'efficienza del suo reparto e divenendo, ben presto, figura di primo piano punto di riferimento per i suoi uomini.

Sempre presente e disponibile, garantiva, con non comune spirito di iniziativa, le migliori condizioni di sicurezza del posto comando della brigata esercitando ripetuti controlli in particolare durante l'arco notturno ed assicurava a costante efficienza dei collegamenti con i comandi subordinati specie nelle circostanze di impiego più delicate e omplesse. Affetto da gravissima malattia, della quale non lasciava trasparire l'esistenza, dominava le proprie sofferenze con esemplare spirito di sacrificio dedicando al servizio gli ultimi preziosi momenti della propria vita. Fulgido esempio di non comune generosità e di virtù militari, ha contribuito al successo dell'operazione apportando lustro e Prestigio all'Esercito».

Sarajevo, 20 giugno - 7 ottobre 1996.



Il sentimento non contraccambiato dei popoli adriatici verso Francesco Giuseppe

Dopo il 1848 sorsero i primi problemi. Con l'avvento di Francesco Giuseppe I di Asburgo-Lorena, si creò nella borghesia del Litorale una coscienza giả vagamente irredentista e l'elemento tedesco, preoccupato che l'omogeneità italiana del territorio confluisse in velleità indipendentistiche, istituì centri culturali dichiaratamente germanici, prima inesistenti. L'Imperatore, infatti, considerava le terre poste sotto l'aquila bicipite ereditarie in base al principio di legittimità del 1815, e si trovò disorientato dal profondo rinnovamento e dal risveglio delle nazionalità che cavalcarono l'Europa ottocentesca. Il Kaiser, spiega il suo biografo Franz Herre, era fautore del centralismo, e lo usava come attributo del suo assolutismo. Ogni concessione di una costituzione spesso promulgata ma poi interrotta, come il "Diploma di Ottobre" del polacco Goluchowski poi sospeso nel '65 - e ogni mutilazione di terre imperiali avrebbe sciolto l'unità indivisibile e inseparabile dei domini asburgici, sancita con la Prammatica Sanzione del 1713. Per tali ragioni Francesco Giuseppe e gli austriaci continua Herre - non potendo governare su tutti i popoli germanici dopo la fine del Sacro Romano Impero, cercarono almeno di controllare un impero plurinazionale. Sarebbero state le erosioni interne e le sconfitte militari a costringerla a rassegnarsi; perché gli austriaci, scrive Renate Lunzer citando Stuparich, «non sono capaci di accettare gli sviluppi civilizzatori messi in atto da loro stessi, qualora si rivolgano loro contro». L'Ausgleich del '67, specifica Herre, avrebbe mitigato l'assolutismo ma conservato il centralismo, nella convinzione che i tedeschi mantenessero la maggioranza etnica nell'Impero.

L'imbarazzo dell'Imperatore davanti a qualsiasi concessione nazionalistica si evince chiaramente in molti passaggi. Nel 1865 rifiutò la rinuncia della possessione del Veneto in cambio delle terre serbe e slave, che si erano dimostrate molto fedeli all'Austria negli anni precedenti. I risvegli indipendentistici slavi si sarebbero definitivamente materializzati nella soluzione "trialistica", volta a concedere l'adempimento delle aspirazioni nazionali slave entro i confini imperiali. Tale iniziativa, promossa dall'Arciduca ereditario, fu profondamente osteggiata dal Kaiser per il rischio di un'ulteriore parcellizzazione dei domini asburgici.

Nel Regno Lombardo-Veneto la volontà di autodeterminazione si era dimostrata egualmente energica. Oltre al malcontento causato dalle esecuzioni capitali, la pressione fiscale in queste regioni era tanto pesante che, scrive Piero Pieri, «il Lombardo-Veneto, con una popolazione pari a un settimo di tutta quella della Monarchia, pagava un'imposta pari a un quarto dell'imposta complessiva»; inoltre, le materie prime della zona dovevano «costituire il mercato di smercio dei prodotti delle nascenti industrie austriache, o meglio, boeme; ma non doveva far loro concorrenza; i prodotti delle industrie lombarde non potevano espandersi nemmeno nel Veneto, se in concorrenza con quelli austriaci». La miopia dell'Imperatore nei confronti di ogni agevolazione autonomistica dei territori austro-ungarici è inoltre ben visibile nei momenti precedenti l'entrata in guerra dell'Italia: alle reiterate richieste italiane nei confronti delle terre irredente in cambio della neutralità secondo Stephan Vajda legittime, visti gli avvenimenti in Bosnia-Erzegovina e al parere favorevole sia dell'imperatore Guglielmo II che del Comando supremo Austro-Ungarico (poiché entrambi volevano scongiurare l'apertura di un quarto fronte di guerra), Francesco Giuseppe oppose un netto rifiuto. Alla figlia Maria Valeria, che gli chiese se davvero avesse preferito l'entrata in guerra dell'Italia alla cessione dei territori, rispose «Sì, quasi».

La politica dell'Imperatore nei confronti dei territori adriatici è riassumibile nella nota del 1874 del Ministro degli esteri, Gyula Andrassy, al corrispettivo italiano. In essa, il ministro ungherese comunicava che «il giorno in cui noi ammettessimo un simile rimaneggiamento sulla base di una delimitazione etnografica, analoghe pretese potrebbero essere sostenute anche da altri e sarebbe pressoché impossibile respingerle. Noi non potremmo, in effetti, cedere all'Italia popolazioni ad essa simili per lingua, senza provocare artificialmente un movimento centrifugo delle nazionalità sorelle. [...] Ammettere un simile principio ci porterebbe, dunque o a sacrificare l'integrità della monarchia, o a deviare dalla politica di conservazione della pace o dello status quo che noi seguiamo». 

D'altro canto, la comprensione dei rinnovamenti nazionali e autonomistici da parte di Francesco Giuseppe avrebbe evitato la dissoluzione dell'Impero e anche i risvolti successivi.