Dopo il 1848 sorsero i primi problemi. Con l'avvento di Francesco Giuseppe I di Asburgo-Lorena, si creò nella borghesia del Litorale una coscienza giả vagamente irredentista e l'elemento tedesco, preoccupato che l'omogeneità italiana del territorio confluisse in velleità indipendentistiche, istituì centri culturali dichiaratamente germanici, prima inesistenti. L'Imperatore, infatti, considerava le terre poste sotto l'aquila bicipite ereditarie in base al principio di legittimità del 1815, e si trovò disorientato dal profondo rinnovamento e dal risveglio delle nazionalità che cavalcarono l'Europa ottocentesca. Il Kaiser, spiega il suo biografo Franz Herre, era fautore del centralismo, e lo usava come attributo del suo assolutismo. Ogni concessione di una costituzione spesso promulgata ma poi interrotta, come il "Diploma di Ottobre" del polacco Goluchowski poi sospeso nel '65 - e ogni mutilazione di terre imperiali avrebbe sciolto l'unità indivisibile e inseparabile dei domini asburgici, sancita con la Prammatica Sanzione del 1713. Per tali ragioni Francesco Giuseppe e gli austriaci continua Herre - non potendo governare su tutti i popoli germanici dopo la fine del Sacro Romano Impero, cercarono almeno di controllare un impero plurinazionale. Sarebbero state le erosioni interne e le sconfitte militari a costringerla a rassegnarsi; perché gli austriaci, scrive Renate Lunzer citando Stuparich, «non sono capaci di accettare gli sviluppi civilizzatori messi in atto da loro stessi, qualora si rivolgano loro contro». L'Ausgleich del '67, specifica Herre, avrebbe mitigato l'assolutismo ma conservato il centralismo, nella convinzione che i tedeschi mantenessero la maggioranza etnica nell'Impero.
L'imbarazzo dell'Imperatore davanti a qualsiasi concessione nazionalistica si evince chiaramente in molti passaggi. Nel 1865 rifiutò la rinuncia della possessione del Veneto in cambio delle terre serbe e slave, che si erano dimostrate molto fedeli all'Austria negli anni precedenti. I risvegli indipendentistici slavi si sarebbero definitivamente materializzati nella soluzione "trialistica", volta a concedere l'adempimento delle aspirazioni nazionali slave entro i confini imperiali. Tale iniziativa, promossa dall'Arciduca ereditario, fu profondamente osteggiata dal Kaiser per il rischio di un'ulteriore parcellizzazione dei domini asburgici.
Nel Regno Lombardo-Veneto la volontà di autodeterminazione si era dimostrata egualmente energica. Oltre al malcontento causato dalle esecuzioni capitali, la pressione fiscale in queste regioni era tanto pesante che, scrive Piero Pieri, «il Lombardo-Veneto, con una popolazione pari a un settimo di tutta quella della Monarchia, pagava un'imposta pari a un quarto dell'imposta complessiva»; inoltre, le materie prime della zona dovevano «costituire il mercato di smercio dei prodotti delle nascenti industrie austriache, o meglio, boeme; ma non doveva far loro concorrenza; i prodotti delle industrie lombarde non potevano espandersi nemmeno nel Veneto, se in concorrenza con quelli austriaci». La miopia dell'Imperatore nei confronti di ogni agevolazione autonomistica dei territori austro-ungarici è inoltre ben visibile nei momenti precedenti l'entrata in guerra dell'Italia: alle reiterate richieste italiane nei confronti delle terre irredente in cambio della neutralità secondo Stephan Vajda legittime, visti gli avvenimenti in Bosnia-Erzegovina e al parere favorevole sia dell'imperatore Guglielmo II che del Comando supremo Austro-Ungarico (poiché entrambi volevano scongiurare l'apertura di un quarto fronte di guerra), Francesco Giuseppe oppose un netto rifiuto. Alla figlia Maria Valeria, che gli chiese se davvero avesse preferito l'entrata in guerra dell'Italia alla cessione dei territori, rispose «Sì, quasi».
La politica dell'Imperatore nei confronti dei territori adriatici è riassumibile nella nota del 1874 del Ministro degli esteri, Gyula Andrassy, al corrispettivo italiano. In essa, il ministro ungherese comunicava che «il giorno in cui noi ammettessimo un simile rimaneggiamento sulla base di una delimitazione etnografica, analoghe pretese potrebbero essere sostenute anche da altri e sarebbe pressoché impossibile respingerle. Noi non potremmo, in effetti, cedere all'Italia popolazioni ad essa simili per lingua, senza provocare artificialmente un movimento centrifugo delle nazionalità sorelle. [...] Ammettere un simile principio ci porterebbe, dunque o a sacrificare l'integrità della monarchia, o a deviare dalla politica di conservazione della pace o dello status quo che noi seguiamo».
D'altro canto, la comprensione dei rinnovamenti nazionali e autonomistici da parte di Francesco Giuseppe avrebbe evitato la dissoluzione dell'Impero e anche i risvolti successivi.
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