PER LA DALMAZIA
ai Mani di Antonio Baiamonti
Non la libertà del Mare Nostro, sitibondo
di perenne sangue, quasi fosse in vano quello
che per l'Urbe, contro a Uscocchi, venne sparto da Metello,
contro a Slavi, per San Marco, da Orseolo Secondo;
non quell'Arce d'Apennino, ch'ultima ti chiude
col Dinara, Italia, d'onde nasce a te il mattino;
non quel lito portuoso, ch'è tuo spalto e tuo confino,
irto di seicento navi, di rostrate isole ignude;
non le mura e non i templi, di Roma e Venezia,
con l'eloquio nostro, impronta fausta di quei porti;
non le tombe nove sperse tra 'I mar d'Affrica e la Rezia,
olocausto a la Gran Madre, de' seicentomila Morti:
e non anco la vittoria maggiore di Roma,
maraviglia mai sognata, che su i tempi spazia,
a l'Italia hanno ridata, prona sotto a l'aspra soma
de l'ignavia secolare, la mia terra di Dalmazia.
Campoformido l'aombra, e l'inulta Lissa,
la dimane di Vittorio Veneto e Premuda,
questa Madre nostra Italia, da' suoi figli irrisa e scissa,
che, pur fisa al suo Destino, tace ed opra e sangue suda.
Terra de' miei Padri, attendi. Tempo è di silenzio.
Soffri senza grido, e imita la Madre immortale.
Santo è il sangue del martirio, pur quando Adria sa d'assenzio,
s'esso innovi i cittadini de la Patria imperiale.
Chè se il secolo rammenti de la servitù,
o Dalmazia, e se l'incombe lonta di Rapallo,
pensa e venera chi ha tolto il vessillo nero e gialio
dal tuo suol, quando rifulser tutte l'itale virtù.
Fu prodigio di breve ora, nel gerontocomio
de l'Italia, anzi che fosse ogni viltà morta.
Ma fu tal che questa Patria ne perman tuttora assorta
in sua luce, indifferente a l'insulto et a l'encomio.
Luce è d'alba, che l'avvolge, nuncia del suo giorno,
che pur te nel tuo patire, o Dalmazia, ischiara
Veglia e spera. Chè l'Italia fatto ha ormai a te ritorno.
Salda è l'ancora a la fonda nel tuo cuore istesso, in Zara.
Luglio MCMXII.
Antonio Cippico
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