lunedì 24 giugno 2024

Un discorso non pronunziato

Richiesto dai Dalmati esuli a Trieste di un contributo alla pubblicazione commemorativa del grande Bajamonti, ho creduto opportuno ricercare fra i miei vecchi appunti un discorso che doveva essere tenuto sullo scorcio di quel tristissimo ottobre del 1920 a Milano, quando l'infamia non era ancora consumata ma si maturava ne l'ombra e che la polizia di Giovanni Giolitti mi impedì a tutti i costi di pronunciare.

Ho voluto lasciare queste pagine così come mi scaturirono dall'anima piagata in quella sera, quando stanca di violenza e di vergogna ne dettai allo stesso nel silenzio della mia stanza; la Bandiera di Pastro era stata invano spiegata e anche le mie povere mani di legno che uniche insorgeveno nella suprema viltà dell'ora vennero strappate e calpestate nel fango insieme alla speranza Dalmata e alla vittoria Italiana.

Quei giorni sono remoti e le mie parole soffrono il peso dei tempi mutati e della distanza ma io ho voluto lasciarle così, sconnesse, con gestionate sincere; non sono un saggio di dottrina ma il documento di un'anima, sono la confessione di un pellegrino, reduce dal Santuario che voleva dire la sua fede ritrovata al popolo miscredente, hanno la vivezza e la crudità di una piaga che non è ancora richiusa e non sarà mai che altri, leggendo, si accorga che l'oblio non è una medicina e sotto la polvere e le bende la ferita è sempre tutta rossa e aperta.

Da quando ritornammo a fare brancolando i primi passi nel mondo per portare un messaggio di luce attraverso le tenebre a tutta la patria chiamata a raccolta dall'urlo angoscioso della sconfitta, da quando lasciammo le corsie nere dell'ospedale dei ciechi nella solitudine taciturna della rinunzia sempiterna per riapparire pallidi ed esangui sulla scena del mondo a rinnovare l'olocausto e l'offerta agli occhi della moltitudine, dalle gelide albe di allora che davano i primi pallori sul nostro viso bianco, che davano i primi rossori sulle nostre cicatrici vermiglie a questo desolante crepuscolo senza fine nella tremenda incertezza della luce sospesa fra la notte e il giorno, in questi tre anni di freddi sudori e di febbri sorde che hanno bruciata in un'ora tutta la nostra giovinezza, noi non avevamo più avuta una settimana di sole e di sogno come quella che abbiamo trascorsa sull'altra riva così vicini alla realtà da piangere e tanto lontani da sorridere.

Come dimenticare? L'anima del popolo palpitante nell'aria come un immensa bandiera issata alle cime della speranza, un canto possente come la voce del mare, un silenzio più vasto della quiete della montagna e nella moltitudine invisibile pareva di parlare all'infinito in nome del morti... l'orizzonte bruciava al tramonto come una camicia rossa incerata dagli ultimi raggi come da una selva di sciabole d'oro ed il sangue colava nel mare a torrenti.

Come dimenticare? Sulla riva una pioggia di fiori; un'improvvisa primavera sbocciava dal solco della nostra sventura e dopo un inverno di molti anni potevamo sull'ultimo lembo della patria ricogliere le rose della nostra giovinezza sepolta; ridevano di nascoto le nostre ferite, ridevano le sorgenti del sangue per sempre richiuse nella voglia di riscaturire ridevano davanti alla messe florita contonte d'aver seminato senza speranza nella fatica dell'uomo, ma fiduciose nel vento e nel sole di Dio.

Come dimenticare? Le labbra delle fanciulle schiudevano fiori di melograno sull'avorio candido dei denti alla luce di un dolce sorriso, e gli occhi brillavano sotto un velo di pianto come stelle nello specchio del mare; la gioia confinava con la sofferenza e la tristezza con l'entusiasmo. C'era nell'aria una soave poesia d'amore bagnata di pianto, un tepore ideale che riscaldava lo spirito, una freschezza di sentimento che lo dissetava; c'era un odore consolante di umanità, una luce di divina passione, un'intima armonia tra la terra e il ciclo tra l' uomo e Dio, tra la vita e l'eternità.

Il coro della moltitudine faceva tremare le volte del firmamento come un'immensa preghiera, cresceva oscurandosi come in una tremenda minaccia, si apriva nel largo respiro di un canto spezzandosi poi in un singhiozzo fino a soffocare in un silenzio senza fiato.

Che cosa non abbiamo sentita nella voce del popolo su quella riva? C'era la rampogna ai vivi e il ringraziamento al morti, c'era l'umiltà della preghiera e la ribellione della minaccia, c'erano l'odio e l'amore, la disperazione e la fede, la maledizione e il bacio, lo schiaffo e la carezza. E noi ci siamo accorti come dalla Dalmazia lontana e dimenticata battesse per tutta l'Italia assente ed immemore il cuore di tutta la patria. 

Noi che eravamo andati al santuario per adorare l'immagine ci siamo trovati davanti al miracolo del sangue e abbiamo provato un rimorso vicino alla consolazione e una gioia profonda come un pentimento. Noi non avevamo mai sentito come la nostra sventura fosse un privilegio e una benedizione; non avevamo mai sentito come allora che la nostra mano perduta ritornava nella carezza del vento e nello schiaffo della bufera, che la nostra cecità era una visione più lontana, che il nostro dolore era un'insegna e la nostra vita una missione: allora noi sentimmo come non mai che la nostra rovina era un piedestallo, il nostro sacrificio una bandiera e ci parve che fra le nostre braccia diventasse uno scettro anche la croce.

Da quel giorno facemmo un giuramento e gli terremo fede fino in fondo: giurammo che dovunque, nel cerchio chiuso dell'amicizia e della casa, nel campo aperto del teatro e della piazza sempre avremmo gittata la nostra parola a costo di parlare al deserto e di seminare sulla sabbia e la nostra parola sarebbe stata quella di tutta la Dalmazia. Giurammo e oggi in questa città delle sante barricate gittiamo il grido della Dalmazia lontana sperando che la vedetta del risorgimento suonerà per la terza volta la diana della riscossa.

Rispondiamo a questa voce della Patria in esilio che ci porta il sale di quell'Adriatico che noi cercammo di addolcire con tutto il nostro sangue e che i nostri fratelli rifecero amaro con tutto il loro pianto: raccogliamo l'allarme che le ultime sentinelle della Patria urlano all'Italia addormentata ed assente. Sono pochi superstiti nella fortezza assediata da secoli ma hanno combattuto senza bandiera, hanno aspettato senza speranza e non meritano l'ingratitudine dell'abbandono e l'abbominio del tradimento.

Sono i fedeli che hanno pregato fuori del tempio, le scolte che vegliarono da sole fuori nella trincee e non vollero arrendersi anche quando la battaglia sembrava perduta per sempre e continuarono a pronunziare in italiano le loro preghiere, a squillare in italiano le loro canzoni.

Sono pochi ma ognuno di loro ha avuto il cuore di un popolo e la fede di una generazione; sono pochi ma ognuno di loro è l'Italia nella sua povertà e nella sua gloria; sono pochi ma sono i vincitori della più lunga guerra combattuta alle porte della casa, nel tempio e nella scuola, nel cuore della famiglia, sono i campioni della razza che hanno domato il tempo e la distanza, l'oblio e la morte.

Noi che una sera approdammo sfiduciati e stanchi sulla riva dalmata sentimmo come quella terra e quella gente fossero le più italiane del mondo: la Dalmazia che vive, che soffre, che ama, che spera, la Dalmazia che sente, che crede, che pensa, è italiana; il resto è umanità greggia e potrà fondersi nel crogiuolo della nostra civiltà per essere riplasmata dal genio della nostra stirpe.

Basta avventurarsi nell'interno per accorgersi che le genti del contado arretrate di molti secoli non hanno idea nazionale né coscienza di popolo; le tradizioni e i costumi sono quelli di una popolazione uscita ieri dalle tenebre delle barbarie che lungi dall'avere trovata l'unità della Patria fatica ancora attorno al nucleo della famiglia e domani dovrà accostarsi al focolare della nostra civiltà per riscaldarsi e alla luce del nostro pensiero per leggere i segni del suo destino.

Parlare di irredentismo entro i nostri confini sarebbe falso ed assurdo. Quale irredentismo? Quello dei mestatori croati pagati dall'oro internazionale che piangono ancora il trialismo dell'impero e la servitù perduta, quello dei preti inconsolabili che volentieri ritornerebbero ai bei tempi passati quando la maestà cattolica andava in processione del clero e la forca sovrana faceva parte della croce? Essi hanno la patria di chi li paga; lacché disoccupati in cerca di un padrone, servirauno domani come servirono ieri alla corte del vincitore. Soltanto i fratelli dalmati, avanguardia della Patria al di là del mare, se domani fossero abbandonati riaccenderebbero la fiaccola della rivolta per dare alla luce del martirio i loro cavalieri e i loro profeti finché un'Italia meno ingrata non sentirà la voce del sangue e la potenza dell'amore.

Ma gli inqualificabili piagnoni della rinunzia, gli apologisti del suicidio nazionale non sanno che nella terra dalmata tutto è italiano dal cielo che si respira al pane che si mangia, dalla faccia delle città e dei villaggi alla parola che ci fa riconoscere di lontano, non sanno che dalle guglie delle cattedrali ai merli dei palazzi, dalle voci delle campane ai canti di popolo, è tutta una musica italiana che inneggia alla Patria immortale, non sanno che laggiù ogni pietra e ogni solco, ogni linea, ogni colore, ogni pensiero e ogni accento sono sempre italiani.

Nell'isola di Curzola un nostro soldato poteva incidere sullo scoglio queste parole decisive come una sentenza: «Se trovi una pietra che non sia veneziana, scagliamela.»

Non hanno udito i rétori del cinismo e dell'indifferenza, le anime dannate dell'alta banca, i parricidi e i mercanti nazionalisti delle patrie altrui, non hanno uditi i canti del popolo quando salgono ardenti come una preghiera, quando scendono gravi come un giuramento, quando sforzano come una ironia e quando baciano come una carezza, quando si accendono come l'entusiasmo, quando si spengono nella tristezza: non li hanno uditi i canti del popolo che parlano della Patria e della madre, che parlano della morte e della gloria e sperano e soffrono e sorridono e piangono, i canti del popolo che nella Dalmazia risuonano come diane della libertà alla vigilia della riscossa.

C'è in questo rifiorire di canti come un ritorno improvviso del '48 quando i volontari partivano accompagnati dalle canzoni i poeti della musica e del verso interpretavano l'anima della Patria negli inni della redenzione.

E non è dire che l'italianità sia un capriccio intellettuale degli aristocratici, un bisogno ideale di arricchiti disoccupati e di nobili distratti: purtroppo certi alti papaveri sapevano vivacchiare anche all'ombra delle feluche austriache raccattando prebende e decorazioni e riducendo la passione della Patria ad un piacevole giuoco di parte: ma il popolo vero quello delle officine e dei fondachi, quello delle casupole lontane dai palagi e vicine al mare, assetate d'aria libera, non ha mai portata la livrea e piegata la schiena e sono gli scaricatori del porto e i braccianti della campagna che vogliono la miseria italiana piuttosto che l'agiatezza straniera e chiedono un grande tricolore sulla torre e un pane scuro nella casa.

Vorremmo abbandonare alla vendetta dello straniero le donne che accolsero in ginocchio sulla riva i primi marinai e i primi fanti d'Italia, le donne che abbracciarono i liberatori baciandoli sulle ferite e sulle decorazioni, i fanciulli che nel segreto della casa impararono a pregare Iddio nella nostra lingua, i giovani che sotto le odiate bandiere dovettero ribadire le catene del servaggio, i vecchi che già un'altra volta seppero l'ingiustizia dell'oblio nell'ora della sconfitta e non ammainarono il segno di fortuna, vorremmo lasciarli in balia di una gente che forse non può perdonare all'Italia una libertà mai aspettata e voluta?

Domandate al fratelli di Spalato perseguitati dalla marmaglia croata se la nuova tirannia non sia peggiore dell'antica; domandate ai fratelli di Spalato se hanno potuto ospitare per l'ultimo sonno in grembo alla terra natia i marinai d'Italia assassinati dai vecchi carcerieri dell'impero; domandate al fratelli di Spalato quante percosse e quante ingiurie costarono loro i fiori di riconoscenza e di amore deposti sulle bare degli ultimi eroi. Domandate agli slavi della zona occupata che cosa hanno portato i nostri fanti in mezzo a loro, i nostri semplici fanti che in ogni donna straniera hanno veduta una sorella ed una mamma che diceva con altre parole lo stesso grande amore, i nostri semplici fanti che in ogni casa straniera hanno rispettata la loro casa lontana e vi sono entrati a capo scoperto con il cuore in mano con quella santa umanità italiana che accomuna, affratella, ama, compatisce e perdona. Domandate! — E poi vedremo quale sarà l'ingiustizia peggiore, se abbandonare gl'italiani al croati o i croati agli italiani.

Abramo Lincoln un altro presidente che non tenne cattedra di filosofia mondiale ne fece il Salomone nelle contese del mondo, ma oprò per la giustizia e per l'amore, scrivendo a Giuseppe Mazzini, rammentava che i Serbi popolo selvaggio appena uscito dalla barbaria avrebbe dovuto vivere, imparare e migliorarsi prima di assidersi accanto ai popoli civili.

L'Austria moribonda, quando lasciava in eredità ai suol sgherri fedeli l'armata sconfitta senza la poesia di una battaglia sapeva che essi, i prediletti nipoti avrebbero continuata l'opera sua contro l'Italia. Questa Austria rediviva che i nostri soldati avevano demolita per sempre e alleati e nemici vollero risuscitare al nostro fianco, questo mosaico di razze diverse di religione, di storia, di lingua, questo simulacro di Nazione, aborto della diplomazia piuttosto che creatura del popolo, come potrebbe accusare l'Italia?

Come potrebbe accusarla se non ancora nata dimostrò l'anima sua rapace di ogni libertà vicina e lontana, se gli atti del suo governo furono di prepotenza e di sopraffazione, carnefice del Montenegro, carceriere di Dalmazia, invasore nell'Albania e nella Carinzia? Come potrebbero accusare l'Italia, gli altri alleati nel bisogno e nemici nella vittoria che già si spartiscono i tre quarti del mondo per invidiare l'unità della Patria a questa proletaria di tutte le genti che non ha altra ricchezza se non il sangue dei suoi soldati, il sudore dei suoi lavoratori e il genio dei suoi poeti? Perché dietro questa Jugoslavia malaticcia, prepotente e cenciosa c'è lo straniero che soffia e che paga, c'è il ricatto internazionale del carbone e del pane, c'è la coalizione usuraia del ferro e dell'oro che congiurano contro l'Italia che nella povertà generosa rappresenta l'onestà del lavoro: dietro l'arroganza dei sicari c'è la paura dei padroni e l'interesse dei potenti che non vorrebbero vedere l'Italia signora dell'Adriatico accamparsi nel Mediterraneo. In questa sacra battaglia più che l'avvenire della Patria noi difendiamo la libertà umana che volemmo salvare dalla spada prussiana non perché fosse venduta sulle bilancie dei mercanti: a questo invisibile giogo dell'oro avremmo preferita la prepotenza del ferro; soggiaceremmo piuttosto alla violenza che al ricatto, vorremmo essere piuttosto schiavi che servi. Se ancora una volta la nostra bandiera sull'altra riva vuol dire libertà e giustizia perché dovrebbe essere ammainata davanti al mercanti di fuori e ai venduti di dentro? Ma lasciamo che i governanti riprendano le vie traverse e i vicoli oscuri e guardiamo piuttosto i nostri soldati che non fanno discorsi e non imbrattano carte ma scrivono sulla roccia viva del Dinara dei versi che possono mancare di piedi ma hanno tutte le ali:

Il fante se ne andrà 
quando il Dinara con lui ne verrà

parole anonime come le croci del Carso che vogliono dire la volontà dei morti per tutta la Patria.

Noi non abbiamo che da imparare quello che il fante ha scritto cercando di renderci degni di tanto amore e di tanta costanza; non abbiamo che da eseguire il comandamento del morti con obbedienza devota.

I marinai e i soldati d'Italia che hanno ritrovata in Dalmazia l'anima della Patria non torneranno indietro anche se i governanti che già premiarono i disertori daranno l'ordine del tradimento.

Giuriamo anche noi come hanno giurato i soldati dal mezzo all'ammiraglio, dal generale al fante, rinnoviamo quel giuramento che per tutte le vittime del sogno pronunziammo una sera in Sebenico d'Italia in un incendio di entusiasmo che bruciava anche sotto la pioggia del pianto.

Purtroppo il giuramento non venne mantenuto ma non per tradimento dei fanti e quella sera istessa ricevendo dalle mani delle fanciulle dalmate un mazzo di rose sanguigne, mi parve che esse si posassero sull'anima mia con un odore di morte... agonizzava in quei giorni la libertà dalmata invano dal nostro sangue rivendicata.

CARLO DELCROIX