| La liturgia slava nell'Istria dott. Bernardo Benussi Tratto da: Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria, Vol. IX, anno 1893. Tip. Getano Coana (Parenzo, 1894), p. 151-283]Mons. Volarich presentò nella seduta 12 marzo 1892 della Dieta provinciale istriana una interpellanza all'i. r. Governo intorno all'uso della lingua slava nella liturgia ecclesiastica. Un «Critico», nel supplemento all'«Eco del Litorale» a. 1892, n. 40, confutò in parte gli argomenti addotti dal Volarich, dimostrando mancare agli Slavi dell'Istria ogni diritto di celebrare gli ufpci divini nella loro lingua nazionale. Gli rispose il Volarich nel medesimo giornale n. 136 (26 novembre 1892) affastellando però capricciosamente fatti ed epoche in modo da portare nell'argomento confusione piuttosto che chiarezza. La Direzione della «Società istriana di archeologia e storia patria» stimò opportuno di non rimanere estranea a tale questione, tanto più che essa concerne un periodo dei più oscuri, ma assieme anche dei più importanti della no'stra storia provinciale. Laonde, raccolto quanto più materiale potè, commise [152] di scrivere su tale argomento al suo Vice-Presidente Prof. Dott. Bernardo Benussi, che volonteroso se ne assunse l'incarico, e scrisse quanto ora presentiamo ai lettori. Nella luce e nella verità sta la nostra forza, ed il fondamento del nostro diritto. Parenzo, nel Giugno 1893. La Direzione. [153] «Historia magistra vitae». Dobbiamo premettere che, parlando dell'Istria, intendiamo sempre di ragionare dell'Istria geografica, quale fu segnata nel grande libro della natura a caratteri di monti e di marine; dell'Istria cioè inclusa fra i golfi di Trieste e del Quarnero, fra l'Adriatico da un lato, i monti Vena ed i Caldiera dall'altro. Restano con ciò escluse la Liburnia al di là del Monte Maggiore (1), e le isole del Quarnero (2), sia perchè affatto estranee all'Istria per posizióne geografica, sia perchè, avendo esse avuto uno sviluppo storico e nazionale tutto diverso dal nostro, il comprenderle nell'Istria produrrebbe gravissima confusione, e potrebbe essere fonte di molteplici errori nella questione liturgica che ora ci accingiamo a studiare. La Liburnia e le isole del Quarnero furono aggregate all'Istria appena nell'anno 1825. § I. L'Istria fu assoggettata dai Romani nel 177 av. Cr.; nell'anno 27 av. Cr. l'imperatore Augusto la incorporò all'Italia, e rimase congiunta all'impero sino a che questo venne a cessare nel 476 d. Cr. I seicento cinquantatre anni adunque di non interrotto dominio romano nell'Istria hanno avuto per naturale conseguenza la completa romanizzazione della provincia, qualunque [154] sia stata la sua popolazione primitiva. Il vol. l del «Corpus inscriptionum latinarum» edito dal Mommsen, e le numerose iscrizioni romane successivamente publicate, ne danno la più veritiera e luminosa prova. Quindi ne deriva quale necessario corollario, che allorquando nel primo secolo dell'Impero fu predicato e diffuso il cristianesimo nella nostra provincia per opera di S. Ermagora e dei discepoli suoi, e si sono fondate le chiese cristiane (3), i vescovi, e con essi il clero tutto, celebrassero le funzioni religiose in queir unica lingua che era da essi conosciuta, ossia nella latina, e con quei riti che erano propri della santa madre chiesa romana. E per quella stessa ragione, per la quale la provincia romana dell'Istria, compresa nella decima regione italica, era politicamente subordinata ai magistrati imperiali di Aquileia (4), le diocesi istriane, create che furono le chiese metropolitiche, fecero capo alla chiesa di Aquileia, donde parti la prima evangelizzazione (5). Questi sono fatti storici inoppugnabili. Adunque, nè di Slavi, nè di liturgia glagolitica (o vetero-slavonica) nel nostro paese non si può parlare in tutto il periodo romano; vale a dire sino a che gli Sloveni non penetrarono nella Carniola dopo il 568, ed i Croati nella Dalmazia dopo il 630. E qui si presenta la domanda: occuparono queste stirpi slave le adiacenti terre istriane? Vediamolo. Non esiste una fonte, nè un documento, nè un fatto che provi essersi gli Sloveni impadroniti di tutta, o di parte dell'Istria. Opinioni di scrittori più o meno moderni, più o meno interessate, quante ne vogliamo; ma documenti, prove storiche, punto. Di fatti Paolo Diacono parla sempre d'incursioni, di stragi, di [155] morti, d'incendi (6), di tutto quello che si vuole; ma mai di una occupazione del paese. Noi, invece, possiamo citare un documento autentico, irrefragabile, dal quale risulta che al finire dell'ottavo secolo, nell'Istria nessuna città, nessun castello, nessuna borgata era abitata da Sloveni: e questo documento si è «gli Atti del placito al Risano» (7). A questa assemblea provinciale, tenuta nell'804, non solo le città marittime, ma tutte quelle dell'interno, Montona, Pedena, Pinguente, compariscono come città istriane di popolazione romana soggette a Bizanzio. Troviamo in queste città i tribuni, i vicari, i locopositi, i primates, tutte le magistrature, tutte le istituzioni bizantine; ma non una sola allusione a tribù slave che fossero da secoli stanziate nella nostra provincia, non un solo zupano: in quella vece nei documenti della Dalmazia, benchè più scarsi in numero dei nostri, i zupani sono ricordati a dozzine (8). Il grido unanime col quale il popolo istriano protestava dinanzi ai messi di Carlo Magno contro il duca Giovanni per avere questi introdotto coloni slavi pagani nella provincia (9), e lo rinfacciava di averlo costretto a dare per tre anni le decime dovute alla santa chiesa a questi Slavi quando ei li [156] trapiantò sulle terre delle chiese e dei comuni «in sua dannazione e nostra rovina — in sua peccata et nostra perditione (10)» — non è forse la più bella prova che i nostri antenati non si erano trovati sino allora in nessun contatto con siffatta gente? Potevano questi Slavi dimorare da secoli in una provincia interamente cristianizzata, se nell'804 essi erano tuttora pagani? Veniamo ora ai Croati. All'opposto degli Sloveni, che assieme agli Avari occuparono la Carniola per invasione e col diritto del più forte, i Croati vennero e si stabilirono nella Dalmazia col consenso dell'imperatore Eraclio; anzi il Porfirogenito, principale e molto spesso unica fonte in tale proposito, accentua il loro carattere pacifico, le relazioni di buon vicinato mantenute colle province circostanti, lo zelo per amicarsi l'imperatore ed il pontefice, abbracciando il cristianesimo e vivendo tranquilli nelle sedi loro assegnate dal sovrano di Costantinopoli (11). Se a questo aggiungiamo che l'Istria, apparteneva essa pure all'imperatore Eraclio, e ch'egli si sarebbe opposto all'occupazione croata di altre province dell'impero loro da lui non assegnate, resta con ciò storicamente esclusa una irruzione, e tanto più una occupazione croata dell'Istria. E di fatti non havvi un solo cronista che ne faccia neppure la più lontana allusione. Havvi bensì un passo del Porfirogenito (12) del quale le sbrigliate fantasie slave approfittarono per allargare l'elemento croato su parte del nostro paese. Ecco questo famoso passo: «Anticamente la Dalmazia incominciava ai confini di Durazzo e si estendeva sino ai monti dell'Istria.... Gli Avari occuparono tutta la Dalmazia eccettuate le castella prossime al [157] mare.... I Croati vennero nella Dalmazia, vinsero gli Avari e da quel tempo fu dai Croati posseduta questa regione.... La Croazia comincia dal fiume Zentina, e si estende verso il mare sino ai confini dell'Istria, vale a dire sino alla città di Albona; verso la parte montana si allarga alquanto anche sopra la provincia dell'Istria, e verso Trentina e Chlebena raggiunge la regione della Serbia» (13). Per comprenderlo bene devesi ricordare che il confine politico dell'Istria, all'epoca di cui ora parliamo, andava dal Quarnero al Monte Maggiore, e da qui al Triestenick, al Catalano ed al Nevoso (14). Lo storico bizantino divide, come si legge nel passo surriferito, il confine croato in tre parti: - verso il mare;
- verso la regione montana; e
- verso la Serbia.
Il buon senso più elementare ci dirà che la parte marittima era quella che dal Quarnero giunge ai piedi del Montemaggiore, la parte montana quella che dal Maggiore andava al Nevoso, mentre «versus Tzentina et Chlebena» erano le regioni al di là del Nevoso presso la Serbia. Laonde, quando il Porfirogenito ci dice che «verso la parte montana, la Croazia si estendeva alquanto sopra il confine dell'Istria», vuole significare che si estendeva d'un tratto oltre il confine politico segnato fra il Maggiore ed il Nevoso, cioè entro l'altipiano della Carsia, dove stavano allora i limitanei dipendenti dal tribuno di Trieste. E ciò non reca nessuna meraviglia a chi ha letto le Istituzioni di Giustiniano (I, 27, 8). Verso il mare però il nostro autore fa giungere il confine croato sino alla città di Albona, lasciando incerto se egli intenda d'includerla, o meno, entro il suaccennato confine. [158] Ma dicendo egli al principio del capoverso che «la Dalmazia arrivava sino ai Monti dell'Istria», dovrebbesi pensare che egli collochi Albona fuori del confine della Croazia. Che così fosse, che così debba intendersi questo passo, lo provano esuberantemente i già noti Atti del placito al Risano, dai quali si rileva che Albona è intervenuta alla grande Dieta provinciale, quale città istriana-bizantina, e non croata; e lo prova altresì il fatto che la chiesa albonese non fu mai subordinata alle diocesi della Croazia, ma al vescovo di Pola. Ed è perciò che quella grande autorità storica che è Teodoro Mommsen scrisse (15): «Costantino Porfirogenito estende la Croazia sino ai confini dell'Istria o al castello di Albona, in modo da sembrare che attribuisca all'Istria Albona e Fianona». È bensì vero che l'illustre storico tedesco l'aveva non poco coi preti carniolici venuti a predicare nell'Istria la nuova civiltà oltramontana: l'aveva, diciamo, specialmente dopo che un parroco di triste memorìa «infelicis memorìae homo» dice Mommsen stesso, un certo Golmaier, oriundo carniolico, e parroco di Rozzo, spinse il suo odio contro la civiltà latina al punto da sfogarlo sulle innocenti lapidi romane, e sotterrarne quante più potè nelle fondamenta della chiesa di S. Andrea fatta da lui riedificare (16). Ma questa avversione non avrà offuscato la serenità di giudizio dell'insigne storico allemanno. Conchiudiamo, adunque, che nè Croati, nè Carniolici si stabilirono nell'Istria durante l'epoca bizantina, nè vi tennero città, o borgate, o villaggi. Gli Atti del placito al Risano sono lì a farne ampia testimonianza (17). [159] Uno dei tanti apostoli del moderno panslavismo (18), sceso dalla Liburnia a vivere nel nostro paese, disse un giorno del 1892 nella Camera dei deputati a Vienna «che la contea di Pisino ebbe la sua origine nella zupania di Pesenta ricordata dal Porfirogenito»; e conchiudeva quindi che già d'allora la maggior parte dell'Istria fosse croata. Per uscire con tale sortita l'onor. deputato dei comuni rurali deve avere scambiato lo storico bizantino con qualche giornalista croato dei nostri tempi. Ecco infatti quanto scrive il Porfirogenito (19): «Questa regione, cioè la Dalmazia, fu posseduta dai Croati.... I Croati che abitano la Dalmazia.... La loro regione è poi divisa in undici zupanie i cui nomi sono Clebiana, Trentzena, Emota, Pleba, Pesenta....» Più chiaramente di così lo storico bizantino non poteva esprimersi per far capire anche ai più tardi di comprendonio che la zupania di Pesenta era nella Dalmazia, proprio nella Dalmazia, e non altrove; e così lo intesero non solo storici tedeschi di fama quali un Krones (20) ed un Gfrörer (21), ma gli stessi storici slavi come un Iirececk (22), un Safarick (23), un Kukuljevich, ed il dottissimo presidente dell'Accademia delle scienze di Zagabria, il dott. Francesco Racki (24). Nessuno poi vorrà considerare come nucleo dell'odierna popolazione slava nell'Istria quelle poche centinaia di coloni reclutati dal duca Giovanni nell'ultimo decennio del secolo [160] VIII fra ì pagani, fra il rifiuto della Carniola, e cui egli in odio agl'indigeni trasportò nell'Istria, e mise a lavorare le terre tolte alle chiese ed ai municipi (25). Diciamo poche centinaia, essendochè, ove non si fossero trovati in piccolo numero, e se il duca non fosse stato il primo a sprezzare questi strumenti della sua tirannide, non avrebbe offerto ai rappresentanti dell'Istria di cacciarli fuori del paese — «aut ubicumque nos eos ejiciamus foras (26)». — E questo pure si legge negli Atti del placito al Risano. Ch' egli li abbia poi cacciati fuori, o no, non è cosa che interessi all'argomento presente di ricercare. Il 22 febbraio 840 l'imperatore Lotario nel trattato di pace e di amicizia conchiuso con Venezia annovera gl'Istriani fra i popoli italici amici dei Veneti; e promette a questi un esercito contro «le generazioni degli Slavi loro nemici» (27). E ciò significa che nell'840 Slavi ed Istriani erano due termini che vicendevolmente si escludevano. Adunque niente Slavi nell'Istria nel secolo VIII ed al principio del IX; e non troviamo ragione al mondo per supporli venuti nel IX sec., tanto più che l'Istria apparteneva allora a quei sovrani franchi che reggevano anche l'Italia, di cui l'Istria era provincia; mentre altri erano i padroni, e ben altre le sorti delle contermini province slave. § II. A Monsignor Volarich si aspetta il vanto della scoperta che la liturgia glagolitica fu introdotta nell'Istria già sul finire del secolo IX, per opera nientemeno che di S. Metodio in persona. [161] Egli scrive (28): «Il Cardinale Bartolini, che dietro incarico di Sua Santità Leone XIII espone la vita degli apostoli slavi Cirillo e Metodio e ne pubblica i documenti sui quali si basa l'enciclica (Grande munus), si riferisce a pag. 161 ad un documento riguardante la conversione del popolo della Carinzia, del seguente tenore: Dopo Hosbaldo frapposto alquanto di tempo sopravenne (fra i Carantani) dalle parti dell'Istria e della Dalmazia un tale Slavo di nome Metodio, il quale inventò le lettere slave, e celebrando nella lingua slava, rese vile la lingua latina; finalmente cacciato dalle parti dei Carantani entrò nella Moravia ed ivi morì». Dunque, continua Mons. Volarich, «a Metodio l'Istria non era una terra incognita, ma ritornando da Roma ebbe a fermarsi per qualche tempo, annunciando la parola evangelica e celebrando i misteri della nostra s. religione in lingua slava nell'Istria e Dalmazia, e di là passa nella Carinzia ove incontrò le note traversie ecc.» Che un profano possa venire a tali conclusioni, lo si può ammettere facilmente; ma che lo faccia un Canonico e Dottore in Sacra Teologia, non può che dolorosamente sorprendere il lettore. Immaginiamoci infatti che un giapponese trovasse scritto in una cronaca antica che nell'anno di grazia 870 un tale giapponese di nome X, ritornando da Roma, venne dalle parti della Sicilia e della Palestina nella penisola di Corea, e, cacciato dai Coreani, entrò nel Giappone ed ivi morì. E gridasse perciò ai quattro venti: — Ecco, uditori carissimi, ecco una prova inconcussa che la Sicilia e la Palestina erano nel IX secolo abitate da giapponesi, e che il missionario X, venendo da Roma, si fermò in quelle province, annunziò ivi la parola evangelica in giapponese, e celebrò i misteri religiosi in giapponese ecc. ecc., che cosa si direbbe della dabbenaggine di questo scrittore giapponese? Ma ritorniamo al documento, che non è un documento, come lo chiama con parola solenne il Volarich, ma sì una breve [162] aggiunta intercalata nel testo della Conversio Bagoariorum et Carantanorum. È falso che l'autore di questa aggiunta, solitamente designata col titolo di Excerptum carantanum (29), sia contemporaneo ai Ss. Cirillo e Metodio, com' egli sostiene; ma è in quella vece di tre o quattro secoli posteriore. Di fatti, mentre nella compilazione originaria della Conversio attribuita all'873 non esiste il surricordato Excerptum, e manca anche nei varî codici dei secoli X e XI, esso trovasi intercalato al testo appena in un codice (A. 4. 483) del secolo XII o XIII e per di più «satis mendosus exaratus» (30); il che toglie all', «ex partibus Istriae» ogni valore storico, seppure un qualche valore gli si volesse dare. E neppure nelle leggende dei Ss. Cirillo e Metodio (31), che son molte, non nella leggenda italica, non nella moravica, non nella boemica, non nella pannonica, non nella bulgarica, ed infine neppure nella vita di S. Metodio lo sguardo più acuto e penetrante potrebbe scoprirvi il più lontano accenno ad un'attività apostolica di questi missionari nell'Istria nostra. Non fa duopo del resto di avere compulsate a fondo le sacre pagine per sapere che quando il sommo pontefice assegna ad un vescovo una determinata diocesi, a questo vescovo resta per ciò solo interdetta ogni ingerenza ecclesiastica nelle cose di altre diocesi; come ad esempio l'andarvi a predicare, l'istituirvi nuove chiese, il mutarvi la liturgia già esistente, ecc. ecc. La dottrina apostolica «quomodo quis praedicabit nisi mittatur» è antica e vera, quanto antica e vera è la chiesa [163] cattolica. Ora all'arcivescovo Metodio non venne lasciata carta bianca di fare e disfare la liturgia dove meglio gli piacesse, dove s'incontrasse, o credesse d'incontrare qualche slavo più o meno autentico; ma il pontefice Adriano II limitò e circoscrisse l'attività del nuovo metropolita esclusivamente al paese soggetto a Rotislao duca dei Moravi, ed a Còzel principe dei Pannoni. Lo dimostra il titolo di archiepiscopus Pannonensis et Moravensis Ecclesiae, oppure quello più breve di archiepiscopus Pannonensis Ecclesiae, ch'egli porta (32). E, grazie a Dio, l'Istria non era allora nè di Rotislao, nè di Còzel; e le nostre chiese non erano subordinate alla diocesi della Pannonia, nè a quella della Moravia: nostro duca era Eberardo duca del Friuli, nostro sovrano il re d'Italia Lodovico II, metropolita delle nostre diocesi Lupone patriarca d'Aquileia. E poi dove avrebbe trovato S. Metodio nell'869 gli Slavi pagani da convertire nell'Istria? Forse quelle poche centinaia [164] di coloni trasportati dal duca franco 70 anni prima? Se anche gl'Istriani non fecero uso contro di loro dell'«ubìcumque ejiciamus foras», in 70 anni, i sei (dico sei) vescovi dell'Istria avevano avuto ben tempo di convertirli alla religione cattolica, senza attendere proprio la venuta di S. Metodio. E poi i vescovi dell'Istria ed il patriarca di Aquileia avrebbero permesso che un vescovo straniero, destinato per la Pannonia e Moravia, e da loro probabilmente avversato siccome tenuto da tutto l'Occidente in conto di eresiarca, perchè si serviva di una lingua che non era quella di nostro Signore (33), e perchè lo sospettavano infetto dell'eresia di Fozio, avrebbero permesso, si domanda, che questo nuovo venuto, spadroneggiasse a suo talento nelle loro chiese, e mutasse di suo arbitrio la lingua liturgica latina, in cui unicamente si era da secoli celebrato, nella lingua glagolitica intieramente sconosciuta dal clero e dal popolo istriano? Non vi ha in tutta l'Istria, sia essa abitata da Italiani o da Slavi di qualunque razza o provenienza, una sola chiesa intitolata ai Ss. Cirillo e Metodio. In nessuna orazione liturgica s'invoca nell'Istria e per l'Istria il loro patrocinio, la loro intercessione. Non una delle chiese istriane attribuisce a questi missionari slavi la sua fondazione. E sì che nell'Istria nessuno è venuto a fare tabula rasa delle sue istituzioni ecclesiastiche dopo l'870, com' è accaduto nella Pannonia e nella Moravia. Quindi se fosse vero che i Ss. Cirillo e Metodio hanno evangelizzato nell'Istria, la memorìa di questo fatto storico si sarebbe certamente conservata. Ma nulla di tutto questo esiste nel nostro paese. E la stessa enciclica «Grande munus» di S.S. il regnante pontefice Leone XIII, la quale ha rinnovato alla memorìa della cristianità la vita e le gesta dei Ss. Cirillo e Metodio, ed il loro apostolato «apud Slavoniae populos», nominando le diverse genti, presso le quali questo apostolato fu da essi esercitato, non contiene la più lontana allusione all'Istria, che non manifestò [165] mai il desiderio, neppure fra gli Slavi che l'abitano, di solennizzare in modo speciale la festa dei detti Santi in memorìa dei benefici ricevuti; conservandosi invece costante la tradizione fra gli stessi Slavi che popolano già da antico la parte montana del Goriziano, del Friuli e della Carniola, che l'insigne merito di avere sparso il primo seme cristiano spetti unicamente a S. Ermagora, da essi riverito al pari degl'Italiani come l'apostolo di quest' ampia regione, e cui prestano solenne culto nella ricorrenza dell'annua festa. Che se in recentissimi tempi si è fatto da noi risuonare la fama dei Ss. Cirillo e Metodio, dapprima sconosciuti, per opera di coloro che fecero di questi santi una bandiera di propaganda panslavista, tolta ad imprestito dall'omonima Società russa di beneficenza, come avremo occasione di vedere in seguito, o se qualche curato oltramontano si è procurato il piacere di far dipingere sulle pareti di qualche chiesa di campagna le loro imagirli, tutto questo non altera ancora la verità dei fatti da noi superiormente dichiarati. Laonde fa duopo conchiudere che l'arcivescovo Metodio nè poteva volere, nè avrebbe potuto apportare modificazione alcuna nella liturgia latina usata in tutte le chiese istriane già dal tempo della loro istituzione. Se l'avesse tentato, il patriarca di Aquileia avrebbe agito contro di lui colla stessa energia di cui ha fatto uso il primate di Salisburgo, certo dell'appoggio di tutti i suoi vescovi e dello stesso romano pontefice. Il volere adunque riferire l'introduzione della liturgia glagolitica nell'Istria all'arcivescovo Metodio, come fa monsignor Volarich, ed il vantare per la liturgia slava nell'Istria un diritto millenario, manca di ogni fondamento di verità. Ad essere giusti però bisogna dire che il merito di tanta scoperta non spetta tutto a lui. La ci si trova già nella storia dei Ss. Cirillo e Metodio del Ginzel; nascosta però e quasi pudibonda, in una breve nota (34), tanto che l'autore non ne fa [166] poscia alcun uso; anzi a pag. 55 dimostra essere accaduto tutto il contrario di quanto afferma l'Excerptum. Il Volarich invece inalza questa scoperta all'onore degli altari, e la cresima quale verità sacrosanta, quale canone per il suo gregge. Eppure un solenne esempio avrebbe dovuto trattenerlo da questo passo inconsulto, l'esempio cioè di Sua Eminenza il Cardinale Bartolini, il quale, benchè proclive ad allargare l'attività di Metodio anche alla Dalmazia e ad altre terre slave, esclude dalla sua ingerenza la provincia dell'Istria (35). Ma non è a tal fonte che Mons. Volarich attinge le sue ispirazioni. § III. Ed ora l'argomento esige di studiare più da presso l'attività del nuovo arcivescovo Metodio, l'istituzione della liturgia slava, le sue varie vicissitudini, per rilevare se ed in quanto esse possono avere esercitata qualche influenza, od arrecata qualche modificazione nella lingua liturgica del nostro, paese. Chiamati da Rotislao duca dei Moravi, si recarono i due fratelli di Tessalonica Costantino e Metodio già nell'863 nella Moravia, e quivi probabilmente d'accordo col vescovo di Passavia, che esercitava su quel paese la giurisdizione ecclesiastica, si diedero a predicare il cristianesimo. Per facilitarne la diffusione, tradussero in slavo non solo parte dell'antico e nuovo Testamento, ma anche il messale, il breviario ed il rituale, seguendo [167] però nelle chiese da loro fondate, il rituale latino (36); e così continuarono fino all'autunno dell'867. Questi loro successi destarono la gelosia del clero tedesco già stabilito nella Moravia, il quale li accusò a Roma di dottrine eretiche. Il papa, mosso dalle accuse del clero tedesco, e dalle simultanee istanze del duca moravo Rotislao, e probabilmente anche da quelle del principe slovaco Còzel, i quali, agognando entrambi di formare nella Moravia e Pannonia una propria chiesa nazionale indipendente dal vescovo di Passavia e dall'arcivescovo di Salisburgo, domandavano che Cirillo e Metodio fossero consacrati a vescovi, invitò i due missionari greci di portarsi a Roma. Sedeva allora sul trono pontificio Adriano II, succeduto il 14 decembre 867 al pontefice Nicolò. Dopo che i due fratelli ebbero dimostrato l'ortodossia della loro dottrina, e promessa piena obbedienza alla S. Sede apostolica, il 5 gennaio 868 (o 869) furono consacrati vescovi (37). Costantino, che alla sua consacrazione aveva preso il nome di Cirillo, poco appresso morì (14 febbraio 868 - o 869), e fu sepolto nella chiesa di S. Clemente. Al solo Metodio rimase adunque l'incarico di regolare le cose ecclesiastiche, e venne perciò dal pontefice insignito dell'autorità metropolitica archiepiscopale sulla Moravia e Pannonia (38). La diocesi del nuovo arcivescovo della Moravia si estendeva al Sud oltre la Drava e la Sava sino verso la Dalmazia, in guisa che ne restavano escluse da un lato la Slavonia e Sirmio sulla destra della Drava superiore, come appartenenti alla Bulgaria, e dall'altro la Carniola, soggetta al patriarca di Aquileja (39). Ai 22 febbraio 868 (o 869), Metodio si preparò al ritorno. Ma l'arcivescovo di Salisburgo, cui nel 798 era stata da Carlo Magno conferita l'autorità metropolitica sulla diocesi [168] pannoniese, e si era fin d'allora adoperato ad estendervi il cristianesimo, protestò contro la costituzione della nuova arcidiocesi; e sia perchè nella Pannonia funzionavano presbiteri salisburghesi, sia perchè allora Còzel era vassallo del re Carlomanno, ostile a Svatopluk ed alle sue tendenze innovatrici. Metodio non potè allora mettere piede nella Pannonia. Dovette quindi limitare (40) la sua autorità episcopale alla Moravia soltanto. D'accordo col suo signore nel pensiero che l'indipendenza religiosa dal clero tedesco avrebbe facilitata e confermata l'indipendenza politica della Moravia dal sovrano di Germania, Metodio arrischiò allora un passo decisivo. «Benchè egli pure fosse obbligato, scrive il Ginzel (41), all'uso della lingua [169] di Roma, poichè egli era stato consacrato a vescovo della chiesa latina, ed aveva alla sua consacrazione prestato il giuramento [170] di uniformarsi alla Sede apostolica non solo nelle cose di fede, ma in tutte le istituzioni ecclesiastiche», ad onta di ciò ei prese a celebrare gli uffici divini in lingua slavonica e ad amministrare in questa lingua i sacramenti: e quanto fece in Moravia, fece pure, quando lo potè, anche nella parte pannonica della sua diocesi, protetto in ciò dal duca Còzel. Giunto a Roma l'annunzio di queste innovazioni, e le proteste dell'arcivescovo di Salisburgo, il papa Giovanni VIII successore di Adriano II spedì nel 873, mediante il suo legato, il vescovo Paolo di Ancona, all'arcivescovo Metodio un breve (42), col quale gli proibiva categoricamente di celebrare la Santa Messa in una lingua profana (barbara) quale si era la lingua slava, permettendogli di usarla soltanto nella predicazione (43). [171] Ma l'arcivescovo dei Pannoni, non curando punto l'ordine del pontefice, continuò come per lo innanzi a servirsi in tutte le funzioni ecclesiastiche ed in tutte le chiese da lui fondate della lingua slava (44). E per sei anni durò in questa sua opera nella Pannonia (45) e nella Moravia, fino a che, pesando su di lui anche l'accusa di eresia intorno alla processione dello Spirito santo, ed insistendo il clero tedesco afjlnchè venisse perciò deposto dalla sua dignità vescovile, il pontefice gl'intimò di recarsi a Roma, col breve 14 giugno 879. Quivi giunto Metodio potè giustificare i suoi insegnamenti; ed il pontefice Giovanni VIII lo confermò nel giugno 880 nella sua dignità ecclesiastica, e scrisse al duca Svatopluk nei seguenti termini: «Avendo trovato Metodio cattolico e proficuo in tutte le verità e dottrine ecclesiastiche, lo abbiamo spedito di nuovo a voi per reggere la chiesa alle sue cure affidata.... gli abbiamo confermato il privilegio del suo arcivescovato in perpetuo... disponiamo che egli abbia la cura di tutti i negozi ecclesiastici secondo la tradizione canonica... comandiamo che i preti, diaconi o chierici di qualunque ordine, sieno slavi o di qualsivoglia altra stirpe, dimoranti entro i confini dei tuoi stati — qui intra provinciae tuae fines consistunt — rimangano soggetti ed obbedienti in tutto al detto nostro confratello [172] e vostro arcivescovo. Da ultimo lodiamo le lettere slave inventate da Costantino il filosofo ed ordiniamo che nella medesima lingua si narrino le opere e le glorie di Cristo signor nostro...Nè certamente osta alla vera fede, nè alla dottrina, il cantare la messa nella lingua slava, oppure leggervi il sacro evangelio, le lezioni divine dell'antico e nuovo testamento bene tradotte ed interpretate, o cantare tutti gli altri offici delle ore, essendochè colui il quale fece le tre lingue principali, l'ebrea cioè, la greca e la latina, quello stesso creò anche tutte le altre a sua lode e gloria. Tuttavia ti ingiungiamo che in tutte le chiese dei vostri domini per maggiore solennità si legga prima l'evangelio in latino, e dopo sia annunziato al popolo, che non comprende il latino, nella lingua slava, come si pratica in alcune chiese. Se invece a te ed a' tuoi ministri piacesse udire piuttosto la messa nella lingua latina, ordiniamo che ti venga celebrata la messa in questa lingua (46). Con questa concessione fatta personalmente al duca Moravo e per le sue province (47), egli diveniva l'arbitro della liturgia nella Moravia, dacchè dipendeva intieramente da lui, e [173] dai suoi ministri (giudici), che si celebrasse la santa messa in lingua latina o slava. Anzi nel medesimo tempo e collo stesso breve, Giovanni Vili nominava, senza punto ricercare il desiderio di Metodio, a presule del neoeretto vescovato di Nitra (48) il tedesco Wichling, il più acerrimo nemico dell'arcivescovo Metodio, e della liturgia slava. Riepiloghiamo ora ed esaminiamo le cose narrate. Se il succedersi dei fatti fu tale quale noi l'abbiamo narrato coll'appoggio di documenti autentici, e colla scorta specialmente della storia dei Ss. Cirillo e Metodio scritta dal dott. Ginzel, slavo non certo sospetto di parzialità, chiaro apparisce che Metodio ha introdotto in tutte le chiese della sua diocesi la liturgia slava, contro il divieto pontificio; poi quando il pontefice lo ha citato a Roma per giustificare la sua disobbedienza, si è presentato a lui col fatto compiuto della liturgia slava già usitata in tutta la sua diocesi. Che cosa poteva fare il pontefice in tale contingenza? Se avesse insistito che i propri ordini fossero rispettati, e puniti i colpevoli, egli avrebbe corso pericolo di vedere il principe moravo ribellarsi alla di lui autorità e, seguendo il troppo recente e doloroso esempio del principe dei Bulgari, passare alla chiesa greca scismatica (49). Il pontefice Giovanni Vili dovette quindi adattarsi alle circostanze del momento, e sconfessare il proprio breve dell'873. La di lui concessione fu però tutta personale. La necessità di tenersi amico il duca dei Moravi è la ragione che lo indusse [174] a revocare l'anteriore divieto. II pontefice concedette il privilegio di stabilire la liturgia ecclesiastica non all'arcivescovo Metodio, ma a Svatopluk, dal cui beneplacito soltanto e da quello dei suoi ministri avrebbe dovuto dipendere l'uso della liturgia slava, o della latina, nella Moravia. Di fatti nel breve indirizzato a Metodio (50) od in quelli nei quali si parla di lui (51), Giovanni VIII loda bensì l'ortodossia negl'insegnamenti del nuovo arcivescovo, e la di lui sollecitudine pastorale; ma non dice una parola della lingua da seguire, e meno che meno fa menzione di un permesso, o di un diritto spettante a Metodio di celebrare i riti ecclesiastici in lingua slava. Senonchè i nemici della nuova liturgia, il vescovo di Passavia, l'arcivescovo di Salisburgo, e sopratutti il nuovo vescovo pannonico (di Nitra) Wichling, che avrebbe dovuto essere sottomesso, secondo la bolla pontificia, ai voleri dell'arcivescovo Metodio, non si acquetarono alle disposizioni di Giovanni VIlI, e tentarono tutte le vie per rivendicare alle loro chiese ed al loro clero la giurisdizione e l'esercizio delle funzioni divine nella Pannonia e Moravia, sostenuti in questo dal duca Arnolfo signore allora della Carantania e della Pannonia. E lo facevano con tanto maggiore speranza in quanto che lo stesso duca Svatopluk non si dimostrava più (52) così amico della liturgia slava, come lo era stato per lo innanzi. Questa disposizione del duca Moravo, e l'amicizia fra lui ed il duca Arnolfo di Carinzia, che si andava facendo sempre più intima, indebolivano giornalmente l'azione che Metodio esercitava sull' animo di Svatopluk. Nella Pannonia poi la sua [175] attività metropolitica era del tutto paralizzata dal nuovo vescovo di Nitra, Wichling, che aveva immediatamente iniziato nella propria diocesi un aspra campagna contro la liturgia slava: sicchè Metodio non potè far altro che scomunicarlo, senza perciò riacquistare (53) l'influenza perduta sulle cose ecclesiastiche di questa parte della sua provincia. L'arcivescovo Metodio morì il 6 aprile 885. Il duca Sva-topluk, cui la pace e l'amicizia conchiuse con Arnolfo di Carinzia aveva reso più proclive a seguire i consigli del principe carintiano e del vescovo Wichling a danno della liturgia slava, non solo rifiutò ad arcivescovo della Moravia il prediletto del defunto Metodio, certo Gorazd; ma fece prendere nell'anno susseguente (886) oltre duecento tra i più zelanti seguaci di Metodio, e tradurli colla forza fuori della Moravia al di là del Danubio (54). Si rifugiarono quasi tutti nella Bulgaria. Ed è sorprendente la facilità colla quale questi discepoli di Metodio abbracciarono lo scisma greco (55) intorno alla processione dello Spirito santo. Coll'espulsione dei seguaci di Metodio fu dato un colpo mortale alla liturgia slava nella Moravia, ove cessò interamente (56). Lo stesso accadde nella Pannonia, sulla quale spadroneggiava il vescovo di Nitra. Il duca Svatopluk, l'arbitro della liturgia slava nella Moravia, si era dunque dichiarato decisamente contrario alla medesima, e le misure radicali prese contro i seguaci di Metodio assicuravano il pontefice Stefano l che egli non retrocederebbe più dalla via ora seguita. Laonde questo pontefice, non più temendo la defezione dei Moravi dalla Chiesa occidentale, compì l'opera del loro principe con un breve a lui diretto, nel quale leggevasi fra altro quanto segue (57): «I divini offici ed i sacri [176] misteri e le funzioni della messa che Metodio si arrogò di celebrare in lingua slava dopo avere giurato sul corpo sacratissimo di San Pietro di non farlo ulteriormente, rifuggendo dal delitto del suo spergiuro, nessuno presuma di farlo in alcun modo d'ora in avanti. Essendochè per la potestà avuta da Dio e per quella della sede apostolica sotto il vincolo di scomunica lo interdiciamo, fatta eccezione di ciò che si riferisce all'edificazione del popolo semplice ed ignorante; se l'esposizione dell'evangelo o del simbolo viene dagli eruditi annunciata in quella lingua, anzi lo permettiamo, e l'esortiamo, ed insistiamo lo si faccia, affinchè ogni lingua lodi il Signore e lo confessi. I contumaci poi ed i disobbedienti, insistendo nell'opposizione e nello scandalo, se non si correggeranno dopo una prima e seconda ammonizione, quali seminatori di zizzania sieno cacciati dal grembo della chiesa; ed affinchè una pecora infetta non contamini l'intero gregge, ordiniamo che venga repressa colla nostra potenza e sia cacciata lontano dalle vostre terre». E nel monitorio ch' egli dà al vescovo Domenico ed ai presbiteri Giovanni e Stefano, che andavano fra gli Slavi, [177] ripete la medesima categorica proibizione di celebrare la messa ed i santissimi misteri in lingua slava (58). Fatalmente i Magiari s'incaricarono del resto. Scoppiata nell'890 sanguinosa guerra fra il nuovo re di Germania Arnolfo ed il duca moravo, i Magiari, chiamati dal re tedesco, irruppero negli stati nemici. — La Moravia potè a stento per allora salvarsi; ma la Pannonia inferiore fu talmente devastata, che neppure una chiesa (59) potè sottrarsi alla generale rovina. Ben presto anche la Moravia divenne preda dei Magiari, ed andarono disperse persino le ossa di S. Metodio (60). § IV. Ed ora ritorniamo all'Istria. Non si può reprimere un senso di profondo disgusto leggendo la massa di errori che il Ginzel nella più volte ricordata storia dei Ss. Cirillo e Metodio, ed i suoi confratelli liturgici spacciano sull'Istria in questo periodo di tempo. Non si sa se vi superi l'ignoranza o la malafede. Per quella scuola lì, quando si tratta dell'Istria, la storia non è più la maestra di verità, ma la diffonditrice di folli menzogne. — Di fatti il Ginzel confonde Istria, Dalmazia, Liburnia, Litorale, costa adriatica, come fossero un solo tutto. Mentre ad ogni persona colta è noto che l'Istria dagli Ostrogoti passò nel 539 ai Bizantini, da questi nel 751 ai [178] Longobardi, quindi nel 774 ritornò ai Bizantini, per venire definitivamente nel 788 in dominio dei Franchi; e mentre l'Istria era già intieramente cristianizzata, come lo dimostrano gli avanzi in Parenzo della basilica del IV secolo, in successione di altra più vetusta, e le basiliche del V e VI secolo di Trieste, Parenzo e Pola, il Ginzel fa l'Istria soggetta al principe slavo Porga (!!), e racconta che gl'Istriani hanno abbracciato il cristianesimo sotto la costui dominazione, che è quanto dire (61) non prima del VII secolo! Poi, siccome i Serbi ed i Croati non gli sarebbero bastati a spiegare da soli l'introduzione della liturgia slava, ch' egli vuole per forza esistesse nell'Istria, inonda la nostra provincia di Slavi carantani (62); e poi, quando gli occorre creare un ostacolo a quella liturgia, siccome i Serbi, i Croati, i Carantani non gli servirebbero all'uopo, evoca una popolazione primitiva romana, od almeno non slava, ed un clero latino, al quale, per legittimare la vittoria, assegna la maggioranza di confronto alle comunità slave. Non basta: mentre non c' è libro di geografia e storia ecclesiastica, che non insegni che le diocesi istriane di Trieste (63), Capodistria (64), Cittanova (65), [179] Parenzo (66). Pola (67) e Pedena (68) furono soggette air autorità metropolitica del patriarca di Aquileia o di quello di Grado, il Ginzel, che è anch' esso Dottore in Sacra Teologia e professore di storia ecclesiastica, subordina invece queste diocesi all'arcivescovo di Spalato, per affibbiare poi all'Istria ed agl'Istriani tutte quelle diatribe religiose e tutti quegli scandali, che sono avvenuti nelle chiese della Dalmazia, e nell'arcidiocesi di Spalato, per cagione della liturgia slava. Se questo non si chiama falsare la storia, lo dicano per noi i nostri cortesi lettori, cui ne rimettiamo il giudizio. Ed ecco come questo professore di storia ecclesiastica spiega (nel | 29 a pagina 116) il diffondersi della liturgia slava nell'Istria. — «Gli Slavi dell'Istria e della Dalmazia non appartenevano, scrive egli, alla diocesi di Metodio, ma a quella di Spalato, e, strettamente parlando, non valeva per essi il privilegio di Giovanni VIlI intorno alla liturgia slava. Tuttavia lo pretesero anche per se, e Metodio, benchè tutt' altro che intenzionato ad invadere la giurisdizione in una diocesi straniera, non potè impedire che la sua innovazione di celebrare la [180] messa e gli uffici divini in slavo, oltrepassasse ancora vita sua durante il confine sud-ovest della sua diocesi, e venisse accolta a braccia aperte dagli Slavi del Litorale, e con tenace amore mantenuta. E quando il suolo della diocesi moravo-pannonica non offerse più asilo alla liturgia di Metodio, questa trovò nel paese degli Slavi del Litorale non solo un rifugio temporaneo, ma un terreno nel quale essa doveva per sempre piantare radici così salde, che la preziosa eredità di Cirillo e Metodio, dopo ripetute lotte per la sua conservazione, si mantenne intatta presso gli Slavi del Litorale adriatico fino ai nostri giorni». E questo si chiama scrivere storia ecclesiastica! Ma quale prova adduce il Ginzel in conferma di queste sue parole? Nessuna. Ammassa errori sopra errori; non produce però un fatto, non un documento, niente di qualsiasi specie! E non si ha quindi ragione di chiedere se in lui, quando parla delle cose nostre, sia maggiore l'ignoranza o la malafede? Nessuna meraviglia se, nell'incertezza che regna sul dialetto slavo cui appartiene la «lingua slavinica» nella quale Metodio scrisse i libri liturgici (69) per la diocesi moravo-pannone, leggessimo un bel giorno ch'egli li ha scritti nell'antico dialetto istriano. Ed il primo passo su questa via lo hanno già fatto coli' assegnare l'invenzione della glagolitica al filosofo Etico, ch'essi dissero dell'Istria nostra (70), mentre ei scrisse la sua Cosmografia in greco (71), ed è oriundo dalla provincia d'Istria al [181] Mar nero (72). Lo assevera egli stesso al c. 113. «Explicit liber Aethici philosophi Cosmografi natione schitica». Il Ginzel, naturalmente, non facendo distinzione alcuna fra l'Istria e la Dalmazia, fra la metropoli di Spalato e quella di Aquileia, fra i Dalmati e Croati soggetti all'arcivescovo di Spalato ed all'imperatore greco Basilio, e gl'Istriani soggetti al patriarca di Aquileia ed al re d'Italia Berengario, fra le condizioni storiche della Dalmazia e quelle dell'Istria — della Dalmazia ove l'imperatore Basilio, scismatico, per facilitare il distacco di questa provincia dalla chiesa romana, promoveva la diffusione della liturgia slava, e dell'Istria, ove il re d'Italia Berengario era strettamente devoto al pontefice di Roma, al quale doveva la corona reale ed imperiale — non tenendo conto di questi fatti storici fondamentali, trasporta audacemente anche nell'Istria e nella Chiesa aquileiese la lotta durata per oltre un trentennio in Dalmazia e nell'arcidiocesi di Spalato, al principio del secolo X, fra i partigiani della liturgia slava con a capo il vescovo di Nona, e quelli della chiesa latina diretti dallo stesso arcivescovo di Spalato. La liturgia slava si era diffusa nella Croazia per opera di quei seguaci di Metodio, che, cacciati dalla Moravia nell'886, si erano dispersi qua e colà nelle terre circostanti (73); il maggior [182] numero nella Bulgaria, altri anche fra i Serbi ed i Croati, accolti specialmente dal vescovo di Nona. Questo vescovo, oltre modo ambizioso, aspirava divenire, coli'introduzione della nuova liturgia, metropolita della Dalmazia slava (74), sottraendola così all'arcidiocesi di Spalato. Ma tanto i duci slavi Tamislao dei Croati e Michele dei Zachlumi, quanto l'arcivescovo di Spalato e gli altri vescovi della Dalmazia, si rivolsero al pontefice perchè ponesse fine a tale scandalo (75) suscitato dall'ambizioso vescovo di Nona. Da ciò ebbero origine la lotta, le lettere pontifice, e la decisione del concilio di Spalato nel 925 (76). Che la questione religiosa fosse limitata alla provincia della Dalmazia ed alla chiesa di Spalato, lo dimostrano d'altronde la lettera di Giovanni X all'arcivescovo di Spalato ed ai vescovi della provincia spalatense (77) nel 925, nella quale si parla di fatti avvenuti «per confiniae vestrae Parochiae», nei quali non era affatto compresa l'Istria; — la lettera contemporaneamente scritta dallo stesso papa a Tamislao duca dei Croati, a Michele duca dei Zachlumi ed a tutti gli zupani della Slavonia e Dalmazia (78), coi quali l'Istria nulla aveva da fare; — il canone X del concilio nazionale di Spalato del 925, estraneo affatto agli Istriani ed ai loro vescovi; — e la lettera confermatoria del pontefice diretta all'arcivescovo di Salona ed ai suoi [183] suffraganei (79), fra i quali non si erano mai trovati i vescovi di Trieste, Capodistria, Cittanova, Parenzo, Pola e Pedena. Quella lotta liturgica finì colla piena sconfitta delle tendenze separatiste slave e del vescovo di Nona, che vi era stato l'istigatore ed il duce. Il pontefice Giovanni X, uniformandosi ai principiso (80) del suo predecessore Stefano VI espressi nella bolla dell'885, proibì la liturgia slava in tutte le chiese soggette all'arcidiocesi di Spalato nella Croazia, Dalmazia, Slavonia, tanto nel suo breve diretto all'arcivescovo di Salona (81), quanto in quello al duca dei Croati ed agli zupani della Dalmazia e Slavonia (82). Lo stesso fece il concilio di Spalato (83) confermato da apposito breve dal pontefice Giovanni X (84). [184] E mentre nella Dalmazia ferveva la lotta tra la liturgia slava e la latina, occasionando disordini, tumulti ed un vivo [185] scambio di lettere fra il clero ed il pontefice, e la venuta di speciali legati, e la convocazione di un concilio provinciale; in tutti questi atti, in tutte queste corrispondenze non si fa giammai menzione dell'Istria, o di alcuno dei suoi vescovati, e così neppure in nessuna cronaca, in nessuno dei documenti di quel tempo che si riferiscono alle cose dell'Istria, e ne trattano diffusamente. Si legga il Chronicum venetum, il Chronicum gradense, la Cronaca del Dandolo, i Monumenta Ecclesiae aquileiensis, i Regesta pontificum, i Documenti publici e privati editi dal Kandler nel Codice diplomatico istriano, i Documenta publicati dal Minotto, si legga tutto il voi. XVII della Sacrorum Conciliorum Collectio del Mansi, e si vedrà se in tutte queste opere si trova una sola parola che alluda anche indirettamente all'uso della liturgia slava nelle chiese dell'Istria. E questa è storia; ma questa è anche la prova più evidente che nei secoli IX e X Slavi non c'erano nell'Istria, nè mai vi era stata introdotta la liturgia glagolita. § V. I pontefici avevano bene compreso che, oltre all'ambizione di singoli individui, la causa principale per cui la liturgia slava perdurava e si diffondeva era da ricercarsi nell'ignoranza del clero slavo, il quale, non conoscendo che il proprio dialetto, e punto il latino, si trovava inetto a celebrare in questa lingua i misteri divini. Laonde già il pontefice Giovanni X aveva caldamente raccomandato nelle sue lettere al clero salonitano lo [186] studio della lingua latina, volendo esclusi dal sacerdozio coloro che ne fossero totalmente ignari (85). Ma i suoi eccitamenti furono del tutto inutili; perciocchè, vuoi per la barbarie letteraria (86) in cui trovavasi avvolta la Dalmazia nei secoli X e XI, vuoi per l'opera dei sacerdoti che non conoscevano affatto la lingua latina, la liturgia slava, la cui proibizione per qualche tempo era stata osservata, prendesse a diffondersi nuovamente. Laonde il papa Nicolò II credette necessario d'intervenire energicamente, mandando quale suo legato nella Dalmazia il cardinale Maynardo. Nel concilio (87) di Spalato del 1059, cui intervennero tutti i prelati della Dalmazia e Croazia — «omnium praelatorum Dalmatiae et Croatiae» — dunque nè "dell'Istria, nè di Trieste, nè di Gorizia (88) — venne confermata là decisione del precedente concilio di Spalato del 925 e stabilito: «che nessuno presuma d'ora in avanti celebrare i divini misteri in lingua slava, ma soltanto nella latina e greca, nè alcuno di quella lingua venga promosso agli ordini sacri» (89). E tale decisione fu sancita dal papa Alessandro II (1061-1072) con apposita bolla (90). [187] La chiesa non ismentì neppure altrove il principio stabilito dalla bolla di Giovanni VIII nell'873, confermato da Stefano V nell'885 e da Giovanni X nel 925, di non permettere la liturgia slava nella celebrazione degli uffici divini; e quando nel 972 il duca Boleslao chiese a Giovanni XIII la concessione di un proprio vescovato per la Boemia, il papa accondiscese che nominasse un vescovo per la chiesa di S. Vito a Praga, a condizione però che l'eletto fosse versato specialmente nella lingua latina e «non seguisse i riti e la setta dei Bulgari, o dei Russi o della lingua schiavona negli uffici divini, ma bensì le istituzioni ed i decreti apostolici» (91). Un tentativo fatto dall'abate Procopio d'introdurre abusivamente la liturgia slava nel convento di Sazava da lui edificato nel 1039, col chiamarvi dall'Ungheria alquanti monaci greco-slavi, fallì per l'opposizione dello stesso re dei Moravi Spitineo. Nel 1056 i monaci greco-slavi (92) dovettero cedere il posto a' monaci latini. Vratislao che gli successe nella corona, favorevole com' era alla liturgia slava, richiamò gli espulsi monaci, e si rivolse al pontefice Gregorio VII chiedendogli non solo per l'abbazia di Sazava, ma per tutto il suo regno il permesso di celebrare la messa in lingua slava. Ed il pontefice glielo ricusò recisamente colla bolla del 2 gennaio 1080, dichiarando imprudente la domanda, ed ordinandogli di opporsi con tutte le sue forze a sì vana temerità (93). Che queste decisioni sinodali, queste bolle, queste proibizioni pontifice rimanessero troppo spesso lettera morta per [188] cagione dell'incuria o del malanimo di coloro che sarebbero stati per i primi chiamati a farle rispettare, ovvero per partigianeria politica, e per l'ignoranza del clero di campagna, non è da meravigliarsi. Altrettanto avveniva anche nella diocesi di Segna in Croazia, situata in una delle contrade più alpestri e appartate, quindi meno di ogni altra accessibile alla cultura e civiltà latina. Uno dei vescovi di Segna, più coscienzioso dei suoi predecessori, rese edotto di questo stato di cose il sommo pontefice Innocenzo IV, aggiungendo che il clero di quelle parti asseriva avere ricevute quelle scritture slave da San Girolamo stesso. Quest'asserzione deve aver colpito l'animo del pontefice, che, travagliato da ben altre cure che non fosse quella d'investigare la veridicità dell'asserto, da Lione, ove allora si trovava, rescrisse al vescovo di Segna il 19 marzo 1248, concedendogli il permesso che si continuasse nella sua diocesi a celebrare in lingua glagolitica [colle lettere di S. Girolamo], ma soltanto in quei luoghi nei quali essa esisteva per consuetudine (94). È certo che i preti di Segna si sarebbero trovati in grave imbarazzo, qualora si fosse loro chiesta la prova di avere ricevuto proprio da San Girolamo le lettere glagolite. Nella diocesi di Veglia, in quella vece, benchè appartenente dapprima alla metropoli di Spalato, quindi a quella di Zara, ed attratta per tanti secoli nell'orbita della storia dalmata, quando l'isola venne al contatto di una civiltà più elevata, la liturgia slava aveva ceduto totalmente il posto alla lingua e liturgia latina. Nella prima metà del secolo XIII in nessuna [189] chiesa della diocesi vegliese si celebravano più le solennità religiose in lirìgua slava. Lo prova il fatto che i monaci benedettini del convento di S. Nicolò di Castelmuschio, desiderando nel 1251 di celebrare le solennità religiose in lingua slava, dovettero supplicare il pontefice Innocenzo IV, adducendovi a motivo la loro crassa ignoranza, cioè che erano Slavi, e che, istruiti solo nelle lettere slave, non potevano imparare le lettere latine. Innocenzo IV scrisse il 26 gennaio 1252 al vescovo di Veglia, rimettendone la decisione alla di lui prudenza (95). l'ordine emanato dal Consiglio dei Rogati di Venezia il 24 aprile 1481 di espellere dall'isola di Veglia i frati slavi d'un certo monastero perchè officiavano secondo il costume slavo (96), e di non permettere la dimora se non a quelli che celebrassero nella lingua latina (more nostro latino), dimostra che anche nei secoli XIV e XV non si tenevano le funzioni religiose in lingua slava in nessuna chiesa della diocesi vegliese. I sopradetti frati slavi erano, come è noto, dell'ordine dei Terziari, ed appartenevano alla provincia religiosa della Dalmazia, ed erano quindi estranei alle altre chiese diocesane. Queste invece [190] dovevano obbedire al decreto dell'arcivescovo di Zara Valaresso, che proibiva severamente nel 1460 di celebrare in glagolitico, senza suo speciale permesso (97). La credenza che la scrittura glagolitica fosse dovuta a S. Girolamo, si diffuse ben presto in modo che per i più acquistò carattere di verità. E vediamo il re di Boemia Carlo IV chiedere un secolo più tardi, nel 1846, al pontefice Clemente VI il permesso che nel convento di Emaus in Praga, da lui fondato, si celebrasse in glagolitico: «per riverenza e memorìa verso il gloriosissimo Confessore, il beato Girolamo Stridoniense, dottore egregio, e traduttore ed interprete esimio della sacra scrittura dall'ebraico in lingua latina e slavonica, dalla quale ebbe principio l'idioma slavonico del nostro regno di Boemia, ed affinchè egli ( S. Girolamo) ritorni nel detto regno come fra gente sua e nella sua patria rimanga perpetuamente glorioso (98)». Il pontefice, che in Carlo di Boemia aveva il più valido sostegno nell'accanita lotta che sosteneva contro Lodovico il Bavaro imperatore di Germania, gli concesse colla bolla 9 maggio 1346 il permesso che si celebrassero le solennità religiose nel convento di Emaus in lingua glagolitica, a condizione però che di questo permesso non si facesse uso che per quel luogo soltanto (99). Nel novembre del 1438 gli Utraquisti chiesero al concilio di Basilea di poter leggere in lingua slava almeno gli evangeli, l'epistole ed il simbolo, per eccitare la devozione del popolo (100); [191] ma i padri del concilio si rifiutarono, perchè contrario ai riti detta Chiesa, ed agli usi della diocesi di Praga (101). Questa lunga diversione dal soggetto principale del nostro studio ha per iscopo, oltre che di porgere al lettore una esatta esposizione della storia della liturgia slava dal tempo della sua introduzione fino al secolo XV, anche quello di fargli apprendere con quanta insistenza i pontefici, per ben quattro secoli, costantemente, si opponessero ad ogni tentativo d'introdurre o ristabilire questa liturgia nelle chiese dell'Occidente; e come quando si piegarono a qualche concessione in creduto omaggio alla memorìa del padre della chiesa S. Girolamo, oppure per amicizia personale verso il re di Boemia, cercassero sempre di limitarlo il più possibile, accordando l'uso della detta liturgia ad una singola località, come si vide nella Boemia, ovvero a quelle panpcchie soltanto — in illis dumtaxal'partibus — nelle quali essa esisteva per consuetudine, come avvenne nella diocesi di Segna. Perlocchè sorge spontanea la domanda: se in Boemia, terra slava per eccellenza e quasi seconda patria dei Ss. Cirillo e Metodio, se in Dalmazia, interamente soggetta a principi slavi, la liturgia slava non potè sostenersi, ma da per tutto, meno qualche rara eccezione, venne abolita; e se nella stessa diocesi di Veglia quella liturgia abbisognò, nella seconda metà del secolo XIII, del ricorso alla S. Sede per essere usata in una chiesa puramente conventuale, come si può asserire, serica ombra di prova, che questa liturgia perdurasse intatta, forte e vegeta dal tempo dei Ss. Cirillo e Metodio, proprio nell'Istria, nell'Istria dove hanno ancora da dimostrare che vi fossero degli Slavi, nell'Istria soggetta ecclesiasticamente ai patriarchi latini di Aquileia, o di Grado, e politicamente dapprima agl'imperatori germanici, e con questi a dinastie tutte tedesche, non certo spasimanti per la liturgia glagolitica, e poscia in buona parte alla republica veneta? § VI. Le condizioni etnografiche mutarono alquanto nel nostro paese nei secoli XI e XII, quando esso venne in dipendenza dei duchi di Baviera e di Carinzia: quando il marchese d'Istria Ulrico fu incaricato di reggere anche la marca carniolica. Allora l'unità del governo favorì la discesa nella nostra provincia di famiglie slovene, per lo più pastori od agricoltori, attratte dalla mitezza del clima, dalla più ricca vegetazione, dalla vita più comoda e lieta. Si allargarono così nell'altipiano della Carsia; e l'antica via commerciale, che dal detto altipiano pel passo di Mont'aurato metteva a Pinguente, Pisino, Capodistria, favorì queste parziali e lente trasmigrazioni degli Sloveni anche nella regione pedemontana (102). Fino oltre al 1000 tutti i nomi dei luoghi menzionati nei diplomi sono italiani. Si consultino (103) le donazioni del re Berengario nel 911, quelle del re Ugo nel 929, la promessa di Capodistria al doge veneto nel 932 e 977, i patti conchiusi fra Venezia e l'Istria nel 933, la conferma di Ottone II nel 974, le donazioni al vescovo di Parenzo nel 983 e 1060, il placito giudiziario del 991, gli atti dei vescovi di Parenzo nel 1014, 1017 e 1030, quelli del vescovo di Trieste nel 1072, la [193] donazione di madonna Azzica nel 1040, quella di Ulrico tiglio del marchese d'Istria nel 1102, di Enrico II al patriarca di Aquileia nel 1012, di Enrico IV al marchese Ulrico nel 1064 ed al vescovo di Frisinga nel 1167, e si vedrà se in tante centinaia di nomi di persone e di località rinvengonsi tracce di un elemento slavo nell'Istria. Dopo il 1100 cominciano a comparirne taluni di slavi (104). Nel 1102 si trova Golgoriza, in luogo di Moncalvo; Cernogradus e Billegradus, in luogo del nome originario di Nigrignanum ed Albinianum. Il castello, che nei diplomi del 1112 porta il nome di castrum Mahrenfels, in quello del 1264 chiamasi castrum Lupoglau, e la villa adiacente Ober Lupoglau, oggi tradotto in Goregnavas (villa superiore). In alcune contrade dell'Albonese e della Valdarsa, e nei territori di Barbana e di Golzana, si stabilirono appena nel 1192 alcune famiglie dalmate (105), che però scomparvero in seguito alle pesti, e furono surrogate (106) dagli attuali Morlacchi. In un documento del 1030, la via che andava da Parenzo a Pisino chiamavasi; «Via Sclava», oppure anche «Via Sclavonica», come si legge negli atti posteriori del 1158 e 1225. Non si creda però che si chiamasse così perchè fosse tutta circondata da Slavi, ma perchè metteva in contrade da questi abitate. Nel vicino Friuli c'era la «Strata Ungarorum», detta così perchè era stata la via battuta dagli Ungheresi nelle loro incursioni dopo il 900, e perchè quella era la strada commerciale per l'Ungheria. Tuttavia il numero degli Slavi dovette essere esiguo nell'Istria ancora al finire del secolo XI, se i Crociati, che nel 1096-97 attraversarono la nostra provincia, capitanati dal conte di Tolosa e dal vescovo di Puy, neppure si accorsero che qui da noi vi esistessero due popolazioni diverse e vi fossero degli [194] Slavi; mentre ben lo videro e lo provarono nella Dalmazia (107), appena vi ebbero posto il piede. E nell'Istria nostra non si ebbe alcun esempio delle lotte succedute nella Dalmazia (108) fra il 1063 ed il 1075, sempre a cagione della liturgia slava. Al giuramento prestato nell'ottobre 1202 dagli abitanti di Trieste e Muggia al doge veneto Enrico Dandolo sono firmate 453 persone: di queste quante portano nomi che possono farle supporre di origine slava? La vita e la storia delle città istriane nei secoli XII e XIII sono forse la storia d'una zupania slava, o non piuttosto quella di un libero comune italico? E Dante vide forse nell'Istria due schiatte diverse, udì nel nostro paese due diverse favelle, quando ascrisse il dialetto istriano ai dialetti italici? Il mutamento etnografico si fece più sensibile quando la contea d'Istria, staccata dal marchesato, passò in mano dei conti di Gorizia, e nel 1374 degli Absburgo, i quali, possedendo in pari tempo la Carniola ed altre terre abitate dagli Sloveni, ne favorivano l'immigrazione. Le guerre e le pesti fra il 1200 e il 1400, decimando specialmente l'interno della provincia, costrinsero i signori feudali di quelle terre e castella a colmare le lacune prodotte fra i servi, della gleba da questi due flagelli, col chiamare altri coloni dalla Carniola di mano in mano che il bisogno lo richiedeva, non avendo allora l'Istria braccia sufpcienti al lavoro dei campi. Questo ci dà la ragione del come, mentre un po' alla volta la campagna istriana veniva abitata da gente forestiera, si gran numero di località potessero conservare inalterato il nome primitivo latino ed italiano. Nel 1262 «propter guerrarum discrimina». la chiesa vescovile di Pedena era rovinata in modo da non bastare al sostentamento del vescovo e della sua famiglia. La guerra del 1291 è detta: «saevissima in miserabiles strages hominum et [195] locorum desolationes». — Le confinazioni contenute nell'istrumento di reambulazione (109) si fanno frequenti dopo il 1100, e si potrebbe ammettere, come osserva giustamente il De Franceschi (110), «che le loro date segnino i principi e la continuazione del trasferimento degli Slavi nei contemplati comuni, dacchè ogni colonizzazione involve determinazione dei confini delle terre assegnate»; e con tanta maggiore probabilità in quanto che quasi tutte queste date corrispondono a precedenti periodi di pesti o di guerre. Nel 1234 havvi memorìa di Slavi a Longera (111); nel 1225 avvennero irruzioni di genti dalla Carniola e Carinzia (112). Slavi nell'interno dell'Istria sono ricordati nell'anno 1277; nell'agro di Capodistria nel 1300 (113); a Cropada e Bisoviza nel 1304 (114). Sul principio del secolo XIV il comune di Capodistria emana leggi pei rustici e pegli Slavi stabiliti nel suo territorio (115), e nel 1349, il di 29 marzo, il senato veneto elegge un capitano «Sclavorum» per invigilare e tutelare gli Slavi nel distretto di Capodistria (116). E qui si hanno sempre Slavi stabilitisi nella campagna, negli agri delle terre, ma non entro a queste. Di fatti persino a [196] Castua le iscrizioni sui sepolcri nel secolo XIV si facevano in lingua italiana (117). Questi Slavi però, oriundi in massima parte dalla Carniola o dalla Carinzia, di stirpe slovena (118), subordinati all'arcidiocesi di Salisburgo, od a quella di Aquileia, avevano sempre nelle funzioni religiose usata la liturgia latina, e quindi le loro immigrazioni nella Carsia, nel territorio di Trieste e di Capodistria, (ove vennero designati col nome di Savrini), in quello di Pirano sino alla Dragogna, e nei territori di Pinguente, Pisino e Pedena, non arrecò, nè poteva arrecare mutazione alcuna nella lingua liturgica della nostra provincia usitata già dal tempo di S. Ermagora. § VII. Ma ben altro si fu nei secoli XV e XVI, secoli di sciagura e di rovina per la nostra provincia. Alle numerose guerre che la funestarono, e specialmente a quella del 1382-400, combattuta non fra gli eserciti ma fra le popolazioni «così che tutta [197] L'Istria potè dirsi deserta per questa cagione» (119), si erano aggiunte le pesti, che infierirono durante il secolo XIV. Ben dodici ne sono ricordate: quelle degli anni 1312, 1330, 1343, 1347, 1348, 1360, 1361, 1368, 1371, 1380, 1382, 1397. Furono fatalissime per Muggia, Pirano, Rovigno, Parenzo, Pola ed Ossero e pei loro territori: la popolazione ne restò decimata; anzi l'agro polese si vide quasi del tutto spopolato (120). Altre pesti ed altre guerre piombarono addosso al nostro disgraziato paese nel secolo XV. Ci furono le pesti del 1413, del 1427 e del 29, 49, 56, 67, 68, 76, 77, 78, 83, 97, 99; ed anche questa volta il più colpito di tutti si fu il contado di Pola. Ad uno ad uno si videro cessare allora i vecchi conventi dei Benedettini fondati nella campagna istriana dalla pietà religiosa, e dalle molteplici largizioni dei nostri antenati. Nel secolo XVI si ebbero le guerre fra i Veneti e gli Austriaci, le depredazioni dei Turchi, poi quelle degli Uscocchi, e le pesti del 1505, 11, 12, 25, 27, 43, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 73, 77, con grande strage di popolazione. Larghi tratti di terreni e di pascoli erano rimasti incolti ed abbandonati per mancanza di braccia, centinaia e centinaia di case erano disabitate, e la malaria, prodotta dall'accumularsi delle macerie, mieteva altre [198] vittime, ed accresceva la desolazione. Era quindi necessario un provvedimento energico, tanto da parte del governo austriaco, cui stava soggetta la contea d'Istria, quando dal veneto, che teneva il marchesato. Già nel 1376 il senato di Venezia aveva proclamata l'esenzione per cinque anni da ogni prestazione od angheria a chi venisse ad abitare su queste terre; ma con poco successo. Laonde nel 1556 istituì il magistrato dei beni incotti, che prese possesso di tutti i terreni non messi a coltura per darli a nuovi coloni (121). Anche l'arciduca Ferdinando nominò a tale scopo apposita commissione. I Veneziani tentarono dapprima di ripopolare il contado, e specialmente la polesana, con coloni italiani, tolti dalla Padovana, dal Trevigiano e dal Friuli. Questo tentativo fallì, ed allora ricorsero ad altre genti. Le conquiste fatte in quel torno di tempo dai Turchi della Serbia, Bosnia, Erzegovina, Albania e Grecia, offersero ai due governi l'opportunità di provvedere alla stremata popolazione delle loro province, coli' invitare ed accogliere i numerosi fuggiaschi che da quelle terre riparavano, o pregavano di riparare nei loro domini, pur di trovare salvezza e sostentamento. E già nel 1413 il consiglio della città di Trieste stabiliva i terreni presso Contovello per gli Slavi già venuti, e per quelli che dovevano venire dai confini della Bosnia e Dalmazia. Nel 1449 il comune di Buie investiva di terreni alcune famiglie morlacche (122) che da qualche anno vagavano intorno a Grisignana, affinchè fondassero una villa nella contrada Bibali. Nel 1463 numerose famiglie morlacche venute dall'Erzegovina [199] passarono sulle isole del Quarnero, donde nel 1523, e negli anni susseguenti, invasero presso che tutto il Castelnovano ed un tratto della Carsia, dando origine agli odierni Cicci, allora in gran parte romanici (123), oggi slavizzati [non tutti!]. Nel 1463 una tribù slava si stabili a Salvore, disertata dalla peste. Nel 1476 il comune di Pirano concesse ad immigrati slavi di stabilirsi a Castel venere. Nel 1490 Bosniaci e Croati, fuggendo dai Turchi, giunsero sulla Carsia colle loro greggi, e ne incendiarono i boschi (124). Nel 1500 la republica veneta trasportò Morlacchi nel territorio di Montona. Nel 1617 il comune di Trieste ordinò di uscire entro cinque giorni dal territorio a quei Morlacchi che non vi possedevano beni immobili; nel 1521 permise a quelli dell'altipiano di scendere giù ad abbeverare il loro bestiame. Nel 1525 il comune di Rovigno assegna a famiglie morlacche venute dalla Dalmazia la Valle di Laco-Verzo, affinchè vi fondino una villa (Villa di Rovigno); nello stesso anno altri Morlacchi fondano la Villa nova nel territorio di Parenzo, ed il comune di Montona colloca Morlacchi nelle ville di Montreo, S. Giovanni della Cisterna e Mondellebotte. Nel 1540 Morlacchi, Albanesi e Greci vengono trasportati dal senato veneto nei territori di Cittanova, Umago, Buie e sul Carso di Pinguente, e settanta famiglie di napolitani (da Nauplia di Romania) e malvasiotti vengono stabiliti nella città e territorio di Pola. Nel 1641 Morlacchi ed altre famiglie dalmate fondano nel territorio di Parenzo le ville di Radolovich, Radmani, Jecnich, Starich, Delich e Prodanich: altre famiglie [200] morlacche fondano nel 1556 Villa nova nel territorio di S. Lorenzo al Leme; Abrega e Fratta (125) vengono ripopolate con Morlacchi e Montenegrini. Buon numero di Morlacchi accorrono all'offerta del comune di Pola (nel 1561) di cedere terreni incolti ai forestieri che si stabilissero in città e territorio. Trasporti di coloni in quantità non esigua devono essere avvenuti in questo periodo di tempo anche nella contea, se l'arciduca Ferdinando credette opportuno di aumentare le imposte, riformandone l'urbano; come conseguenza dell'avvenuto aumento della popolazione dopo il 1535 (126). La villa di Torre fu ripopolata nel 1576 da gente venuta dalla Dalmazia (127). Nel 1570, quaranta famiglie morlacche, venute dai dintorni di Zara e Knin, si stabilirono a Sbandati nel territorio parentino, ed altre fondarono la villa di Varvari. Greci, Napolitani e Cipriotti vennero nel 1580 nel territorio di Pola, ove si stabilirono nel susseguente anno altre 260 famiglie emigrate dalla contea di Pisino. Nel 1578 il provveditore veneto collocò 25 famiglie napoletane ed altrettante di cipriotti a Peroi ed a Maderno su quel di Pola. Nel 1580 famiglie candiotte vennero a Pola ed a Parenzo (128); nel 1583 [201] morlacchi zaratini si accasarono a Marzana, a Pomer a Monticchio (129). Nel 1585 il provveditore Renier collocò otto famiglie morlacche, composte di 80 persone, a Promontori Altre famiglie a Sissano; alle Merlere ed a Lisignano ebbero stanza da lui e dal suo successore, nel 1588. A Fratta, territorio di Parenzo, furono collocate nel 1590, 25 famiglie morlacche, ed in quell'anno stesso si assegnarono terreni ai nuovi venuti nei territori di Dignano (130), Gallesano, Sissano, Stignano, Lisignano, Promontore (131), Cittanova (132), Valle, Due Castelli (133). Nuove famiglie vennero trapiantate negli anni 1593 e 1595 nel territorio di Parenzo, ed altre provenienti dall'Albania furono insediate a Fontane (134). Altri Morlacchi vennero «dotati di campi incolti su quel di Buje verso il castello di Momiano, nel 1599. Nel 1604 furono collocate nel territorio di Umago trenta famiglie venute dai paesi turcheschi. Altre famiglie slave presero stanza in quel torno di tempo nella contrada di Visignano, e 78 famiglie nel territorio di Pola. Altri Slavi, fuggendo dai Turchi, si stabilirono nel 1601 ad Altura: famiglie di Sebenico si stanziarono nel 1605 nella contrada di Foscolino; nel 1611, 18 famiglie albanesi ebbero terreni presso Monghebbo; nel 1612 vennero investite di 700 campi alcune famiglie albanesi nel [202] territorio di Umago; altre stabilironsi ad Orcevano, e nello stesso anno dodici famiglie scuterine si accasarono a Monsalice (territorio parenlino), accresciute poi da altre, giunte da Dulcigno nel 1623. Nel 1617 Croati e Morlacchi ricevettero assegnamento di terreni nella contea di Pisino, lungo il confine veneto. Nel 1622 otto famiglie albanesi si stabilirono a Valcarino, e dodici a Jessenoviza; ed altre famiglie greche ricevettero 900 campi nel territorio di Canfanaro. Nel 1623, 19 famiglie albanesi ottennero 3000 campi di terreno incolto nella contrada Monspinoso, ove fondarono la villa di Dracevaz (traduzione letterale del vecchio nome italiano). Nuove colonie slave giunsero nel 1624; altre nel territorio di S. Vincenti (135) nel 1628. Nel 1633 da Castelnuovo turco vennero 22 famiglie per fondare, unite ad altre, nel territorio di Parenzo, la villa Reniera. Nuovi morlacchi furono collocati nel 1635 nella villa di Filippano (136) (territorio di Dignano). Nel 1647 provenienti da Manche, territorio turco, 430 Morlacchi con 4500 animali furono trasportati nell'agro di Pola, e distribuiti fra Altura, S. Martino, Monticchio (Rumianum), Castagna (137). Nel 1650, nei dintorni di S. Lorenzo del Paisenatico, si stabilirono 70 famiglie morlacche. Dall'ottobre 1648 all'aprile 1650, vale a dire nei 18 mesi della reggenza Correr, furono trasportate nell'Istria ben 279 famiglie morlacche, composte di 2200 persone. Nel 1657 una colonia di Montenegrini da Cernizza stabilivasi a Peroi. [203] E con questa colonia montenegrina finirono i trasporti dei Morlacchi (slavi romanici) tanto nella contea, (138), quanto nel marchesato d'Istria, e che costarono alla republica veneta gravi somme di danaro (139). § VIII. Questa lunga enumerazione, la quale ci permette di seguire anno per anno, giorno per giorno lo stabilirsi delle nuove genti slave e romane nei territori dalla Dragogna al Quarnero (140), ci dimostra in pari tempo che quando vi furono Slavi nell'Istria i documenti e le cronache li ricordano molto spesso e molto chiaramente; laonde, quando quelli e queste ne tacciono, come è il caso nel periodo avanti il 1000, è segno che Slavi non vi erano in nessuna parte di casa nostra. E di certo poche province potevano offrire in questo tempo un quadro etnografico così variopinto come l'Istria interna. [204] Nelle terre murate e nelle ville maggiori meno colpite dalle pesti abitavano pur sempre gl'Italiani; lo prova il castello di S. Lorenzo del Paisenatico, ove troviamo ricordate nel libro dei morti fra il 1500 ed il 1600 ben centotrentatre famiglie di nome pretto italiano (141). Nelle ville minori, e nella campagna, tutte le razze slave meridionali sembravano poi aversi dato convegno: Serbi, Croati, Albanesi, Montenegrini, si trovavano qui sovrapposti, misti, incrociati fra loro e con famiglie romaniche venute assieme ad essi dai paesi turcheschi. e con altre della Morea e delle Isole, di Greci malvasiotti, napolitani, candiotti, cipriotti. E si molteplice e disordinato dovette essere questo agglomeramento di razze diverse, che, dopo 200 e più anni, quando nel 1880 si fece l'anagrafe ufficiale, per esprimere questo ibridismo etnografico ancora esistente nell'Istria, e di preferenza a mezzogiorno del Quieto, si adoperò l'appellativo assurdo di Serbo-Croati, quasi si potesse essere insieme e l'uno e l'altro. Nè si creda però che, oltre agl' indigeni, soltanto questi fuggiaschi e. coloni slavi e romanici abitassero nella campagna e nelle terre istriane. Vi era un altro elemento, e numeroso, formato tanto da quegli indigeni che dalla costa si erano andati a stabilire nell'interno, quanto da genti venute ad accasarvisi dal Friuli e dalla Carnia. Sappiamo dalle relazioni dei Provveditori, (142) che molti abitanti delle città più colpite dalle pestilenze e più travagliate dalla [205] malaria, come Pola, Umago, e Cittanova, per isfuggire specialmente a quest'ultimo periglio, trasportarono la loro dimora nelle borgate e nelle ville dell'interno, aumentando il numero degl'indigeni italiani che già vi abitavano. Anche coloni trevigiani vennero collocati negli anni 1627 e 28 nei territori di S. Vincenti, e di Geroldia al Leme. I coloni morlacchi si occupavano unicamente della pastorizia e dell'agricoltura, e queste erano presso che le sole fonti del loro sostentamento. Alla venuta di queste genti faceva quindi di mestieri assegnare loro campi, pascoli, boschi; di estendere su di ciò speciale atto di donazione e confinazione; d'inscriverlo nella grande mappa dei terreni incolti, e di darne apposita relazione all'autorità centrale. E queste relazioni costituiscono oggi il più importante documento storico della venuta nell'Istria delle varie tribù slave. Ma chi esercitava in queste ville, in queste borgate tutto quel complesso di arti e mestieri necessari alla vita, per quanto meschina essa si fosse, e che dalle nuove genti slave erano pressochè intieramente ignorati? Se dall'una parte venivano nell'Istria dal Mezzogiorno a colonie e colonie Slavi, Rumeni, Greci, ecc. ecc., vi scendevano contemporaneamente dall'altra, dalla Carnia e dal Friuli, famiglie e famiglie d'industriali, commercianti, artigiani, gente laboriosa, economa, frugale, che si accasava di preferenza nelle borgate e nelle ville dell'interno. Mentre però dei coloni slavi che qui giungevano a torme ed abbisognavano di assegnamenti di terreni, le relazioni ne parlano continuamente, di queste famiglie che arrivavano alla spicciolata da noi, fidenti solo nella propria intelligenza ed operosità, e si stabilivano nell'Istria, la storia non registra il giorno della loro venuta; ma dopo un certo lasso di tempo ne constata soltanto la presenza, e la loro importanza nella vita publica. E di fatti, mentre nè provveditori, nè capitani, nè ducali rammemorano gli anni del loro arrivo, il vescovo di Cittanova, Monsignor Tommasini, nei suoi Commentari scritti intorno al 1650, descrivendoci gli abitanti dell'Istria, quali erano ai suoi tempi, dopo avere parlato degli schiavoni agricoltori ed aratori, e degli abitatori nuovi, stanziati al di là del Quieto, e specialmente nel territorio di Parenzo, ed in tutta la Polesana, continua: [206] (I, c. 15) «Gli altri popoli che abitano questo paese, sono quelli della Carnia, uomini industriosi, che lavorano la lana, tessono grisi e rasse per vestir il basso popolo, e lavorano d'altri mestieri simili, e di questi sono sarti,, fabbri, scalpellini, tagliapietra, magnani e d'altre arti manuali; servendo nel paese esercitano i loro buoni ingegni e ne cavano grossi utili; a' quali, aggiunta la loro parsimonia, alcuni sono divenuti molto comodi e ricchi in breve tempo. Son uomini di bel sembiante, e con tati modi e con i traffichi aiutano la provincia. Hanno questi sparsa la loro stirpe per i villaggi più grossi, ed anco nei castelli e terre murate, e non sono così antichi come sono gli Schiavoni. A questi Carni, detti comunemente Cargnelli, s' uniscono molti Friulani che sono popoli da essi non molto lontani; parte sempre si fermano nel paese o nelle terre o sopra qualche possessione, parte si trattiene a lavorare in certi tempi dell'anno, poi ritornano al paese con li danari guadagnati» (143). Ma se gli adoperamenti del governo veneto di ripopolare la nostra provincia, e l'interesse dei dinasti della Contea, o di altre famiglie spingevano stirpi diverse dalla penisola Balcanica, dal Friuli o dalla Carnia a prendere stanza nelle nostre contrade, il terribile flagello della peste incaricavasi di mietere altrettante numerose vittime, senza riguardo ai vecchi ed ai nuovi abitanti. Tredici volte infierì la peste nel secolo XV, quattordici nel XVI. Laonde, ad onta di tante genti nuove quivi venute nei due secoli precedenti, gli abitanti dell'Istria veneta (144) sommavano nel 1625 a soli 39.500, quelli dell'Istria austriaca a 2380. E come se tutte le precedenti pestilenze non avessero a sufficenza spopolato il nostro disgraziato paese, nel 1630 scoppiò quella terribile peste bubbonica, che, durata fino al 1632, mietè qui come altrove, alle coste e nell'interno, migliaia e migliaia di vittime. Ma, grazie al cielo, questa fu l'ultima delle tante [207] epidemie, e d'allora la popolazione potè lentamente rialzarsi. Nel 1649 l'Istria veneta contava 49.332 anime (145), 84.000 nel 1765. Il dipartimento d'Istria, giusta l'anagrafe del 1806, dava 89.251 abitanti (146). § IX. Parte dei nuovi abitanti slavi eransi stabiliti sulle terre loro assegnate nei distretti delle città e castella maggiori, e stavano in governo spirituale del clero indigeno di quelle parrocchie, entro i cui confini avevano fermato la loro sede (147). Altri, invece, venuti in maggior numero e con propri preti (148), presero dimora nelle stesse ville rimaste disabitate, o quasi, oppure ne fondarono di nuove. Ben tosto però i nuovi abitanti, ignari della lingua italiana, e governati, come si disse, da preti istriani, — i quali potevano bensì celebrare la s. messa, ma non assisterli anche negli altri loro bisogni spirituali, non conoscendo l'idioma slavo — non appena cresciuti di numero, domandarono di avere proprio curato e proprio sacerdote slavo (149). E così nella campagna istriana s'introdusse l'uso di celebrare in lingua slava tutte o parte delle funzioni religiose. Di non piccolo eccitamento a queste domande aveva servito anche la offìciatura slava dei Padri [208] Terziari stabilitisi nell'Istria, i quali, secondo l'assicurazione del P. Ivancich (150) sarebbero stati anzi i primi ad introdurre il glagolitico nella nostra provincia. I preti venuti o chiamati dalla Dalmazia, o da terre ancor più lontane, portavano seco i loro libri, gli unici sui quali sapessero leggere; e con essi comparvero pure nell'Istria i primi messali glagolitici. Il più antico di questi messali, scritto nel 1368, ed usato nella chiesa di S. Elena di Nugla presso Rozzo, vi fu trasportato dalla Corbavia al principio del secolo XV. La diffusione della liturgia e dei libri slavi venne altresì favorita dai partigiani della riforma di Lutero, noto essendo che i luterani si servivano dell'esagerato sentimento di nazionalità per acquistare maggiori proseliti alla nuova dottrina. E come in Germania accarezzavano il popolo coll' introdurvi la liturgia tedesca; così nell'Istria cercavano di guadagnare la parte slava della campagna col diffondere libri religiosi scritti in questo idioma (151). E la spinta principale venne dalla Carniola, in cui la riforma si era allora ampiamente diffusa. Fra gl'Istriani troviamo attivissimi propugnatori della riforma Stefano Console (152), prete, e Giovanni Esnebal, parroco di Pinguente. Ma sopra tutti il vescovo di Capodistria, Pietro Paolo Vergerio (153), già vescovo di Modrussa [dal 1546], sotto la cui direzione il canonico Truber di Lubiana tradusse in lingua slovena (o vindico-rustica che si voglia chiamare) il nuovo testamento (154), che [209] venne stampato con lettere latine a Tubinga (a. 1557), assieme all'abecedario ed al catechismo. Per procurare a questi scritti maggior diffusione, seguendo l'eccitamento dato dal Vergerio al Truber si stabilì di tradurli dallo sloveno nell'idioma illirico, o croato, o serbo-dalmatico, o bosniaco, come allora usavano dire (155), e di stamparli tanto con caratteri glagolitici, quanto cirilliani; e fra il 1561-62 vennero publicati, pure a Tubinga, l'abecedario, il catechismo di Lutero, il nuovo Testamento, la Confessione di fede, gli Evangeli, alcune prediche ed altri scritti pel popolo slavo (156). In quest' opera di traduzione, revisione, ecc. collaborarono attivamente, oltre ad altri preti della Dalmazia, Serbia e Bosnia, il menzionato Stefano Console (Stipan Istrianin) da Pinguente, più tardi il vicario Matteo Zivsich da Pisino, ed il prete Francesco Clai da Gallignana (157). E con tanta baldanza si cercava di diffondere fra gli Slavi dell'Istria le nuove dottrine, che il vescovo di Pola si vide costretto a rivolgersi nel 1529 all'arciduca Carlo, affinchè venissero arrestati quei predicatori protestanti che trovavansi sulle terre della sua diocesi poste nella contea d'Istria (158). Tutte le bolle e proibizioni pontifice riguardanti la liturgia slava erano naufragate in un ostacolo allora insormontabile: nell'ignoranza del clero I pontefici potevano bensì vietare l'uso della liturgia slava, ma non potevano infondere nel clero di campagna la conoscenza della lingua latina. Perciò quella liturgia non solo si mantenne laddove già esisteva, ma si estese ancora maggiormente, allorquando i pontefici non furono più rigidi osservatori delle bolle anteriori, e scesero a concessioni parziali, che agli altri Slavi potevano sembrare ingiustificate. E così aumentò, nei secoli XIV e XV, il numero dei messali e breviari glagoliti, manoscritti. [210] Inventata la stampa, si moltiplicarono, vieppiù, e si ebbero per iniziativa privata le edizioni del 1483 e del 1528 a Venezia, quella del 1531 a Fiume, e l'altra del 1561 pure a Venezia. Siccome però erano costose e non sempre facili ad aversi, continuaronsi ad usare, assieme a queste edizioni, i vecchi messali e breviari, manoscritti. La S. Sede quando vide che il male erasi ingrandito, e difficile ne addiveniva il rimedio, fece sembianza di rassegnarvisi. — Non approvò la nuova liturgia introdotta ad onta dei suoi ripetuti divieti, ma la subì tacitamente. La persuasione allora invalsa che si dovesse al padre della chiesa S. Girolamo la scrittura glagolitica, contribuì a rendere più pieghevole la S. Sede. Ma nel subire quanto non avevano potuto al momento impedire, i pontefici tentarono di salvare almeno qualche cosa, cioè la lìngua liturgica, e vollero che la lingua dei libri sacri fosse il più possibile simile a quella usata da Metodio (idiomate slavonico), la scrittura glagolitica (charactere S. Hieronymi), il contenuto conforme al messale romano (ritu romano) di Pio V. Quindi il papa Urbano Vili si adoperò affinchè dai messali stampati, e da altri manoscritti fatti appositamente venire dalla Dalmazia (159), si compilasse un messale definitivo in antico slavo, ed in caratteri glagolitici, e publicato questo «Missale romano-slavonicum» nel 1631 (160), proibì tutti gli altri messali manoscritti e stampati, intimando a tutti i religiosi, di qualunque specie e titolo, che entro otto mesi dal giorno della publicazione della bolla o si procurassero ed usassero il nuovo messale, od in caso diverso ritornassero al messale latino. Aggiungeva inoltre che il nuovo messale era publicato per uso di quei fedeli, di quelle chiese, località, e province ove sino allora si era celebrato in queir idioma e che si [211] proibiva a tutti e ad ogni singolo sacerdote di usare di altro messale slavo all'infuori del nuovo, a meno che non preferissero di adoperare il messale latino (161). — Queste ultime parole della bolla pontificia, colle quali Urbano VIlI concedeva ampia facoltà a qualunque prete slavo, ed in qualunque circostanza lo stimasse opportuno, di celebrare col messale latino invece che col glagolito, ci prova ampiamente, come osserva anche Mons. Pesante (162). «che la chiesa, quando ammise il glagolismo, non intese punto di pareggiarlo alla maestà di quelle lingue liturgiche che saranno perpetue come essa è perpetua; ma per prudenza ne tollerò l'uso temporaneo, sia per favorire la conversione dei popoli slavi altrimenti volti allo scisma, sia per l'ignoranza dei loro sacerdoti e la difficoltà di supplirli con un clero bene istruito». Ci prova inoltre come fosse massimo desiderio del pontefice che si ritornasse quanto prima, per la religiosità dei singoli sacerdoti e per il loro figliale affetto verso la S. Sede, all'unità della lingua liturgica. § X. Mentre questi erano gli ordini della S. Sede, introducevasi per lo contrario abusivamente nell'Istria dai nuovi Slavi qui [212] sopragiunti dalle terre della Dalmazia e dalla penisola balcanica la lingua slava nelle cerimonie religiose. Diciamo abusivamente perchè fino a quel giorno la liturgia slava era stata permessa dal sommo pontefice soltanto nella diocesi di Segna, ed in quella di Praga: nella diocesi di Segna però soltanto in quelle parrocchie ove era stata in uso prima dell'anno 1248, nella diocesi di Praga in una sola località. E l'Istria non apparteneva, com' è noto, nè all'una, nè all'altra di queste diòcesi. Quando poi in seguito alla decisione del concilio di Trento (Sess. XXV. Decr. de ind. ed missali) la S. Sede intraprese una revisione del messale romano, e Pio l'publicò nel luglio 1570 il nuovo messale per tutte le chiese, ad eccezione di quelle che potevano dimostrare che l'usato da loro aveva già ottenuto l'approvazione della S. Sede, e che se ne servivano da oltre duecento anni (163), i vescovi dell'Istria dovettero trovarsi in un grande imbarazzo. Chiedere alle chiese slave che provassero l'esistenza del diritto sia per conferma pontificia, sia per consuetudine secolare, era inutile per gente venuta ieri nella provincia dalle terre più diverse e frammista di elementi così eterogenei; togliere la liturgia slava era impossibile, perchè i preti slavi venuti con loro, o fatti venire dalle terre balcaniche, non sapevano leggere il latino (164), ed il clero istriano non era suffìcente neppure ai bisogni della vecchia popolazione (165) e, meno rarissime eccezioni, non sapeva nulla di slavo, e tanto meno di glagolitico. Date queste circostanze i vescovi non poterono quindi volere altro che almeno i messali ed i breviari fossero conformi alle prescrizioni della S. Sede apostolica. [213] Nella relazione presentata a quest'ultima l'8 ottobre 1592 dal canonico di Parenzo, F. Fracellino, in nome del suo vescovo mons. Cesare de Nores, si legge fra altro (166): «Questo solo impedisce e ritarda maggiore profitto; essendochè mentre tutti usano la lingua illirica, a stento si trova presso di loro un breviario e messale antico con qualche piccolo manuale, per il quale inconveniente versano nella massima penuria di libri buoni. Più volte scrisse di ciò il vescovo al sommo pontefice, più volte gli fu data la speranza che quanto prima verrebbero stampati, nulla tuttavia si fece sinora, impediti da più gravi faccende, e per la sopragiunta morte. Sarà vostro incarico, illustrissimi signori, di provvedere a tale bisogna tanto necessaria al culto divino non solo in questa diocesi, ma in tutta l'Istria e nella Dalmazia, e nelle altre province che usano dell'idioma illirico». Nessuna meraviglia che ci fossero tanti Slavi, ed assieme tanta penuria di messali antichi e di libri approvati in una diocesi così crudelmente colpita dalle pestilenze, e dalla venuta delle nuove genti slave (167) com'era stata la parentina. [214] Ma qui Mons. Volarich gonfia subito la sua solita bolla di sapone e scrive (168) a commento di questo passo: «Così troviamo nel secolo XVI I Istria intera glagolitica, ad eccezione naturalmente di quelle poche città alla costa». Eppure non crediamo che Mons. Volarich sia tanto digiuno di storia ecclesiastica istriana da non sapere che nell'anno 1592 vi erano nell'Istria altre cinque diocesi, oltre a quella di Parenzo; cioè le diocesi di Trieste, di Capodistria, di Cittanova, di Pola e di Pedena, e che quindi se il vescovo Nores dice che nella sua diocesi erano tutti Slavi, è un assurdo il conchiudere da ciò che l'Istria intera fosse slava, poichè anche le altre cinque diocesi devono pure contare per qualche cosa. Altrove ci riserviamo di esaminare se l'«omnes Illyrica utantur lingua» piuttosto che la constatazione di un fatto non fosse invece una frase rettorica di cui si è servito il vescovo parentino per esagerare il male, allo scopo di ottenerne più pronto il rimedio. Il vescovo di Parenzo informava, adunque, mediante il suo rappresentante, che nella sua diocesi, mentre buona parte delle parrocchie era slava, i preti, invece di adoperare il breviario ed il messale antico approvato (169) dalla S. Sede, come prescriveva il concilio di Trento, usavano abusivamente messali, di cui non si conosceva l'origine, nè il tempo. Ricordava inoltre che di questa mancanza di buoni libri (optimorum librorum) egli aveva già prima scritto a Roma, e che gli avevano promesso di stamparne uno quanto prima, ma che la promessa [215] non era stata mantenuta. In senso eguale, o poco diverso, devono aver riferito anche gli altri vescovi istriani (170). E forse a questo stato di cose alludono le parole contenute nella lettera di S. Eminenza il cardinale Mattei scritta al vescovo di Capodistria Ingenerio il 3 ottobre 1594: «quei parrochi, che celebrano in lingua illirica e che dici meritevoli di correzione, correggili in quanto spetta al loro ufficio» (171). Intanto preparavasi la convocazione del concilio provinciale aquileiese, che venne aperto nell'ottobre 1596, ed al quale, sotto la presidenza del patriarca Francesco Barbaro, intervennero anche i vescovi Cesare de Nores di Parenzo, Giorgio di Pedena, Claudio di Pola, Ingenerio di Capodistria, mentre quelli di Trieste e Cittanova mandarono speciali rappresentanti (172). In questo concilio, al titolo «de divinis ofpciis», al decreto col quale si ordinava che in tutte le chiese della provincia di Aquileia di qualsiasi specie, tanto publiche quanto private, d'ora in poi si dovesse far uso esclusivamente del breviario romano edito da Pio V, e così pure del messale e del rituale dei sacramenti, si aggiungeva (173): «I vescovi poi che [216] siedono in paese illirico, in cui si usa il messale ed il breviario in lingua illirica, si adoperino col concorso di persone dotte e pie, conoscitrici di quella lingua, affinchè questi libri sieno diligentemente riveduti e corretti. Sarebbe tuttavia da desiderarsi che per la solerzia dei vescovi degli Illirici a poco a poco s'introducesse l'uso del breviario romano, del messale romano e del rituale. Conseguire questo scopo non sarà troppo diffìcile colla pietà e prudenza, se i più giovani chierici e quei seminaristi che si distinguono per studio ed ingegno, si prenderà ad esercitarli un po' alla volta, e con zelo se li ecciterà alla predetta pia opera. Questo fra i desideri. L'esecuzione non può essere prescritta: tuttavia lo prescrive e la prudenza e la pietà di ogni singolo verso il Signore». Così il concilio provinciale aquileiese, alieno da quelle misure radicali che restarono infruttuose, perchè inattuabili, aveva pel momento provveduto a limitare gli abusi colla revisione accurata dei libri liturgici slavi, ed aveva segnato in pari tempo nettamente la via da seguirsi per togliere affatto e tradurre in atto in un tempo non lontano una delle massime fondamentali dal concilio stesso stabilite, cioè (174): «nella provincia aquileiese uno solo sia il modo di cantare le lodi di Dio, una sola la forma delle sacre funzioni». Avere proprio seminario (175), allevare proprio clero composto di giovani virtuosi e colti, i quali conoscendo la lingua latina e la slava, potessero esercitare la cura d'anime degli abitanti nuovi, in luogo dei preti stranieri, ignoranti, e per Io più di vita dissoluta e disonesta (176); [217] questi erano i mezzi suggeriti per ristabilire senza scosse l'unità religiosa nella provincia aquileiese. Lo zelo spiegato dai vescovi in tale opera sarebbe stato prova, secondo l'espressione del concilio, della loro devozione verso la chiesa, della loro pietà verso Iddio. Nè le condizioni di quei tempi avrebbero permesso si procedesse in modo diverso da quello suggerito dal concilio, affine di sradicare gli abusi invalsi nella campagna istriana nel lungo periodo di completa anarchia religiosa e sociale, che accompagnò lo stabilirsi di genti nuove, specialmente nella diocesi parentina. Ecco il ritratto che di questi nuovi abitanti offre il capitano di Raspo, Giacomo Renier, nella sua relazione (177) al doge veneto il 20 giugno 1594, contemporanea quindi alle decisioni del concilio provinciale aquileiese: «Barbara gente, egli scrive, inutile per la dappocaggine e crapula e fuga della fatica al remo, alla spada, alla campagna, e solo nata per ubbriacarsi... cagione principale per li loro infiniti furti di animali ed altri danni che fanno, non si abiti l'Istria, anzi si diserti, ed i vecchi vassalli vadino in rovina, pieni di superstizioni, di costumi barbari, empi e scellerati alla fede e divozione, dei quali prego la divina bontà che mai a questo Serenissimo Dominio venga occasione di farne esperienza: nè altro è il [218] pensiero loro, come in qualche parte gli ha successo, che di esterminare gli abitanti vecchi con le Chiese ed ogni autorità di magistrato, come si vede per la poca stima e sprezzo che ne fanno... Ancorchè avanti settanta et ottanta anni i loro progenitori siano venuti scalzi, nudi, poveri e mendichi in questo paese, ora 178)....» Queste parole del provveditore veneto quanto non ricordano la protesta fatta otto secoli innanzi alla dieta del Risano dai rappresentanti dell'Istria, quando il duca Giovanni € trasportava sopra le terre delle chiese e del popolo gli Slavi in sua dannazione e nostra rovina» 179)! Allo spirito fiero, intrattabile, superstizioso dei nuovi abitanti, ostili agl' Istriani, alle loro chiese, al loro clero, si aggiungeva la deficienza di preti indigeni che conoscessero la lingua slava, e potessero assumersi la cura d'anime dei nuovi venuti; così che i vescovi erano necessitati di rivolgersi alla Dalmazia, e provvedersi colà pel momento di preti slavi non al certo con utile delle nostre popolazioni (180). § XI. [219] In questo frattempo, come abbiamo veduto, auspice il pontefice Urbano Vili, veniva stampato nel 163i il Messale romano slavonico in tipi glagolitici (charactere S. Hieronymi) nell'antico slavo (idiomate slavonico), e conforme alle prescrizioni di Pio V e Clemente VIII (ritu romano), restringendo il permesso di usarlo soltanto a quelle chiese «dove fino allora si era celebrato in quella lingua, — ubi hactenus praefato idiomate celebratum fuit». — Venivano quindi escluse dal diritto di adoperare questo messale e questa lingua nelle funzioni religiose tutte quelle chiese che non avevano precedentemente celebrato in antico slavo, e tanto maggiormente quelle di nuova istituzione: novella prova come i pontefici, pur cedendo alle imperiose circostanze del momento, ed alle necessità religiose dei fedeli, procurassero di ridurre le concessioni ai più ristretti limiti possibili, e d'impedire che si allargasse l'uso della liturgia slava. Sedici anni dopo, cioè nel 1648, il pontefice Innocenzo X, perdurando le stesse circostanze, publicò coi tipi glagolitici e nella liturgia vetero-slavonica, il Breviario romano-illirico. Nella lettera probatoria 22 febbraio leggesi quanto segue (181): [220] «Essendosi constatato che hanno bisogno di una opportuna revisione i libri sacri delle genti Illiriche, — le quali sono diffuse in lungo ed in largo per l'Europa, e dagli stessi gloriosi principi degli apostoli Pietro e Paolo specialmente istruite nella fede di Cristo — provenienti già dai tempi del Dottore Girolamo come ci deferì antichissima tradizione, od al certo dal pontificato di Giovanni VIlI di felice memorìa predecessore nostro, come consta da lettera dà lui data sopra tale argomento, e scritti (i libri sacri) bensì a norma del rito romano, ma nell'idioma slavonico e coi caratteri denominati volgarmente di S. Girolamo; noi, seguendo le orme del;nostro predecessore Urbano VIII, abbiamo ordinato che si rivedesse il breviario illirico stampato oltre un secolo fa, e se lo redigesse nella predetta lingua slavonica in conformità al breviario romano-latino testè riformato dal predetto nostro antecessore Urbano. Essendo stato compilato e controllato il detto nuovo breviario illirico, noi in forza della piena potestà apostolica confermiamo ed approviamo il detto breviario ed ordiniamo venga stampato». Era necessario riportare quasi per intero questa ormai famosa lettera pontificia per poter dare alle parole d'Innocenzo X il loro giusto valore; locchè non è possibile allorquando si riportano e si esaminano singoli brani fra loro staccati e sconnessi. Che cosa dice il pontefice nella prima parte della sua lettera? Dice che avendo le genti illiriche, le quali sono in lungo ed [221] in largo diffuse per l'Europa, ricevuti i libri sacri o già dai tempi di San Girolamo, come vuole vetustissima tradizione, o con maggiore sicurezza dal pontefice Giovanni VIlI, come lo dimostra la lettera da lui data in tale proposito, egli ecc. ecc. Chiunque abbia avuto la pazienza di seguirci fin qui nello studio della storia della liturgia glagolitica, si sarà facilmente avveduto dell'erronea asserzione del pontefice Innocenzo X: «essere stato dal tempo di S. Girolamo od al certo da papa Giovanni Vili concesso i libri slavi alle genti illiriche». Che i caratteri glagolitici derivino da S. Girolamo era una pia tradizione che manca di ogni fondamento storico; nò oggi si troverebbe alcuno che ragionevolmente la sostenesse. Il breve del pontefice Giovanni VIlI (giugno 880) lo possediamo nella sua integrità, e l'abbiamo tutto riportato nella nota n. 46. Con questo breve il sommo pontefice allora regnante non concede a tutte le tribù illiriche, in qualunque parte dell'Europa si trovino, il diritto della liturgia slava, ma solo ai diocesani di S. Metodio, vale a dire ai Moravi ed ai Pannoni; ed anche a questi, in quanto dipendeva dal beneplacito del loro sovrano. Laonde Innocenzo X, nell'ascrivere al suo predecessore il papa Giovanni VIII una concessione liturgica fatta a tutta la gente illirica, si è storicamente ingannato (182). D'altronde che gli Slavi stessi riconoscano non derivare loro da questa lettera d'Innocenzo X alcun diritto liturgico, lo dimostra il fatto che nella stessa Zagabria per poter cantare una sola messa in lingua slava nella solennità dei Ss. [222] Cirillo e Metodio, abbisognarono di una speciale concessione della S. Sede apostolica; che a Roma nella chiesa collegiata di S. Girolamo degli Illirici, destinata per la colonia illirica, tutte le funzioni devono essere celebrate in latino, e solo per uno speciale privilegio di Sisto l'è accordato che nelle feste più solenni vi si cantino l'epistola ed il vangelo in slavo dopo cantati in Ialino; e che infine lo stesso Montenegro «terra illirica per eccellenza» abbisognò della stipulazione di apposito concordato colla S. Sede, pella introduzione dei libri liturgici glagoliti. Sorprende quindi che il cardinale Bartolini attribuisca (183) a S. Metodio il titolo ora di legato a latere per tutti gli slavi, ora di arcivescovo di tutti gli slavi, ora di legato apostolico in tutti i paesi slavi, e non ritenga in pari tempo opportuno di citare neppure una volta un solo documento che legittimi tanta estensione dell'autorità apostolica da lui attribuita all'arcivescovo della Pannonia. Siccome le parole di Sua Eminenza, per l'autorità della persona che le scrisse, potrebbero facilmente condurre a conclusioni esagerate ed anche erronee, crediamo necessario di passare qui in rivista tutti i documenti che si riferiscono a tale questione. Il pontefice Giovanni VIlI nelle istruzioni al vescovo Paolo suo legato in Germania lo incarica di dire al re Lodovico intorno alla vertenza fra l'arcivescovo di Salisburgo e Metodio: Ipse nosti, o gloriosissime rex, quod Pannonica diocesis apostolicae sedi sit subiecta (184). — Lo stesso pontefice nella sua lettera a Carlomanno (a. 875) dice: «Restituto nobis Pannoniensium episcopatu liceat fratri nostro Metodio qui illic a sede apostolica ordinatus est secundum priscam consuetudinem libere quae sunt episcopi, gerere (185)». Al 14 giugno 879 scrive a «Methodio archiepiscopo Pannoniensis ecclesiae» (186). Nella lettera 14 giugno 879 a Svatopluk, duca di Moravia, si legge: «Methodius [223] vester archiepiscopus ab antecessore nostro Adriano scilicet papa ordinatus vobisque directus»; in quella del giugno 880 allo stesso Svatopluk parla di Metodio «archiepiscopo sanctae ecclesiae Marabensìs»; e più giù scrive: «Presbiteros vero, diacones, seu cujuscumque ordinis clericos, sive sclavos, sive cujuslibet gentis, qui intra provinciae tuae fines consistunt praecipimus esse subjectos et obedientes in omnibus jam dicto confratri nostro, archiepiscopo vestro» (187). La lettera del marzo 881 fu scritta da Giovanni VIII a «Metodio archiepiscopo pro fide» (188). In quella ad Emerico vescovo di Passavia il detto pontefice rimprovera il vescovo di avere imprigionato e voluto percuotere «fratrem et coepiscopum nostrum Metodium»; e più sotto dice di Metodio: «ad hoc (episcopum) apostolicae sedis manu sacrato et (e) latere destinato» (189); in quella ad Annone vescovo di Frisinga, lo rimprovera di aversi arrogato il diritto di giudicare, «Methodium archiepiscopum, lega-tione apostolicae sedis ad gentes fungentem»; ed altrove: «istius fratris et coepiscopi, quin potius et missi nostri (190)». Ed infine a Muntimiro principe di Serbia (191) che gli chiedeva dei missionari, il papa Giovanni Vili risponde (192): «quapropter admonemus te ul'progenitorum tuorum secutus morem ad Pannoniensium reverti studeas dioecesim et quia iam Mìe a sede B. Petris apostoli episcopus ordinatus est, ad ipsius pastoralem recurras sollicitudinem (193)». [224] In quale di queste bolle e lettere pontifice è designato Metodio col titolo di «Legato apostolico per tutti gli Slavi, oppure per tutti i paesi slavi?» Qui i sofismi non servono. Il titolo e' è, o non e' è. I titoli di arcivescovo prò fide, di vescovo a latere, di legato apostolico ad gentes, di missus noster, non provano minimamente che la sua autorità metropolitica si estendesse oltre al perimetro del paese abitato dai Moravi e Pannoni, allora gentili, paese entro il quale limitano e circoscrivono la sua autorità tutte le altre lettere pontifice. Vi è qui un'altra osservazione da fare, e che crediamo della massima importanza. Il titolo di e latere destinatus, di legatus apostolicae sedis ad gentes, di missus noster non si trova nelle vecchie lettere apostoliche, la cui autenticità è fuori di ogni contestazione, bensì in sunti di lettere del pontefice Giovanni VIII, scoperti e publicati appena nel 1880, e tratti da un manoscritto del museo britannico del sec. XII, il quale non è una collezione di documenti originali, integri ed autentici, ma una compilazione o raccolta di sunti di atti apostolici, eseguita non tanto a scopi istorici, quanto per viste ed istituzioni giuridiche (194). Passiamo alle leggende (195). La leggenda italica «che ha il posto di onore su tutte le altre, ed è per verità la più autentica e sincera», dice soltanto (e. 9) (196): «consecraverunl'Philo-sophum et Methodium in Episcopos». La leggenda morava si esprime (e. 8) così: «Factus ergo Moravorum antistes». La boema (e. 6): «Metudus per regem Moraviae in archiepiscopum ordinatur». La bulgara (e. 3): «Methodium episcopum Moravi Pannoniae ordinat». La leggenda pannonica in quella vece racconta nel e. 8, che il pontefice rispondesse al principe Còzel: «Non tibi tantum sed omnibus partibus illis Slovenicis mitto illum magistrum»; ed al e. 12 narra che: «Moravici homines... honorantes apostolicos libros invenerunl'scripturam: [225] Frater noster Methodius sanctus, orthodoxus est, apostolicum opus perfìcit et manibus ejus sunt a Deo et ab apostolica sede omnes partes Slovenicae traditae». Delle leggende adunque una delle meno attendibili perchè scritta molto tempo dopo la morte di Metodio e «perchè di lei non si deve fare conto alcuno quando narra cose che si oppongono a quanto ci tramanda l'italica, massimamente se con questa si accordano ancora le altre leggende» (197), verrebbe a suffragare l'opinione del Card. Bartolini. Ma anche qui vi è un grosso guaio. Nella lettera che il pontefice scrive a Còzel ed a Rotislao in tale occasione, e che è contenuta nello stesso cap. 8 della leggenda pannonica, lettera che il Bartolini riconosce come autentica (198) e che dovrebbe servire di conferma al passo succitato si legge in quella vece: «Nos autem statui-mus Methodium in partes vestras mittere filium nostrum, post quam eum cum discipulis ordinavimus, ut vos edoceret, quemadmodum rogastis, libros in vestram linguam interpretans». Che cosa rimane adunque delle leggende che possa autorizzare ed avvalorare i titoli attribuiti dal Card. Bartolini a S. Metodio? Chiudiamo questa rassegna critica col seguente passo della Vita S. Methodii, e. 6. Excepit verum eum (Methodium) Kocel cum magno honore; et iterum eum ad apostolicum (Hadreanum II) misit et XX viros, homines honorabiles. ut eum sibi ordinaret in episcopatum in Pamionia in sedem S. Andromei, quod etiam factum est. §. XII. E poi sono forse fra loro d'accordo gli stessi storici slavi sul significato delle parole generiche: genti illiriche, genti scla-voniche? Secondo la lettera di Innocenzo X, che alla sua volta si riferisce al Breve di Giovanni Vili, in capo a tutte queste genti dovrebbe stare la Moravia, seguire quindi la Pannonia, [220] vale a dire l'odierna Austria e Stiria; perciocchè S. Metodio abbia introdotto precisamente in quelle province la liturgia slava. Ma chi comprende oggi la Moravia, l'Austria, la Stiria superiore fra le province illiriche? Il curioso si è che, mentre ogni popolo tenta di conservare con religioso affetto il proprio nome, la propria personalità storica, come titolo di nobiltà rappresentante i suoi diritti civili e religiosi, e di tramandarlo inalterato alla posterità, le genti slave lo considerano come inutile ingombro, mutando questo nome, questa personalità storica, con una facilità sorprendente, e facendone uso in tutti i sensi imaginabili; per tacere ancora che molti dei loro storici si servono di questo caos di denominazioni allo scopo di abbellire i propri connazionali colle penne altrui. Uno di questi nomi si è l'appellativo di illirici ch'essi presero da altre popolazioni di cui occuparono le sedi, e del quale nome usano come di una pasta di gomma elastica, ma molto elastica, che si accorcia o si allunga a loro talento, a seconda delle circostanze, e del momentaneo interesse. Di fatti, se consultiamo i documenti (199), vedremo che il nome «illirico» lo usarono ora a designare la Dalmazia soltanto (200), ed ora ne ampliarono gradatamente la comprensione in guisa da includervi la maggior parte dell'Europa e la massima parte dell'Asia. Nè si creda che noi vogliamo scherzare: lo dice un cardinale, ed havvi una bolla di papa Urbano Vili che lo assicura (201): laonde combinando le teorie di mons. Volarich, [227] ed il contenuto di questa bolla pontificia, anche i seguaci dì Confucio e di Budda avrebbero il diritto o il dovere di celebrare le loro funzioni religiose in glagolitico. Siccome nei secoli XVI e XVII illirico significava volgarmente null' altro che slavo, terra illirica terra slava, lingua illirica lingua slava, si vorrebbe da alcuni allargare, come vedremo, tanto l'Illirico romano, quanto l'Illirico ecclesiastico a tutte quelle terre, le quali, per essersi in esse stabiliti gli Slavi, vennero chiamate volgarmente ed illegittimamente terre illiriche. Ma nulla di più erroneo, di più contrario alla verità, che il dare un valore storico ad una espressione volgare. Oggi non è più di moda il nome di illirici. Una scuola modernissima tenta di sostituirgli il nome di croati, anzi non passeranno molti anni che leggeremo compreso nel nome e nella storia dei Croati, quegli eventi che nei secoli addietro si attribuivano agli Illiri, anche le splendide pagine della storia dei Nemania. anche il leggendario eroe serbico Marco Kraglievich. E non abbiamo veduto in questi ultimi giorni tramutare il raguseo Giov. Frane, di Gondola (20'2) in Ivan Gundulicru e da scrittore serbo che egli fu, gabellarlo al publico per «astro fulgido croato», e proclamare in pari tempo Ragusa «l'Atene croata» (203)? [228] Ancora un'ultima parola su questa lettera d'Innocenzo X. Se, puta caso, cento od anche mille Slavi, moravi, o croati, non monta il nome e I' origine, si andassero a stabilire p. e. a Milano, potrebbero essi pretendere, appoggiandosi a questa lettera d'Innocenzo X, che come parte delle «genti illiriche diffuse in lungo ed in largo per l'Europa», l'arcivescovo di Milano faccia celebrare nella cattedrale di S. Ambrogio, od in altra chiesa qualunque, le funzioni religiose in lingua glagolitica? Una pretesa simile sarebbe per certo molto ridicola; così almeno lo crediamo noi. Le concessioni fatte ad una nazione sono legate sempre ad un determinato territorio, fuori del quale esse cessano di avere alcun legittimo valore. Ed è perciò che nel parlare e nello scrivere valgono la stessa cosa p. e', il diritto concesso alla Francia ed il diritto concesso ai Francesi, per l'intimo legame che havvi fra quella e questi, in guisa da non potersi pensare disgiunti i Francesi dal territorio, che costituisce la loro patria. Così è nel nostro caso per le genti illiriche, le quali non possono pensarsi separatamente dall'Illirico da esse abitato. E l'Istria non ha fatto mai parte dell'Illirico in senso politico, nè ecclesiastico. E lo proviamo. Nell'anno 27 av. Cr. l'Istria fu compresa da Augusto, assieme alla Venezia, nella «decima regione italica» (204) ed allorquando Costantino nel 324 divise nuovamente l'impero, l'Istria rimase parte, colla Venezia, della diocesi d'Italia (205). Le province circonvicine, in quella vece, la Pannonia prima e seconda, la Savia, la Dalmazia, queste erano comprese nell'Illirico occidentale; e fino a tanto che si è mantenuto l'impero romano, questa divisione politica durò inalterata, e servi di base alla circoscrizione ecclesiastica della Chiesa cattolica (206). Quindi neppure le [229] nostre chiese ebbero mai dipendenza da quelle di oltremonte.' ma furono sempre subordinate al metropolita di Aquileia od a quello di Grado. Ed è per ciò che il Farlati non si occupa dell'Istria nel suo «Illyricum sacrum»; che l'Ughelli comprende le diocesi istriane nella sua l'Italia sacra»; che il Pastrizio stesso, P autore prediletto di mons. Volarich, esclude categoricamente l'Istria dall'Illirico (207); che la bolla di Sisto V, i agosto 1589, nel determinare quale sia la provincia propria e vera dell'Illirico, non menziona l'Istria: ed è per ciò, infine, che la S. Rota decideva il 24 aprile 1656 (208): «Provincia vera e propria della nazione illirica, secondo la bolla e la mente di Sisto V, fu e deve essere intesa la provincia della Dalmazia, ossia l'Illirico, di cui sono parti la Croazia, la Bosna e Slavonia, escluse del tutto la Carinzia, la Stiria e la Carniola». Qualunque sia stato il motivo (209) per cui questa decisione fu presa dalla S. Rota, non si scema punto l'importanza della medesima. [230] Il vescovo di Parenzo Giov. Batt. Del Giudice, nella sua Relazione ai Sacri limini 13 giugno 1655. dopo avere parlato [231] dei suoi parrochi tanto di lingua latina, quanto di lingua illirica, continua: t Parentium in Istria Italiae Provincia?.... La «Relatio (210) de statu catholicae religionis in terris, quas slavi meridionali inhabitant» fatta a S.S. Papa Innocenzo XI da Monsignor Urbano Cerri, il 17 maggio 1679, non comprende l'Istria nel-V Illirico, secondo il concetto ecclesiastico. Per ultimo anche il Riceputi, nel suo Prospetto dell'Illirico sacro, scrive: «Pola, la quale benchè abbia la sua cattedrale neir Istria provincia dell'Italia, estende tuttavia la diocesi nella Liburnia parte dell'Illirico» (211). Di faccia a questi fatti ed a queste decisioni dei sommi pontefici, e della curia romana, quale valore può avere mai una carta geografica compilata nel 1659 da un frate qualunque della congregazione di S. Girolamo, e non già in base alla sentenza della S. Rota, come afferma erroneamente Mons. Vo-larich, ma «conforme al parere del signor presidente del collegio illirico Stefano Gradich da Dubrovaz nella Dalmazia», [232] come racconta il dott. Crncich a pag. 69 della sua già citata publicazione! Padrone, padronissimo quel frate d'includere nella carta del suo Illirico (212) l'Istria nostra, ed altri paesi ancora; ma pretendere, come fa il Volarich, che quella carta geografica valga a infirmare sedici secoli di storia, ed una bolla pontificia, ed una decisione della S. Rota è semplicemente cosa assurda (213). Se le carte geografiche di moderna fabbrica slava avessero forza di capovolgere il mondo e le leggi canoniche, se ne vedrebbero di belline assai! [233] § XIII. Ed ora riprendiamo le mosse dalla lettera di Innocenzo X. Era inutile che i pontefici si adoperassero a publicare messali e breviari e rituali nell'idioma slavo antico ed in caratteri glagolitici. L'ignoranza del clero slavo della campagna anche nei secoli XVI e XVII era tale e tanta che non sapevano leggere, nè comprendere, non solo i libri ecclesiastici scritti in lingua latina, ma neppure quelli scritti nello slavo antico: non intendevano più e non sapevano leggere che il proprio dialetto illirico, quello di cui si servivano negli usi comuni della vita (214): ed è per questo motivo (215) che il papa Urbano VIIl dovette far tradurre nel 1636 dal gesuita Bartolomeo Kassich, dalmata, il rituale romano nel dialetto illirico (editum illyrica lingua), che poi vide la luce coi tipi latini de Propaganda Fide. Ma anche questo fu di poco giovamento; l'uso dei libri sacri tutti interpolati di orazioni scritte nel volgare illirico, invece che nel solenne slàvonico, raggiunse nel secolo XVII e XVIII tanta diffusione, che il pontefice Benedetto XIV fu costretto ad emanare la costituzione «Ex pastorali munere» 15 agosto 1754, colla quale «interdiceva al clero slavo di adoperare qualsiasi altro libro sacro all'infuori di, quelli scritti nell'antica lingua slava con caratteri glagolitici; ordinava ai vescovi delle diocesi, nelle quali vigeva il rito slavo-latino, d'invigilare accuratamente in tale proposito, e di eliminare qualsiasi innovazione od abuso; prescriveva che fosse tenuto in perpetuo fermo e valido quanto [234] egli stabiliva in questa lettera; annullava in pari tempo ogni privilegio od indulto concesso alla nazione illirica che fosse in contradizione colla presente costituzione; ed invocava infine contro i violatori dei suoi decreti lo sdegno del Dio'onnipotente e dei beati Apostoli Pietro e Paolo (216)». Anche questa proibizione rimase per i più lettera morta, come tante altre precedenti. Durante il secolo XVII, i vescovi istriani si erano dedicati con zelo e fervore religioso a questa pia opera — pium opus, come la nominò il concilio aquileiese, — di ripristinare l'unità liturgica nella nostra provincia, spezzata dal sopragiungere delle genti nuove, ben sapendo che con tale opera si favoriva anche P avvicinamento e P affratellamento fra le due popolazioni, la nuova e la vecchia, che abitavano sullo stesso suolo, e dal cui amichevole contatto poteva solo derivare la pace alla chiesa, la prosperità all'intera provincia. Il compimento di qucst' opera pia sottraeva le popolazioni slave alla perniciosa influenza straniera, le avvinceva sempre più alla madre chiesa di Roma, e le rendeva più accessibili alla civiltà ed alla cultura occidentale. [235] Il maggior sostegno dei glagolitici erano i frati terziari della provincia serafica della Dalmazia, cui era aggregata anche l'Istria; i quali tenevano qui in quel tempo due conventi, l'uno a Capodistria, e l'altro presso Visinada (217). Forti dei loro privilegi, questi frati pretendevano di non obbedire ai sinodi provinciali, e si ribellavano persino alla visita canonica dei vescovi diocesani. Ed aggiungendo a tutto questo una vita non troppo castigata (218), l'esempio che ne ricevevano gli altri preti slavi della campagna, molto spesso loro connazionali, era quanto mai pernicioso. E «contro l' uso del glagolito importato dai terziari nell'Istria» insorgeva nel 1593, come scrive il P. terziario Ivancich, il vescovo di Pola Sozomeno, a ciò eccitato dal patriarca Barbaro di Aquileja. La reazione suscitata nei preti slavi, e specialmente nei terziarî, dall'energia di questo vescovo, non trattenne gli altri vescovi a seguirne l'esempio. Fra questi si fu particolarmente il vescovo di Parenzo, Giovanni X (1645-67); e quando egli volle visitare il convento dei terziari alla Madonna de' Campi presso Visinada, i frati gliene contestarono il diritto. Il vescovo li accusò di adoperare il glagolito in opposizione agli ordini ecclesiastici, ed interdisse loro di celebrare la messa in questa lingua in tutte le chiese della diocesi, all'infuori della loro chiesa conventuale. Se volevano celebrarla altrove, lo dovessero fare in lingua latina» (219). Perseguitati nell'Istria e nella stessa Dalmazia dagli oppositori del rito glagolitico, i terziari si rivolsero a Roma, ove, come sembra, ottennero speciale privilegio di continuare [230] secondo l'uso antico concesso a tutte le chiese della provincia serafico-dalmata (220). Gli altri ordini dei francescani, i minori osservanti, ed i conventuali, celebravano sempre tutte le funzioni religiose in lingua latina (221). Difjicoltà pecuniarie ostavano specialmente alla creazione di seminari diocesani, raccomandati, oltrechè dal sinodo aquileiese, anche dal concilio di Trento (222). Laonde già il cardinale Mattei scriveva il 3 agosto del 1594 al vescovo di Capodistria Ingenerio (223): «se per la tenuità delle rendite non puoi erigere un seminario, istituisci almeno una scuola per informare i chierici nelle lettere e nella pietà». La chiesa di Parenzo però, la più minacciata per cagione del numero stragrande di genti nuove stabilitesi entro la sua diocesi, e della loro indole fiera e selvaggia, fu la prima a mettersi risolutamente all'opera, ed il suo vescovo Cesare de Nores fondò un seminario a Parenzo per dodici alunni (224). Ma breve ne fu la durata: la malaria che allora regnava nella città causò ben presto l'abbandono del seminario. Il vescovo Giovanni Lipomano propose di trasferirlo a Rovigno, ove abitava la maggior parte dell'anno (225). Ed anche i suoi successori si adoperarono ad infondere al seminario nuova vita; ma «le ingiurie dei tempi come si esprime il vescovo Mazzoleni, indussero varie mutazioni nel sito e nel luogo del seminario. Quando non lo si potè avere completo, si cercò, seguendo il consiglio della curia [237] romana, di condurre almeno un maestro dotato delle qualità più desiderabili morali ed intellettuali». Anche il governo veneto non era rimasto estraneo a questo bisogno, e già nel 1607, eccitato dal patriarca Barbaro, quello stesso che presiedette al concilio aquileiese, aperse pratiche per istituire a Capodistria un seminario che dovesse servire a tutti i provinciali, dotandolo sui beni delle confraternite, e degli altri benefici ecclesiastici. Intanto nel 1627 si fondava il collegio dei Gesuiti a Fiume, con proprio seminario: ed allora molti giovani della contea d'Istria e della Liburnia cominciarono a dedicarsi al sacerdozio, frequentando quel collegio. I vescovi non ebbero più bisogno di chiamare per quelle parti i preti dalla Dalmazia: e come scrisse (226) il vescovo di Trieste mons. Legat, la liturgia slava andò lentamente a cessare per opera degli stessi sacerdoti indigeni, tanto nell'Istria austriaca, quanto nella Liburnia. A Capodistria àprivasi nel 1710, per iniziativa del vescovo Naldini, un seminario di chierici, sotto l'invocazione di San Francesco Salesio, al piano-terra del palazzo vescovile (227). L'anzidetto vescovo esponeva al governo veneto, in data 29 maggio 1689, le ragioni di questa sua determinazione, colle seguenti significative parole: «Serenissimo Principe. Il Seminario de' chierici di somma utilità alla Diocesi è oltremodo necessario a quella di Capo d'Istria non tanto per le virtù fisiche e morali del clero, quanto per la lingua illirica, ch' è linguaggio necessario di quelle ville e però all'occorrenze che sono frequenti (non pratticandosi nelle Città e Terre della Diocesi tal linguaggio) in mancanza di Preti idonei bisogna prevalersi di soggetti non solo d'alieno Dominio, ma sconosciuti e ignoranti e [238] poco meno che innetti» (228). Questo seminario venne poi ampliato e regolato nel 1722 dal vescovo Borromeo, secondo le costituzioni del seminario di Padova. A quello di Capodistria segui nel 1713 il seminario di Trieste. Anche il vescovo di Pola aveva cercato d'istituire un proprio seminario. Non potendolo fare coi suoi scarsi mezzi, si era rivolto varie volte per aiuto alla curia romana; ma questa, cui stava a cuore specialmente la conversione di quei montenegrini appartenenti alla chiesa greca, che si erano stabiliti nella diocesi polese, preferì di provvedere a proprie spese un missionario perito nella lingua illirica, afpnchè insegnasse loro la dottrina cattolica, e cooperasse così a guadagnarli alla chiesa romana (229). Mentre questi seminari avevano lo scopo di educare un clero indigeno capace a sodisfare ai bisogni della popolazione italiana e slava, ed a mantenere nello stesso tempo la pace e la concordia fra le due razze che abitavano il nostro paese, i vescovi si adoperavano alla loro volta a regolare l'attività del clero in tutte le sue funzioni, a migliorarne i costumi allora piuttosto rilassati, a provvedere alla sua cultura intellettuale e morale, e ad esigere dal clero slavo la stretta osservanza delle prescrizioni della s. Sede intorno all'uso della liturgia, mediante la convocazione nel secolo XVII in ispecialità, e quindi nel XVIII, di una numerosa serie di sinodi diocesani. E qui ricordiamo per la diocesi di Pola il sinodo Sozomeno nel 1598, il sinodo I Saraceno nel 1631, ed il II Saraceno nel 1633, tutti tenuti in Albona, ed il sinodo Corniani del 1674; — per la diocesi dì Capodistria il sinodo di Bart. Assonica (1503-29), di Tommaso Stella (1549-66), di Giov. Ingenerio (1576-1600), di Pietro Morari (1630-56), il sinodo Naldini nel 1690, il sinodo Borromeo nel 1722, il sinodo Bruti nel 1737, il sinodo Da Ponte nel 1779; — per la diocesi di Parenzo il [239] sinodo Del Giudice nel 1653, il sinodo Adelasio nel 1675, il sinodo Mazzoleni nel 1733; — per la diocesi di Cittanova il sinodo Tommasini nel 1644, il sinodo Bruti nel 1674. il sinodo Gabrielli nel 1691, il sinodo Mazzocca nel 1730, ed il sinodo Stratico nel 1780, che fu l'ultimo tenuto nella provincia d'Istria. § XIV. Le conseguenze benefiche dell'attività religiosa dei nostri vescovi, inspirata alle decisioni del concilio di Trento, ed a quelle del concilio provinciale aquileiese del 1596, non meno che alla pietà ed affezione verso i fedeli afjfrdati alle loro cure, si fecero ben presto sentire. Benchè pochi sieno i documenti che si riferiscono alla questione che qui andiamo studiando, essi sono però sufficienti a dimostrarci come a poco a poco si andassero togliendo gli abusi liturgici introdotti nel secolo XVI per cagione della venuta dei nuovi abitanti. Consultiamo dapprima l'Italia sacra dell'Ughelli, le cui notizie sulle diocesi istriane si riferiscono (230) agli anni che precedettero il 1660. Questo autore nulla dice della diocesi di Trieste. Sappiamo però dalla relazione del vescovo Marenzi del 1650, che a quel tempo vi erano nella sua diocesi, e precisamente nel Pinguentino, due parrocchie, in cui si celebrava ancora in glagolitico: quella di Draguch, ove c'era un vecchio parroco di 90 anni (231), [240] ed a Sovignaco ove pare che dal parroco Matteo si tenessero le funzioni in latino, e dal suo cooperatore in lingua glagolitica (232). E se in una diocesi così vasta, quale era anche allora la diocesi tergestina, si celebrava in glagolito in solo due parrocchie (per non tenere conto di quella di Ternova), ciò prova a tutta evidenza che la liturgia slava non aveva mai in quella diocesi attecchito. Nella diocesi di Capodistria, in quasi tutte le 13 parrocchie campestri si celebrava in lingua slava, per la ragione, aggiunge l'Ughelli, che la massima parte degli abitanti erano qui immigrati dall'Illirico (233). Non dobbiamo dimenticare che allorquando scriveva l'Ughelli, si chiudeva precisamente l'infausto periodo del trapianto di nuovi coloni venutivi in tempi diversi e da regioni fra loro distanti. Tanto è ciò vero che il vescovo Da Ponte osservava ancora nel 1779 che nella sua diocesi quasi ogni villa aveva proprio vernacolo (234). Il vescovo Rusca di Capodistria scriveva nella relazione al nunzio apostolico 20 febbraio 1623 (235): «Ne' villaggi habitati da schiavi vi sono alcuni sacerdoti di quella nazione et lingua che recitano li divini offici et la s. Messa nell'idioma schiavo secondo la traduzione di S. Gierolamo ... et si tollera così per sodisfar alla barbarie di tali popoli, che non alimenterebbero altrimenti essi sacerdoti, i quali solo d'elemosine vivono, non havendo le Chiese un soldo proprio d'entrata». [241] Dagli atti vescovili (236) si rileva poi che il vescovo Pietro Morari ordinava nel 1643 alle chiese di Padena e Carcauze di provvedersi di un messale latino, ed egualmente alle chiese dipendenti dalla parrocchia di Paugnano. Il suo successore, il Corniani, avendo trovato il 16 novembre i65ó che il curato di Costabona (don Giorgio Gregorich) era stato il primo a portare il messale slavo ed a celebrare con esso, dichiarò essere questo un «abuso nuovo da togliersi affatto» (237); ed il dì seguente, rilevato che il pievano di Carcauze, don Michele Voch, diceva pure la messa in slavo, glielo vietava «pensando che si deve restituire per tutta la diocesi la messa latina, com' era per lo innanzi, affinchè tale contagio non abbia a serpeggiare per le altre ville (238). Il vescovo Francesco Zeno, nella relazione alla s. Sede del 1661, scriveva che essendovi nelle parrocchie di campagna molti Illirici, i parrochi sono per lo più rustici, e poco atti alla cura delle anime, e facili a cadere in errori, ma che per difetto e penuria di sacerdoti che coltivano la lingua illirica, doveva tollerarli (239). Dal vescovo Naldini (240) sappiamo che nella città di Capodistria esisteva un convento del terzo ordine dei Francescani, che «questi Terziari doveano essere o dalmatini di nascita, o per lo meno di lingua» e che nella loro chiesa [242] conventuale di S. Gregorio, presso porta Zubenaga, recitavano la santa messa ed i divini uffici nell'idioma illirico ad uso specialmente della soldatesca dalmatina permanente nel porto per servizio delle fuste destinate alla custodia dell'Adriatico, ed a prò della plebe slava dimorante nella città, o sparsa nel territorio. Nel vescovato di Cittanova, diocesi molto ristretta, le io chiese parrocchiali di campagna avevano parecchi illirici, i quali naturalmente istruivano i diocesani in lingua illirica (241).... Mons. Tommasini, vescovo di Cittanova, non parla affatto di liturgia glagolitica nella sua diocesi, anzi scrive (III, e. 9): «Duravano li vescovi (di Cittanova) fatica in provvedere di preti... al presente è levata questa difficoltà, essendovene di nativi ed originarii». Laonde non è lecito riferire alla liturgia le parole dell'Ughelli: «et illyrica lingua instruunt». Della diocesi di Parenzo, quest'autore dice semplicemente (242) che è abbastanza ampia e che in gran parte vi si usa la lingua illirica. Al laconismo dell'Ughelli possiamo però sopperire con una notizia conservataci nella Miscellanea di Giovanni Pastrizio, che esiste manoscritta nel museo Borgiano de Propaganda Fide. Questo manoscritto (243) fu cominciato nel 1683; l'autore aveva adunque di già raccolto il materiale necessario alla sua compilazione; laonde le notizie liturgiche in esso contenute devono essere riferite, senza tema di errare, a qualche decennio innanzi, ed appartenere quindi al periodo fra il 1660-80, di cui ora ci [243] occupiamo. Di ciò si ha un' altra prova ancor più sicura. Mons. Volarich riporta <i44) le seguenti parole del manoscritto del Pa-strizio: «hunc catalogum mini dederunt duo presbyteri glago-litae, exinde Romam advenientes, antequam inciperet Breviarii impressio». Il breviario del Pastrizio venne stampato (244) nel 16S8, dunque le 19 parrocchie glagolitiche della diocesi di Parenzo appartengono ad un periodo di tempo anteriore a questi anni. E qui ci si permetta di rivolgere una domanda a Mons. Volarich: Ella che sapeva tutto questo meglio di noi, crede di avere fatto cosa onesta e leale, col trasportare di suo capriccio questi fatti dal secolo XVII al XVIII, e scrivere, come ha scritto, nella colonna 9 del suppl.0: «laonde possiamo constatare che sussistevano in realtà nei secolo XVIII nella diocesi di Parenzo 19 parrocchie affatto glagolitiche?!» Secondo quanto lasciò scritto il Pastrizio, avrebbero usato adunque intorno al 1660-80 del messale e breviario illirico le seguenti parrocchie della diocesi parentina: - Fontane,
- Villa di Rovigno,
- Foscolino,
- Monghebbo,
- Sbandati,
- Villanova,
- Fratta,
- Abrega,
- Torre,
- S. Domenica,
| - Visignano,
- Mondellebotte,
- S. Giovanni di Sterna,
- Montreo,
- S. Vitale,
- Racotole,
- Caroiba,
- Novaco,
- Caldier.
|
In tutto quindi 19 parrocchie ed altrettanti villaggi, riguardo ai quali si può precisare quasi con esattezza il giorno in cui sono venute a stabilirsi nei secoli XVI 0 XVII le famiglie nuove dalle regioni balcaniche. Ed ammessa pure la verità di quanto lasciò scritto il Pastrizio, quale valore avrebbero mai quelle 19 parrocchie di campagna rimpetto alla totalità della diocesi? Dalla relazione (246) del vescovo Giov. Batt. Del Giudice del [244] 1625 ci è noto che la diocesi parentina comprendeva allora 8 chiese collegiate, e 44 parrocchie. La prima conclusione a cui si viene sarebbe adunque che la liturgia slava non esisteva in nessuna delle otto chiese collegiate, ed era limitata ad una parte soltanto delle parrocchie di campagna, inferiore alla metà di esse. La seconda conclusione poi — e con questa adempiamo alla promessa fatta nelle precedenti pagine — è quella che, supposto non contenere la relazione del vescovo Nores nel 1592 nulla di esagerato rispetto alla quantità di Slavi esistenti nella sua diocesi (247), si deve arguire che i provvedimenti presi da questo vescovo per ripristinare nella diocesi l'unità liturgica, continuati poscia dal di lui successore Giovanni X, del quale si è fatto altrove parola, fossero molto energici e ben ponderati, se in poco più di mezzo secolo, e nonostante le grandi difficoltà esistenti, si aveva potuto raggiungere un risultato così splendido. Chi poi negasse questo, dovrebbe convenire che l' «omnes illyrica utantur lingua» della succitata relazione vescovile era semplicemente una frase rettorica adoperata per impressionare la s. Sede, e spingerla a misure energiche, secondo quanto era desiderato dal vescovo. Del vescovato di Pola nulla dice l'Ughelli che a noi interessi, ed il di lui silenzio è molto espressivo, poichè dove ha qualche cosa da raccontare in fatto di liturgia slava, lo racconta volentieri e senza reticenze; e noi già sappiamo che il vescovo Claudio Sozomeno fosse uno dei più zelanti propugnatori dell'unità liturgica, d'accordo in ciò col patriarca d'Aquileia (248), ed ingiungesse anzi nel 1593 al capitolo ed all'arcidiacono di Fiume, di abbandonare nelle sacre funzioni l'uso della lingua slava, e di ripristinare quello della lingua latina già votato da quella comunità colla parte 28 decembre 1444: ordine che, malgrado un' accanita e violenta opposizione da parte del municipio, fu osservato sino al 1848 (249). [245] Il valore storico del silenzio dell'Ughelli è maggiormente confermato dal vescovo Bernardino Corniani. Riportando in appendice al sinodo del decembre 1674 lo stato della sua diocesi, egli dà questo riassunto: t in Dioecesi populi sunt numero 50 millia; 20 millia Itali, alii Illirici, licet ferme omnes italica potiantur lingua» e non fa alcun accenno di una liturgia che si fosse tenuta in lingua vetero-slavonica (250); ed è confermato inoltre dalla relazione del vescovo di Pola, Giuseppe Maria Bottari (251) dell'anno 1701, il quale scrive che la sua diocesi contiene 11 collegiate colla cattedrale, più 43 parrocchie: «che quasi da per tutto si usa la lingua italiana, e solo in qualche villa si adopera la lingua illirica anche nella recitazione corale del divino ufficio, e soltanto nelle messe solenni» (252). E queste ville erano fuori dei confini dell'Istria geografica (253). Della diocesi di Pedena scrive l'Ughelli: «le cose sacre nella maggior parte dei luoghi di quella diocesi si celebrano in lingua illirica per l'imperizia dei sacerdoti nella lingua latina, e per la loro povertà» (254). La povertà delle parrocchie era invero qui ed altrove un grave ostacolo a provvedere le [246] chiese di sacerdoti capaci del loro uflìcio, e costringeva i vescovi ad accettare qualunque persona loro si offrisse. A rendere più agevole ai nostri vescovi l'attuazione del precetto stabilito dal concilio aquileiese, ed il ritorno all'unità liturgica delle loro chiese di campagna, concorse anche la facilità, colla quale la lingua italiana erasi diffusa fra le nuove genti slave, in guisa che già nel secolo XVII essa era compresa in tutta l'Istria da tutti i suoi abitanti. E di fatti, non solo l'Ughelli ci fa sapere che gli abitanti della campagna di 'Capodistria non ignoravano la lingua italiana (255), benchè fra loro usassero lo slavo; non solo il vescovo Bottari riferisce al pontefice che l'idioma usuale in quasi tutti i luoghi della sua diocesi era italiano (256), non solo il vescovo di Parenzo, Lippomano ordinava nel 1605 che alle conferenze pastorali mensili (tenute in lingua italiana) «siano obbligati d'intervenire tutti i canonici ed altri chierici che eccedono l'età d'anni 18, ancora che ofpciassero nella lingua schiava» (257); ma leggiamo pure nella corrispondenza del P. Glavinich (nativo da Canfanaro), intorno ai libri glagolitici, a. 1626: «che lo slavo istriano si era fatto mezzo italiano» (258); e nella responsio del Pastrizio sul valore della parola Illirico, a. 1652: «che nell'Istria vi era una larva di lingua slava» (259). Il vescovo di Parenzo, Del Giudice, dovette [247] far stampare gli atti del sinodo diocesano del 1653 in lingua italiana, affinchè fossero meglio compresi dal clero aco). Che più? gli stessi decreti del primo sinodo diocesano di Ossero e Cherso, tenuto nell'aprile 1660, dovettero essere publicati in lingua italiana «per intelligenza anco dei semplici, e perchè quasi tutti gli ecclesiastici illirici lo intendono» (261). Nè poteva essere altrimenti. Per tutti gli Slavi immigrati nell'Istria durante i secoli XV e XVI, ed in parte del XVII, l'apprendimento della lingua italiana era questione di esistenza materiale e di progresso civile; imperciocchè gl'Italiani disponessero del denaro, del commercio e dell'industria; avessero in mano il governo, le città, le borgate e buona parte delle terre; rappresentassero, in una parola, il potere, la ricchezza e la intelligenza. L'apprendimento della lingua italiana significava per gli Slavi l'abbandono dello stato semibarbaro, in cui si trovavano al loro giungere nelle nostre terre, e l'avviamento ad un grado superiore di cultura e civiltà. Nessuna meraviglia, adunque, se la lingua italiana acquistasse sempre maggiore diffusione nella campagna slava, favorita dal trapasso di molte famiglie dalla costa all'interno e viceversa (262); e se in molte contrade, nelle quali gli Slavi erano dapprima quasi isoli abitatori, si trovassero indi se non soperchiati, almeno eguagliati in numero dagl'Italiani. § XV. Se nel secolo XVII l'unificazione liturgica della nostra provincia e l'avvicinamento delle due razze che allora l'abitavano, fecero tanto rapidi ed importanti progressi, nonostante [248] le grandi diflìcoltà sussistenti, questi progressi divennero ancora maggiori nel secolo susseguente, in seguito all'aumento del clero indigeno, ed al progressivo dirozzamento dei nuovi abitanti della campagna. In questo secolo noi veggiamo infatti ingrandire «/'opera pia e religiosa* dei nostri vescovi e del clero istriano, coll'abbandono della liturgia slava; mitigarsi i costumi delle genti nuove; estinguersi l'avversione che gli Italiani nutrivano verso i nuovi venuti da essi considerati quali usurpatori delle proprie terre (263), iniziarsi, in una parola, l'affratellamento e la fusione delle due razze in un solo sentimento di amore verso la patria comune. E che noi affermiamo il vero, lo comprovano pochi, ma decisivi documenti del secolo XVIII. Il vescovo di Parenzo, Pietro De Grassi, nella sua relazione alla s. Sede 17 novembre 1730 scrive: «i parrochi egli altri ministri vengono istituiti dal vescovo previi i debiti esami, tuttavia con questa differenza che ai parrochi ai quali viene atjìdata la cura d'anime nei castelli e nelle terre, si dà l'esame in lingua latina, quelli che servono per le chiese di campagna è uso invece che sieno interrogati in lingua illirica (264)». E qui non vediamo come e' entri la liturgia glagolitica (265). Si tratta di esami fatti agli uni in latino, agli altri in lingua slava, ed a questi ultimi non perchè ci fosse proprio bisogno di farli in questa lingua, ma perchè era uso — mos est. [249] Negli atti del sinodo diocesano celebrato dal vescovo Vincenzo Maria Mazzoleni nel giugno 1733, dopo l'elenco dei giudici e degli esaminatori sinodali, havvi quello: «di sette esaminatori periti per la lingua illirica» (266); ed il vescovo Vaira nominò li 13 aprile 1713 tre esaminatori sinodali «prò examine idiomate illirico faciendo» (267). Prescindendo dalla proporzione degli esaminatori illirici verso i latini, sette contro ventuno, tre contro undici, l'esistenza di esaminatori e di esaminandi slavi, non include la necessità che gli uni e gli altri celebrassero la s. Messa e gli ujjìci divini in glagolitico? E che ciò sia vero lo prova il fatto che il vescovo di Capodistria Bonifacio Da Ponte, nel suo sinodo del 1779, fra venti esaminatori sinodali scelse tre parrochi delle chiese foranee «acciocchè gli aspiranti alle parrocchie rurali venissero esaminati sulla conoscenza della lingua illirica per vedere se comprendessero la voce del gregge, e questo quella del pastore» (268). Il voler evocare le famose 19 parrocchie glagolitiche del secolo precedente, per giustificare la presenza degli esaminatori periti per la lingua illirica, è un deciso anacronismo. La questione degli esami di concorso parrocchiale è affatto indipendente dalla lingua liturgica. Sappiamo pure dagli atti del sinodo Mazzoleni che gli ordinandi per i quattro ordini minori dovevano «intendere la lingua latina»; i promovendi al sudiaconato dovevano saperla interamente (269), e nè in queste, ne in altre deliberazioni, è fatto [250] verbo di slavo antico o di glagolitico, neppure pel diaconato e pel sacerdozio. Ed anche dove si tratta del seminario (e. 20, p. 57) e della educazione dei chierici, non vi ha parola sui glagolitici. In questi anni, maestro del seminario diocesano era il M. R. P. Vincenzo Maria Balsarini dei Predicatori. Nell'appendice ai sopradetti atti sinodali prescrivevasi poi al capo IV che il libro dei battezzati, quello dei cresimati, dei matrimoni e dei morti dovessero essere tenuti sempre in lingua italiana, facendo eccezione unicamente per quelle località, dove era uso di tenerli in lingua latina (270). E qui mi pare che siamo molto lontani da una diocesi tutta slava e tutta glagolitica, e più ancora da un' Istria tutta slava, tutta glagolitica, come Mons. Volarich si compiace di farla apparire (271). Possediamo pure gli atti del sinodo diocesano di Capodistria, tenuto nel maggio 1722 dal vescovo Borromeo (272). Anche qui sono nominati otto esaminatori sinodali «qui vacantibus parochialibus ecclesiis electos examinent»; e questi otto esaminatori nei loro nomi (273) non rappresentano minimamente una commissione eletta per la liturgia glagolitica. Vi troviamo pure il decreto che i tonsurati agli ordini minori debbano per lo meno intendere la lingua latina (274), e che le [251] ore canoniche e la Messa non possano essere recitate che dal breviario e messale romano (275). Questo sinodo nulla dispone intorno alla lingua in cui dovevano tenersi i registri parrocchiali; sappiamo però da altre fonti (276) che il 28 maggio 1691 il vescovo Naldini ordinava al pievano di Carcauze Don Giorgio Baichino di tenere quind'innanzi i libri parrocchiali in lingua italiana, abusivamente scritti sino allora in lingua slava. Ma il parroco di Carcauze non deve aver obbedito a questa prima intimazione, poichè le matricole ecclesiastiche glagolitiche continuarono in quella parrocchia ancora sette anni dopo, cioè sino al 1706 (277). Nel 1762 un certo Burin, zupano di Momiano, voleva che il vescovo di Cittanova proibisse al prete Brajkovich di celebrare alle domeniche la messa in latino (278), segno adunque che anche quei pochi preti slavi che tenevano curazie slave, avevano abbandonato l'illirico nelle funzioni religiose. Nella diocesi di Cittanova esistono gli atti del sinodo (279) tenuto nell'agosto 1780 dal vescovo Domenico Stratico, e che [252] fu l'ultimo sinodo diocesano della nostra provincia. Anche questi atti forniscono una chiara idea delle condizioni liturgiche di quella diocesi nella seconda metà del secolo XVIII. Dei 67 sacerdoti, onde allora era formato il clero diocesano di Cittanova, sei appena manifestano nel loro cognome l'origine slava. Fra le varie decisioni possono interessare al nostro assunto le seguenti. «I chierici ed i sacerdoti più giovani acquistino perizia della lingua volgare illirica per essere idonei ad amministrare la parola divina, ed affinchè i pochi e tenui proventi delle chiese nostre non vadano distribuiti a gente forestiera, come nascerebbe ove i nostri mancassero di questa condizione (280). Nelle messe conventuali il canto popolare ispiri edificazione. Confermiamo e vogliamo che del tutto si conservi l'uso di cantare in lingua illirica l'epistola e l'evangelio, e le altre cose consuete ad essere annunziate al popolo in questa lingua (281)». La quale ultima decisione è importantissima, perchè comprova che la liturgia glagolitica era già da lungo tempo sparita, ed usitata nella s. messa solenne la lìngua volgare slava soltanto per cantare l'epistola ed il vangelo: in altre parole vediamo già nel secolo XVIII adoperato nelle parrocchie il cosìddetto schiavetto. Lo stesso vescovo Mons. Stratico, nella solenne adunanza tenuta a Cittanova dai Padri terziari per l'elezione del nuovo provinciale nel 1783, diceva loro: «Laonde il glorioso pontefice Benedetto XIV di immortale memorìa, in una sua bolla proibì d'altre traduzioni idiotiche e popolari servirsi, volendo che alla [253] sola norma de' libri dalla Sagra Congregazione approvati, le preghiere si recitassero. Laonde quantunque si tolleri P esposizione dell'Epistola e del Vangelo in volgare illirico, acciocchè il popolo meglio lo intenda, non è però lecito ai sacerdoti illirici tale recitarlo: nò è lecito con quel volgare idioma salmeggiare, benedire e amministrare i Sagramenti (282)». Il vescovo di Pola Bern. Corner scrisse nel 1744 al nunzio apostolico a Vienna S. E. il card. Paulucci, notificandogli che t nella visita pastorale fatta due anni prima in quella parte della sua diocesi che si estende nei domini austriaci, aveva osservato che in molte parrocchie si cantavano in occasione della sepoltura dei defunti, certe preci in lingua illirica, le quali dai periti stessi di quella lingua non erano bene intese» — e gli chiedeva in pari tempo istruzioni prima di procedere contro i sacerdoti eventualmente colpevoli. Portata la cosa per il relativo esame alla congregazione del S. Officio, il nunzio apostolico rescriveva da Vienna il 27 giugno a mons. Corner: «Avendole la S. Congregazione considerate ed esaminate, ha giudicato che debba tollerarsene l'uso, giacchè nulla contengono di superstizioso, ed anche nel riflesso che il divieto di esse potrebbe portare qualche commozione in quei popoli at-taccatissimi alle loro costumanze». Vediamo adunque a che poca cosa si fosse ridotto il rituale illirico nelle stesse parrocchie della contea d'Istria, comprese nella diocesi di Pola. Una preziosa notizia intorno alle parrocchie slave situate nelP odierna diocesi di Trieste-Capodistria è contenuta nella lettera che Mons. Bart. Legat, vescovo di Trieste e Capodistria, scrisse verso il 1857 al professore di Leitmeritz dottor Ginzel (283), l'autore della storia dei Ss. Cirillo e Metodio da noi più volte ricordata. Da quella lettera stralciamo il seguente periodo, riservandoci di darla più avanti tutta intera: «Sino al [254] 1678 era generale l'uso della liturgia slava nelle parrocchie della Liburnia, cioè a Castua, Veprinaz, Lovrana, Moschenizze e Bersez, come lo dimostrano i vecchi messali e brcviarii. I preti in quel tempo venivano per lo più nelle dette parrocchie dalla Dalmazia, e dalle circostanti isole di Cherso e Veglia, e portavano seco il rito slavo e l'istruzione slava che avevano appreso nei seminari slavi. Dopo che a Fiume fu eretto un collegio dei Gesuiti (284), si dedicarono anche giovani indigeni agli studi teologici, e con ciò spari a poco a poco la liturgia slava». Si può chiedere una prova più evidente per dimostrare che la liturgia glagolitica non fu mai pianta indigena nell' Istria, e neppure nella Liburnia; ma che venne importata da preti stranieri, i quali, affatto ignari della lingua latina ed in un grado di coltura molto basso, portavano seco i propri messali slavi, gli unici sui quali sapessero leggere (285)? Si può chiedere prova migliore per dimostrare che quando cessò quella immigrazione di preti stranieri e venne provveduto alle chiese con sacerdoti indigeni, scomparve altresì l'uso della liturgia slava? La verità di queste allegazioni viene confermata da un altro fatto di non lieve importanza per la nostra storia civile ed ecclesiastica. Dopo avere frugato per ogni angolo del paese, ecco la messe raccolta da Mons. Volarich dei cosìddetti glagolitici [255] nell' Istria. A Lindaro un Psaltcrio manoscritto del 1463, a Nugla (presso Rozzo) un messale del 1368, a Rizmanie (presso Trieste) un Missale romanum glagoliticum stampato a Venezia nel 1483, ed infine alcuni libri di minor importanza a Carcauze, ed a Torre (286). Troppo poco adunque per dimostrare col fatto che in tutta V Istria, dai monti al mare, fatta eccezione soltanto delle poche città ecc. si celebrassero, nei secoli XV-XVIII, le funzioni religiose nella lingua slava antica e con messali glagolitici. Se dalla letteratura ecclesiastica passiamo alla civile glagolitica, anche qui la messe è scarsissima. Fu trovata (287) una cronaca glagolitica di Bogliuno dal 1451-1622 che naturalmente emigrò a Zagabria; fu trovato un testamento del parroco di Rakolj [Rakalj] presso Barbana, del 1551; due testamenti del parroco di Barbana Bedrinich, del 1550 circa; la matricola ecclesiastica di Carcauze fino al 1706 (288); poi un urbario glagolitico del 1548 a S. Antonio, uno del 1603 a S. Rocco, uno del 1576 e 1607 a Bolliunz, uno del 1563 ed un altro del 1605 a S. Maria, ed un terzo del 1680 a S. Servolo. E basta (289). Qualunque valore letterario si voglia dare a queste carte, o meglio a questi «documenti del diritto civile glagolitico», come solennemente li chiamano, un fatto vi emerge evidentissimo, ed [256] è quello che queste manifestazioni letterarie glagolitiche finiscono col 1700, e che esse vengono a raffermare quanto abbiamo superiormente dimostrato, essere cioè cessata dopo il 1700, meno rarissime eccezioni, in tutte le parrocchie istriane la liturgia glagolitica. In luogo dei vecchi messali (290), si cominciò già da allora ad usare i cosìddetti Schiavetti, ossia una raccolta di epistole e vangeli (e talvolta di altre orazioni) stampata con caratteri latini e "nella lingua slava volgare. Ed appunto a quest'uso di cantare l'epistola e l'evangelo in lingua slava, servendosi degli Schiavetti, si riferisce la decisione (291) del sinodo diocesano cittanovese del 1780, nella quale si conferma quest' uso, e se ne prescrive anzi la continuazione. Di questi Schiavetti sono bene provvedute tutte (292) le chiese slave dell'Istria; e l'insistere dei nostri vescovi, specialmente nella prima metà del secolo XVIII, sulla provvista ed uso di questo libro, è una conferma indiretta, ma splendida, dell'abolizione di diritto e di fatto della liturgia glagolitica. Mons. Volarich pretende invece che questa liturgia si è mantenuta costante ed inalterata nell'Istria dai tempi dei Ss. Cirillo e Metodio fino ai giorni nostri, e per comprovare la persistenza della .medesima durante tutto il secolo XVIII, non solo in tutta la campagna istriana, ma, allargandone il confine, anche nelle stesse città marittime, sfodera quattro argomenti. I quali sono: (293) - la Miscellanea dèi Pastrizio;
- l'Italia sacra dell'Ughelli;
- un documento cittanovese del 30 aprile 1726; e
- un passo della cronaca del Mainati.
[257] Esaminiamoli particolarmente questi argomenti. Il primo non regge; perchè, come abbiamo già dimostrato altrove, le 19 parrocchie glagolitiche del Pastrizio non sono del secolo XVIII, come Monsignore ha asserito, ma anteriori al 1688. Il secondo argomento sfuma parimenti; perchè quelle notizie riguardanti P Istria, contenute nell'Italia sacra dell'Ughelli, appartengono alla prima edizione dell'opera, anteriore al 1670, e non a quella del 1717, come Monsignore sembra di voler credere. Passiamo ai due ultimi argomenti. Il 30 aprile 1726 il vescovo di Cittanova, Mazzocca, diede il possesso della Chiesa della Beata Vergine del Popolo, fuori le porte della città, al P. Andrea Mechis del terzo ordine di S. Francesco, a condizione che «nella festa del protettore S. Pelagio dovesse venire alla Cattedrale per aggiutar a cantare la Messa in Illirico al signor Pievano di Villanova». Curiosa! A noi sembra essere questo documento il più bell' attestato per dimostrare che a quel tempo non esisteva altra parrocchia illirica nella diocesi emoniense, all'infuori di quella di Villanova, e che, ad eccezione di questo parroco, non si trovava nel 1726 in tutta la diocesi un solo prete che sapesse assisterlo nella messa solenne glagolitica! E lo dimostriamo. Nella diocesi di Cittanova tutti i pievani dovevano portarsi a visitare la cattedrale colle loro croci il giorno di S. Pelagio, che cade il 28 agosto, ed assistere all'ojpcio divino ed alla s. messa, pena una multa in denaro ed altre censure ecclesiastiche (294). Siccome le croci erano seguite da numeroso stuolo di fedeli, e molti di questi erano slavi, afpnchè questi ultimi non rimanessero senza la s. messa proprio nel giorno del protettore, il vescovo di Cittanova faceva cantare in quel giorno nella Cattedrale, com'era vecchia usanza, anche una messa in illirico. Ma chi la cantava? Non un sacerdote del capitolo cittanovano, bensì il pievano di Villanova. Chi lo assisteva?... Siccome in tutto il clero di Cittanova non si sarebbe trovato nell'anno 1726 un solo prete che sapesse assistere il [258] celebrante illiricoj si erano trovati costretti ad infeudare una chiesuola fuori delle porte della città e l'annessovi piccolo convento, occupato nel secolo precedente dai padri domenicani, e da loro poi abbandonato (295), ad un frate terziario slavo, di quelli della provincia della Dalmazia, affinchè il pievano di Villanova non avesse nel giorno 28 agosto a cantare da solo il suo illirico. E, morto questo parroco, non si cantò più in illirico nè a Cittanova il giorno 28 agosto, nè a Villanova stessa. Di fatti il vescovo Stratico se voleva «sentire cantare le divine laudi ed offerirsi l'incruento Sacrifizio in quella lingua, che col latte della nutrice aveva succhiato, e che una serie di circostanze, facendogli abbandonare da fanciulletto la patria e la Dalmazia, gli aveva fatto perdere e dimenticare» doveva recarsi nel convento dei terziari alla Madonna del Popolo fuori delle mura. Lo dice egli stesso (296). A Capodistria, come narra il P. Mainati nelle sue Croniche (297), si celebrava ai suoi tempi ogni mattina di buon' ora in lingua slava la s. messa nella chiesa di S. Tommaso dei rr. pp. del terzo ordine di S. Francesco «per comodità degli operai della campagna». Che frati slavi di un ordine, i cui addetti erano reclutati tra i frati slavi della Dalmazia, celebrassero fuori delle mura di Capodistria di buon' ora la messa in illirico, e che a quella messa mattutina vi assistessero gli operai della campagna, non vuol dire affatto che quest' ultimi fossero tutti slavi, o che la liturgia slava fosse di uso nelle altre chiese della città. Vi è anche oggidì a Trieste una chiesa armena, nella quale si celebrano dai pp. Mechitaristi le funzioni religiose in lingua e rito armeno, e vi assistono numerosi fedeli; ma nessuno dirà perciò che sia armena la città, od una parte della diocesi tergestina. [259] Le parole del Mainati, se non hanno quindi alcun valore positivo, ne hanno invece uno negativo, grandissimo, in quanto che, dopo averci egli detto che a Capodistria si celebrava ogni mattina in lingua slava la s. messa nella Chiesa di S. Tommaso, vi aggiunge: «come io stesso testimonio oculato posso attestare». Adunque la celebrazione di una messa slava in una città istriana era allora, nell'anno 1819, un fatto così eccezionale, che il Mainati stesso era persuaso non gli avrebbero creduto se non avesse aggiunto l'affermazione di averlo veduto egli stesso coi propri occhi! Ricordiamo, del resto, a proposito di questa notizia recata dal Mainati, che la chiesa di S. Tommaso di Capodistria fu distrutta dal fuoco (298) nell'ultimo decennio del secolo XVIII; laonde egli deve aver veduto questa messa slava quando durava ancora la republica veneta, e stavano forse ancorate nel porto di Capodistria quelle fuste schiavone, di cui parla il Naldini. § XVI. La fine del secolo XVIII ed il principio del presente XIX apportarono sensibili mutamenti tanto nella circoscrizione ecclesiastica, quanto nella costituzione politica del nostro paese. Dopo la dedizione del Friuli alla republica veneta, il patriarca di Aquileia, allora residente in Udine, aveva rinunciato per sè e successori al dominio temporale, riservandosi il libero esercizio della sua giurisdizione episcopale e metropolitica. Ma gli arciduchi d'Austria soffrivano malvolentieri che la contea d'Istria dipendesse da un principe ecclesiastico straniero; laonde, dopo lunghe trattative, il pontefice Benedetto XIV dichiarò nel 1751 soppresso in perpetuo l'antico patriarcato di Aquileia, ed eresse in sua sostituzione, nell'anno susseguente 1752, gli arcivescovati di Udine e di Gorizia. Al primo rimasero subordinati i vescovi dell'Istria veneta, (di Capodistria, Cittanova, Parenzo e Pola) al secondo quelli dell'Istria austriaca (di [260] Trieste e Pedena). Maria Teresa insigni nel 1766 l'arcivescovo di Gorizia del titolo di principe dell'impero. Ma l'imperatore Giuseppe II, rimasta vacante la sede arcivescovile di Gorizia, pensò di abolirla, sopprimendo nel medesimo tempo i due vescovati suffraganei di Trieste e Pedena. Il pontefice, assecondando questi disegni di accentramento, formò nel 1788 delle tre diocesi una sola, costituendo con queste il vescovato di Gradisca subordinato all'arcivescovo di Lubiana. Neppure questa circoscrizione ecclesiastica durò a lungo; poichè dopo la morte di Giuseppe II fu sciolta nel 1791 la diocesi di Gradisca, ripristinata quella di Trieste, e ricostituito un vescovato a Gorizia. Quello di Pedena però rimase soppresso, ed incorporato alla diocesi di Trieste. Così si rimase sino dopo il dominio francese, cioè sino all'anno 1819, in cui i vescovati di Capodistria, Cittanova, Parenzo e Pola, che fino allora erano stati suffraganei dell'arcivescovo di Udine, passarono sotto la giurisdizione metropolitica del patriarca di Venezia, e vi rimasero sino al 1830. In quest'anno il vescovato di Gorizia fu inalbato ad arcivescovato, e quindi costituito metropolita dei vescovati di Lubiana, di Trieste-Capodistria, di Parenzo-Pola e di Veglia, dopochè nel 1830 a Parenzo era stata aggiunta la diocesi di Pola, ed unite al vescovato di Trieste nel 1831 la diocesi di Cittanova, e nel i832 quella di Capodistria. Il vescovato di Veglia, cui fu incorporato quello di Ossero, venne staccato nel 1831 dall'arcidiocesi di Zara dalla quale dipendeva sino dal 1146, e sottoposto a quella di Gorizia. In riguardo politico, cessata la republica, e per la pace di Campoformio passata all'Austria nel 1797 l'Istria veneta, questa formò una provincia a sè col nome d'Istria austro-veneta sino al 1 maggio 1803 in cui fu convertita in capitanato circolare, e sottoposta al governo di Trieste, senza però mutare la ripartizione territoriale veneta in città, terre e baronie, cogli annessi diritti e privilegi. Nel decembre 1805, per la pace di Presburgo, l'Istria già veneta passò al regno d'Italia, di cui divenne parte quale dipartimento d'Istria. Per la pace di Vienna del 1809 la rimanente porzione del Litorale, cioè il Goriziano sulla sinistra dell'Isonzo, Trieste e la [261] contea d'Istria, passarono a Napoleone I, che nell'anno susseguente 1810 incorporò questi territori e l'Istria veneta nelle province illiriche dell'Impero francese, dividendole in due parti; l'Istria veneta, Trieste ed il Goriziano formarono una delle sette province illiriche col titolo Intendenza d'Istria e col capoluogo Trieste; l'Istria austriaca invece fu unita (assieme al Litorale ungarico, al territorio di Fiume, alla Croazia civile ed alle isole di Veglia, Cherso, Lussino ed Arbe sino allora aggregate alla Dalmazia) ad un' altra delle dette province illiriche, cioè alla Croazia civile colla capitale Carlstadt. Nel 1811 l'Imperatore tolse alla Croazia civile quella parte dell'Istria già austriaca che trovasi al di qua del Monte Maggiore, e la congiunse coll'Intendenza dell'Istria. Ma questa ripartizione territoriale fu di breve durata per l'incalzarsi degli avvenimenti. Nell'autunno del 1813, il Litorale venne occupato dalle armi austriache. Fu allora stabilito qual limite fra il Goriziano e la Venezia il confine dell'Aussa e del Judri, che perdura anche oggidì. Quindi col paese fra l'Aussa, il Iudri ed il Quarnero venne costituita la provincia del Litorale amministrata dall'i. r. Governo in Trieste, e divisa in 3 circoli; di Gorizia, di Trieste e di Fiume. Il circolo di Gorizia comprendeva le odierne contee di Gorizia e Gradisca, ad eccezione dei distretti meridionali di Monastero (Aquileia), Monfalcone, Duino e Sessana. Il circolo di Trieste comprendeva il territorio fra l'Aussa e l'Arsa, cioè i sopradetti quattro distretti, più la maggior parte dell'Istria già veneta, coi distretti di Pola, Dignano, Parenzo, Buie, Montona, Pinguente, Pirano e Capodistria. Il circolo di Fiume in quella vece, oltre a Fiume ed al suo territorio, comprendeva il distretto di Albona (già Istria veneta), i distretti di Pisino, Bellai, Castua, Lovrana e Volosca (già Istria austriaca), coll' aggiunta del distretto di Castelnovo (già parte della Carsia subordinata alla Carniola) e delle isole di Cherso. Lussino e Veglia. Nel 1822, in seguito ad istanza della nazione ungarica, il circolo di Fiume andò sciolto; Fiume ed il suo territorio furono uniti all'Ungheria, mentre dei distretti istriani di Albona, Bellai, Pisino, e dei territori di Castelnovo, Castua, Lovrana, Volosca e delle isole del Quarnero si compose provvisoriamente il circolo di Pisino, questo pure subordinato all'i. r. Governo di Trieste. [262] Nel 1825 furono nuovamente modificati gli assetti territoriali delle nostre province, onde i distretti di Monastero, Mon-falcone, Duino e Sessana vennero staccati dal circolo di Trieste e dati a quello di Gorizia; Trieste col suo territorio costituì un distretto, amministrativamente autonomo, retto dalla Magistratura municipale sotto la vigilanza immediata dell'i, r. Luogotenenza per il Litorale; mentre l'altra parte del circolo di Trieste, cioè i distretti di Pola, Dignano, Rovigno, Parenzo, Buje, Montona, Pinguente, Pirano e Capodistria, ed il circolo provvisorio di Pisino, cioè i distretti di Albona, Pisino, Bellai, Castua, Lovrana, Volosca, Castelnovo, Cherso, Veglia e Lussino, fusi in un solo circolo, formarono sino al 1860 il circolo d'Istria colla sede a Pisino. Col diploma imperiale 20 ottobre 1860 fu soppresso il circolo d'Istria, dai cui distretti venne formato, colla Patente imperiale 26 febbraio 1861, il marchesato d'Istria colla Dieta provinciale a Parenzo. Con questi mutamenti non solo venne cangiato completamente l'assetto territoriale della nostra provincia, ma furono altresi falsate e snaturate le sue condizioni etnografiche, essendo stati aggregati all'Istria alcuni territori, che per condizioni geografiche, per storia, lingua, istituzioni ed interessi materiali, nulla avevano avuto od avevano con lei di comune; e viceversa furono da lei separati altri territori, che per tutte queste ragioni avrebbero dovuto rimanervi congiunti. Di fatti, prendendo a base del nostro calcolo l'anagrafe ufpciale del 31 decembre 1890, oggi, se unica norma fosse stato il diritto stòrico e naturale, coli' unione del marchesato e della contea, l'Istria avrebbe formato una provincia la cui popolazione sarebbe di 220.000 anime, delle quali (pertinenti) 109,625 Italiani, 22,997 Sloveni, 82,910 Serbo-Croati, 5,504 di stirpi diverse. A questa popolazione storicamente e veramente istriana per diritto e per fatto vi è aggiunta dal 1825 in poi, tra Liburnici ed Isolani, altra popolazione di 90,395 persone, delle quali 9,346 sono Italiani, 21,780 Sloveni, 58,276 Serbi o Croati e 996 di nazionalità diverse; restando per lo contrario staccati dall'Istria Trieste ed il suo territorio, che contano 155,500 abitanti, cioè 119,600 Italiani, 26,200 Sloveni, ed 8,500 di altre [263] stirpi, malgrado che Trieste appartenga geograficamente all'Istria, ne abbia fatto politicamente parte integrante fino al i382, sia stata la sua capitale dal maggio 1803 al decembre 1805, poi dal 1810 al 1861, in cui fu istituita la Dieta provinciale colla sede a Parenzo, e sia virtualmente considerata tale anche oggidì, risiedendo ivi i supremi dicasteri provinciali dello Stato, ed ivi concentrandosi pure i maggiori interessi materiali della provincia. § XVII. Se la liturgia slava cessò quasi completamente nell'Istria durante il secolo XVIII, non v' era ragione che essa dovesse risuscitare nella prima metà del presente secolo. E che in questa prima metà del secolo, in nessuna parrocchia, in nessuna chiesa dell'Istria, grande o piccola, publica o privata, si celebrasse in lingua slava, e meno ancora in glagolitico, lo dimostrano i seguenti due documenti, che qui riportiamo nella loro integrità. Alla domanda direttagli dal'dott. Ginzel, * il noto autore della storia dei Ss. Cirillo e Metodio, sulla diffusione della liturgia glagolitica nella diocesi di Trieste-Capodistria, Mons. Vescovo Bartolomeo Legat, gli rispondeva (299): «Feci le necessarie indagini in quanto la liturgia slava siasi mantenuta in qualche località della mia diocesi, e su quanto è noto in tale proposito. Le notizie sono molto difettose: dai libri battesimali, da quelli dei morti e dei matrimoni si può soltanto rilevare che fino all'anno 1678 la liturgia slava era universalmente usata nelle parrocchie della Liburnia, cioè a Castua, Veprinaz, Lovrana, Moschenizze e Bersez, come lo dimostrano gli antichi messali e breviari. I preti in quel tempo venivano per lo più dalla Dalmazia e dalle circostanti isole di Cherso e Veglia, nelle parrocchie sopra nominate, e vi portavano il rito slavo e l'istruzione slava che a loro era stata [264] impartita nei seminari slavi, come fino a' nostri tempi ne esisteva uno a Zara. Dopo che a Fiume fu istituito il collegio dei Gesuiti, anche giovani del paese si dedicarono agli studi teologici, e così venne a poco a poco a sparire la liturgia slava. Presentemente havvi l'uso in quasi tutte le pievi dell'Istria ex austriaca, (non della ex veneta) che nei giorni festivi e domenicali l'epistola e l'evangelio vengono cantati nella messa dal prete in lingua slava: anche dalla vicina diocesi di Segna, dove' è comparso coli'approvazione di quel vescovo nel 1824 un libretto apposito, è penetrato l'uso nelle nostre contrade, lungo la costa liburnica, di cantare in slavo, oltre all'epistola ed all'evangelio, anche le orazioni e la prefazione: ma oggigiorno il rito latino è da per tutto in aumento». Ad analoga domanda sulla diffusione della liturgia slava nella diocesi di Parenzo-Pola, Mons. Gollmayer arcivescovo di Gorizia rispondeva (300) al dott. Ginzel: «Nelle unite diocesi di Parenzo-Pola, che appartengono alla provincia ecclesiastica di Gorizia, in seguito a dichiarazione del reverendissimo ordinariato, in nessun luogo è usato il glagolitico nel servizio divino (301)». § XVIII. Senonchè le cose principiarono a mutare dopo il memorabile 1848, in cui al risveglio del sentimento italiano fu contraposto, per ragioni politiche, la idea slava. E dopo d'allora l'agitazione slava, crebbe gradatamente nell'Istria, capitanata da buona parte del clero forestiero, con grande detrimento della religione e della publica pace. È noto come i capi di questo [265] movimento si prefiggono il compito, e non tengono a celarlo, di staccare l'Istria dal nesso delle province austriache per aggregarla al regno di Croazia, benchè colla Croazia l'Istria non abbia mai avuto relazione, o dipendenza di sorta, dalla creazione del mondo in poi (302). Ma assieme al movimento politico, parallelo a questo ed in suo sostegno, si andava disponendo e preparando anche un movimento religioso. Di mano in mano che i seggi restavano vacanti nel capitolo cattedrale di Trieste, venivano chiamati a coprirli preti slavi, e di preferenza stranieri alla nostra provincia: in guisa che nella città di Trieste, nella quale su 120,000 abitanti non si numerano un migliaio di Slavi, in una diocesi che su 324,000 fedeli conta 180,000 Italiani, nel 1891 su 14 canonici, che fra effettivi ed onorari costituivano il capitolo della cattedrale di S. Giusto, uno solo, e semplicemente canonico onorario, era istriano-italiano, oriundo da Pirano; mentre gli altri erano tutti slavi: anzi la maggioranza — otto di essi — neppure di Slavi appartenenti alla diocesi triestina od alla provincia dell'Istria, ma Slavi oriundi dalla Carniola, e carniolico anche il preposito. E mentre questa evoluzione in senso slavo si andava effettuando nel capitolo della cattedrale, cioè in quel consesso cui spetta a fianco del vescovo la direzione suprema delle cose ecclesiastiche, non si ristava dal guadagnare pei bisogni della diocesi una falange di preti da tutte le province dell'impero austroungarico; talmente che vediamo figurare nello Stato personale [266] del clero di quell'anno, 92 preti oriundi dalla Carniola, 14 dalla Carsia, 5 dalla Dalmazia, 5 dalla Croazia, 6 dalla Stiria, 2 dalla Moravia, 1 dalla Polonia e 16 dalla Boemia (303). E di rincontro a tutta questa moltitudine di preti slavi figurano soltanto 71 sacerdoti italiani, dei quali 19 nell'età tra 62 ed 80 e più anni, sopra la totalità di 202 sacerdoti in cura d'anime. Nella diocesi di Parenzo-Pola le cose stanno bensì alquanto meglio, non tanto però da rallegrarsene gran fatto. Il capitolo della cattedrale rimase tutto composto di sacerdoti istriani, e dei quattro canonici onorari uno solo è oriundo da Fiume. Ma qui pure furono fatti venire molti preti stranieri da province slave. Lo Stato personale del clero dell'anno 1892, che abbiamo sott'occhio, ci dà 22 sacerdoti carniolici,. 11 dalla Boemia, Moravia e Polonia, ed altri 23 di altra provenienza, sopra la totalità di 81 sacerdoti in cura d'anime (304). Orbene, questi preti che non avevano nessun legame di origine e di affetto col nostro paese, furono distribuiti nelle cure di campagna, ed allora cominciò qua e là, particolarmente da parte del giovine clero importato, la sostituzione della liturgia slava alla liturgia latina, la sostituzione non della liturgia glagolitica, ma della croata, ad onta della chiara ed esplicita ingiunzione della bolla (305) del pontefice Benedetto XIV «Ex pastorali munere» 15 agosto 1754, tanto di frequente invocata in proprio favore dai capi di questo movimento politico-religioso. Le curie vescovili, cui sarebbe stato obbligo d'impedire subito questa innovazione, fecero mostra di non vedere e tacquero; la curia di Trieste, retta da Mons. Dobrila, fervente slavista, anzi la favorì, paralizzando con ciò l'azione della curia parentina, che non osò di opporsi a tale novità con franchezza e coraggio, per riguardo a quanto avveniva nel!' altra diocesi. [267] E qui ci cade in acconcio di occuparci alquanto distesamente dei vari progetti che si succedettero per istituire nell'Istria un collegio-convitto diocesano, avente per iscopo la preparazione del giovine clero egualmente capace a sodisfare ai bisogni spirituali della popolazione italiana e slava, ritornando così sulle orme calcate da tanti altri benemeriti vescovi istriani, cui i tempi nefasti, e la povertà delle rispettive diocesi, non avevano permesso di fondare durevolmente una simile istituzione. L'iniziativa del progetto è dovuta al vescovo Legat di Trieste-Capodistria, il quale «come vescovo, e come istriano per adozione e per sentimento» presentava alla Dieta provinciale dell'Istria, nella seduta 24 marzo 1863, la proposta di: (306) «erigere a Capodistria colla spesa di fior. 30000 apposito fabbricato peli'istituzione di un collegio-convitto capace a contenere 100 persone, compreso il personale di sorveglianza e di servitù, in cui raccogliere scolari che studiano a quel ginnasio, onde dare loro, in aggiunta alla istituzione che ricevono nelle varie materie d'insegnamento, anche un' educazione sociale, morale e religiosa, qualunque sia poi lo stato cui vogliano essi in seguito dedicarsi». E l'illustre prelato, continuando nella motivazione della sua proposta, soggiungeva: «Ma più assai che la chiesa, più assai che la famiglia, ne soffre la provincia. La chiesa si ajuta coll'affigliarsi sacerdoti di altre diocesi, le famiglie danno ai loro figli un' altra destinazione, ma la provincia perde l'aspiro ad avere propri sacerdoti, propri impiegati, a vedere ogni comune fornito di persone probe ed intelligenti che possano bene amministrare le sostanze, e degnamente rappresentare i pubblici interessi. Non credo d'ingannarmi se dico che la sociale e morale rigenerazione dell'Istria dipende dall'erezione del collegio-convitto, che da me si propone. Io considero questo convitto come il primo bisogno della provincia, ed il più bel giorno della mia vita sarà quello, in cui potrò vederlo attivato». [268] Accettata in massima dalla Dieta provinciale la proposta di Mons. vescovo, questa naufragava poscia per cagione d'insormontabili difficoltà finanziarie. Più tardi, ossia nella sessione del 1866, la Dieta lasciava l'incarico alla Giunta provinciale di trattare coi comuni per la cessione della somma di fior. 34000 dal capitale delle soppresse Confraternite ex-venete per la erezione del collegio-convitto in Capodistria. Senonchè le trattative incamminate dalla Giunta provinciale non condussero allo scopo desiderato: molti comuni negarono assolutamente la cessione della propria quota di capitale; altri la vincolarono ad inaccettabili condizioni onerose; ed altri, infine, non risposero alla domanda (307). E così tramontava anche il secondo progetto d'istituire in Capodistria, coi mezzi provinciali, un collegio-convitto diocesano per l'Istria continentale, appoggiato alla sorveglianza del vescovo di Trieste. Frattanto aumentava sempre più la mancanza di clero nella diocesi di Parenzo-Pola, e maggiormente ancora in quella più vasta di Trieste-Capodistria. Sotto l'impulso di questo bisogno, Mons. Dobrila, divenuto nel 1875 vescovo di Trieste-Capodistria, publicava in data 20 aprile 1878 (308) un appello ai suoi diocesani per l'istituzione, [269] mediante caritatevoli offerte, di un collegio-convitto diocesano. Trieste, generosa come sempre, rispose all'appello con numerose contribuzioni di denaro; l'Istria, ossia quella parte di essa che è compresa nella diocesi di Trieste-Capodistria, non se ne diede quasi per intesa, ed aveva le sue buone ragioni per comportarsi così. In questo mentre Mons. Glavina veniva ad occupare, nell' ottobre 1878, la sede parentina, lasciata vacante tre anni prima dal vescovo Dobrila, ed alla cui soppressione quest'ultimo si era nel frattempo invano affaticato. Ammiratore delle esimie virtù di Mons. Legat, che spesso nominava, appellandolo suo padre e maestro, Mons. Glavina fece subito suo il di lui progetto d'istituire in Capodistria un collegio-convitto, destinandolo però ad accogliervi solamente i giovani della propria diocesi. Ed effettivamente, ciò che non era riuscito agli altri vescovi, riusciva a lui completamente, mercè il pronto ed efficace appoggio del clero, dei secolari, dei comuni, e della Giunta provinciale. Il convitto si aperse colà nell'anno scolastico 1880-81, con 11 convittori, io italiani e 1 di nazionalità slava, frequentanti quell'i. r. Ginnasio superiore italiano. Questo [270] pronto ed insperato successo riempiva di sommo gaudio l'animo del vescovo, che ringraziando caldamente con lettera 4 agosto 1881 coloro che con larghezza di contributi avevano concorso a favorire una istituzione così santa e pia, prorompeva nelle parole: «Vi sia di legittimo compenso, più che la profonda riconoscenza della Chiesa cui veniste in soccorso, la coscienza di favorire eminentemente la moralità, t il progresso, il benessere dei nostri amati comprovinciali, che nella religione cresciuti siccome nel primo dovere, in essa quale- prima fonte di bene vanno a rintracciare il riposo, quando vogliono un conforto, un sollievo fra le tante tribolazioni» (309). L'«Edinost», giornale slavo che si publica a Trieste, montò per questo fatto su tutte le furie, ed assaltò il vescovo Glavina in una serie di articoli, accusandolo di favorire in queste parti e promuovere le aspirazioni italiane, e denunziandolo al Governo, alla Chiesa, ed alla popolazione slava, come reo di felonia! Monsignore non si commosse allora di queste stolte accuse e calunnie, ma proseguì imperterrito l'opera pia incominciata con tanto plauso dei suoi diocesani; e quando cambiò questa sede episcopale con quella di Trieste, prendeva congedo dal capitolo e clero della cattedrale di Parenzo, nel giorno 27 luglio 1882, colle seguenti nobilissime parole: «Quello che mi conforta si è, che lascio un anello di congiunzione: il convitto diocesano. Io non conosco nell'amore predilezioni di confine; continuando ad amare questa diocesi col vivo inalterabile affetto presente, là, nel convitto diocesano, s'incontreranno, spero, i nostri cuori, come s'incontravano finora le sollecitudini e le cure (310)». Non andò guari però che questo anello si spezzasse, nè importa di addurne ora i motivi. Questo solo diciamo, che [271] la buona semente deposta nel terreno dal vescovo Glavina colla creazione del collegio-convitto in Capodistria, crebbe ad albero rigoglioso sotto le paterne cure dell'attuale vescovo Mons. Flapp, trovandosi il convitto al presente collocato in ampio edifizio cji proprietà dello stesso fondo diocesano, provveduto con molta decenza di tutto il necessario corredo, governato internamente dalle Suore del III Ordine di S. Francesco della Congregazione di Padova, ed amorevolmente diretto e sorvegliato (311). Il convitto, sebbene istituito, come si disse poc'anzi, per la diocesi di Parenzo-Pola, accoglie eccezionalmente anche giovani oriundi da quella di Trieste-Capodistria, anzi ne è tanta la estimazione che gode in provincia, che molte famiglie considerano come un atto di specialissimo favore loro fatto, se possono ottenere dalla curia parentina l'accoglimento nel convitto dei figli che mandano a studiare a quel ginnasio, e generale ne è il desiderio del suo ampliamento. Il convitto accoglieva in quest' anno 57 studenti ginnasiali, dei quali 5 di nazionalità slava, e gli altri italiani. Dal tempo della sua istituzione, esso ha dato alla diocesi 9 sacerdoti, ed altri 6 attendono allo studio teologico nel seminario centrale di Gorizia. Dopo questo precedente era da sperare che Mons. Glavina, traslatato nel 1882 alla sede episcopale di Trieste, facesse altrettanto per quella diocesi, comprendendo nello stesso amore tanto gì' Italiani quanto gli Slavi, affidati alla sua pastorale custodia. Ma grande ne fu invece per gì' Italiani la delusione. Perocchè il convitto da lui aperto a Trieste nel 1883, colle contribuzioni dei triestini, e col lascito del vescovo Dobrila, (312) ammassato [272] per ventiquattro anni sulle rendite delle mense vescovili di [273] Parenzo e Trieste, non dotate per certo dagli Slavi, e rispettivamente di due diocesi, la cui grande maggioranza è [274] costituita dagl'Italiani, (313) siasi appalesato subito come un atto nemico a quest' ultimi, e contrario al tenore dello stesso appello del vescovo Dobrila da noi riportato nella precedente nota n. 308. Quel convitto, slavo nella sua istituzione, e tedesco nella lingua d'istruzione, ben può servire infatti ai bisogni dei 136.000 Slavi, e dei 7600 tedeschi della diocesi tergestina, ma non per certo anche a quelli dei suoi 180.000 Italiani, dei quali non si è tenuto conto, come se non esistessero affatto. Per corrispondere alle esigenze del convitto triestino è necessario che colui che vuole esservi accettato, conosca la lingua slava e la tedesca; e siccome ivi tutto è slavo: lingua usuale, letture, aspirazioni e feste, così ne conseguita che la gioventù italiana vi rimanga necessariamente esclusa. E l'ostracismo dato agl' Italiani che si sentono vocati al sacerdozio, appare tanto maggiormente ingiustificato, inquantochè, mentre nel convitto parentino è fatto obbligo agi' Italiani sussidiati dal fondo diocesano di apprendere la lingua slava, (314) altrettanto non [275] avviene nel convitto triestino peli' apprendimento della lingua italiana, di quella lingua che, voglia o non voglia, è la principale nella diocesi triestino-capodistriana, ed alla quale intimamente si collegano le più antiche ed illustri memorìe delle due chiese episcopali. Il convitto ricetta in quest' anno 30 allievi, che frequentano il ginnasio tedesco dello Stato. Non .sappiamo quanti sacerdoti abbia dato sinora quel convitto; quello che è certo però si è che il clero italiano va sempre più diminuendo di numero, come ce lo dimostra lo «Stato personale» del corrente anno 1893, dal quale si rileva che di 52 alunni che studiano teologia nel seminario centrale di Gorizia, 18 soltanto sono italiani, od almeno dichiarano di esserlo, dei quali ben nove uscirono dal ginnasio di Capodistria. e fra questi, due dal convitto diocesano di Parenzo-Pola. Dopo tutto ciò è ben singolare l'affermazione della curia triestina, fatta in atto publico, che gì' Italiani rifuggono dal sacerdozio, e che non è quindi sua colpa, se essa non si trova in grado di provvedere di clero italiano alle chiese di Trieste. (315)! § XIX. Dinanzi a questi fatti, ed all'introduzione in diocesi, oltre ai preti carniolici già di vecchia conoscenza, anche di una numerosa schiera di chierici fatti venire dalle parti slave della Boemia e della Moravia — primo esempio nella diocesi tergestina di tonsurati calati giù da quelle lontane regioni — non poterono restare indifferenti i legali rappresentanti della città di Trieste; ed il suo Consiglio nel di 29 decembre 1886, dopo avere udita l'esposizione di tutti i fatti che richiedevano imperiosamente l'intervento dei publici poteri contro il procedere della curia triestina, votava la seguente risoluzione (316): [276] «Il Consìglio della città ravvisa nel complesso dì codesti atti una manifesta opera di propagazione dello slavismo, non compatibile coll'uffìcio della Curia vescovile, dannosa alle nostre scuole, del pari che alla religione ed al governo della publica cosa, ingiusta verso i giovani italiani che si vogliono dedicare alla professione sacerdotale, pericolosa alla pace ed al benessere della città, offesa gravissima al carattere nazionale del paese, al sentimento de' suoi abitanti ed alle forme del secolare suo incivilimento.Epperò il Consiglio della città altamente protesta contro il complesso di codesti atti, e nel mentre si riserva di provvedere entro il limite dei mezzi e delle sue attribuzioni, incarica l'illustrissimo sig. Podestà di dar atto della presenta risoluzione tanto all'i. r. Governo, che alla Curia vescovile». Alla protesta del Consiglio di Trieste si associarono i municipi istriani di Capodistria, Pirano, Isola, Muggia, Buje, Cittanova e Portole, compresi ancor essi dal ben giustificato timore di vedere in breve deserte le loro chiese di clero proprio italiano, ed affidate invece al governo di un clero esotico, ignaro della lingua italiana, politicante per mestiere, e seminatore di lotte e discordie nel paese disgraziatamente chiamato ad ospitarlo. La curia tergestina non mutò per questo di una linea la sua condotta: i preti slavi continuarono a fanatizzare la gente, a spadroneggiare nelle loro parrocchie, sostenuti da giornali che pretendono dettare leggi inappellabili intorno alla lingua liturgica, e non si arretrano dal vilipendere le persone rivestite di sacro carattere, e persino il sommo pontefice (317), ogni qualvolta li stimano avversi ai loro conati settari. [277] Quest' anarchia liturgica dovuta a preti stranieri e fanatici, questi mutamenti arbitrari nella lingua delle sacre funzioni, introdotti da chi non ne aveva alcun diritto, raggiunsero negli ultimi anni tale gravità ed estensione che l'arcivescovo metropolita di Gorizia ed i suoi suffraganei, i vescovi di Lubiana, Trieste, Parenzo e Veglia, s'indussero a publicare il 26 novembre 1887 al clero della provincia metropolitica di Gorizia una Lettera pastorale in cui si legge (318): «Quei venerandi misteri, che un tempo la Chiesa sottraeva ai profani colla sua «disciplina dell'arcano» oggi si traggono da costoro sulla publica piazza, per esporli al capriccio della nazionalità e della politica. Oggi vogliono regolare la liturgia uomini, di cui si sa pubiicamente che, o non si curano affatto delle leggi ecclesiastiche, 0 che sono nemici dichiarati della Chiesa cattolica!«Un tempo uomini santissimi, tutti zelo per la gloria di Dio e ripieni di Spirito Santo, pronti a dare la vita per la salute delle anime, non trovarono alcun ostacolo nella lingua straniera della liturgia per dilatare il regno di Dio sulla terra e ben radicarlo nel cuor dei fedeli, ed oggi vengono ad avversare questa lingua coloro che non solo non favoriscono la Chiesa cattolica ma l'impugnano colla parola e cogli scritti e ardiscono perfino di minacciare che non le presteranno ubbidienza, se non si asseconderanno i loro desideri... «Noi solennemente condanniamo il procedere di costoro, che espone a gravissimo rischio l'ordine e la disciplina della Chiesa. Se neppure i Vescovi possono fare innovazioni nella sacra liturgia, essendo questo un diritto esclusivo della Sede Apostolica, come si può tollerare che uomini privati, sieno essi sacerdoti o laici, s'intromettano in cose che a loro in nessun modo appartengono? «Dobbiamo pur condannare V opinione di coloro che credono dover la Chiesa far dipendere la sua istituzione e la sua liturgia dalle opinioni mutabili degli uomini secondo i desideri politici e nazionali dei tempi ecc. [278] «Se uno la pensi altrimenti, assoggetta la Chiesa all'umano capriccio, nega l'indole sovranaturale di lei e fa della creatura, sia pure una nazione, un nume divino. Questo è un pensare alla maniera dei protestanti, i quali risguardano i loro superiori come delegati del popolo da cui essi ricevono la potestà e quindi possono anche esigere che il governo ecclesiastico risponda ai loro voti nazionali e politici e da questi prenda la norma d'operare. Laonde ognuno intende essere Nostro dovere di alzar la voce con tutta l'autorità e podestà del Nostro ministero pastorale contro queste aggressioni, che sia pei principi, su cui si fondano, sia pel modo con cui si fanno, tendono a far della Chiesa una serva degli umani capricci, a distruggere la fede del popolo, a rompere il vincolo che ci unisce col Romano Pontefice, costituito da G. C. Capo della Chiesa, a rovesciare la disciplina ecclesiastica, a far dipendere il magistero, la registrazione e il diritto di giudicare nelle cose ecclesiastiche dalla publica o privata opinione. «Del resto non è certo benemerito della sua patria chi semina discordie, e turba la pace religiosa. Chi anzi più di costui fa danno alla sua nazione, che sconvolge tutte le leggi del vero progresso? Qual maggior nemico di chi ora ocultamente, ora publicamente, ma sempre coli' animo più ostile cerca d'aggredire l'unità della fede cattolica, di rilassare i vincoli tra sacerdoti e i fedeli, d'allontanare il popolo dalla fede e dai suoi precetti»? Sante parole, precetti veramente cristiani! La storia ci dirà però se i vescovi che firmarono quella Lettera pastorale, vollero e seppero farla rispettare dal loro clero, o se invece continuarono a tollerare, come per lo innanzi, quella corrente liturgica, che eglino non avevano voluto, o potuto, a tempo infrenare. Finora, lo possiamo dire, la Pastorale dei vescovi rimase lettera pressochè morta; dappoichè, meno rare eccezioni, in tutte quelle parrocchie nelle quali la liturgia slava venne abusivamente introdotta per iniziativa dei singoli sacerdoti, e senza il permesso dei vescovi e tanto meno poi del sommo pontefice, questa liturgia continua ancora ad essere usitata, nonostante che anche il nunzio apostolico in Vienna avesse ordinato ai vescovi colla circolare 11 maggio 1887 «di respingere qualsiasi [279] domanda che gli Slavi presentassero per ottenere propria liturgia, mancando essi di ogni diritto in tale proposito (319). L'obbiettivo dei capi settari slavi è chiarissimo: essi vogliono creare un fatto compiuto, introdurre cioè a viva forza in tutti i luoghi di nazionalità slava, o mista, la liturgia slava; e dopo avere fanatizzate le popolazioni per l'idea nazionale panslavista, dopo averle abituate alla nuova lingua liturgica, e fatto credere che la medesima formi parte intangibile del loro patrimonio nazionale, e sia arra per esse di grandi destini futuri, e vessillo di lotta contro le altre nazionalità, dichiarare alla Curia romana, od a chi per essa: confermateci i nostri riti, la nostra liturgia croata, sia essa pure illecita per origine, e lesiva i diritti e le tradizioni delle altre nazionalità che dimorano sul medesimo suolo; se no, e' è la santa Russia che ci attende a braccia aperte. Questo non è un secreto per nessuno. Di questa minaccia fa cenno con chiare parole la Lettera pastorale ricordata più sopra. Che tale sia lo scopo cui tendono, riesce ancor più evidente dal seguente fatto. In una chiesa curata su quel di Pola, era stato sempre costume di tenere le sacre funzioni in lingua latina. Ma nel 1888 l'amministratore parrocchiale (320), oriundo carniolico, malgrado il numero rilevante d'Italiani che vivono in quella parrocchia ed il malcontento di molti fra gli stessi Slavi (321), introdusse di proprio arbitrio la liturgia slava. Mesi or sono il detto amministratore ripristinava nella s. messa, e [280] nelle altre funzioni sacre, la lingua latina, conr era prima del 1888. Non lo avesse mai fatto! I giornali slavi si scatenarono contro di lui con una violenza inaudita, designandolo quale traditore della santa causa, e malcurante gl'interessi dell'oppresso popolo slavo; e quello stesso onorevole deputato dei comuni rurali che inventò la fiaba della zupania di Pesenta in Istria, dirigeva a mons. Vescovo di Parenzo il io aprile 1893 una lettera aperta, inserita nel «Diritto croato» (322), in cui, dopo avere svisato a suo modo i fatti, continua: «Ella, illustrissimo Monsignore, non può come persona dotta ignorare che la popolazione croata in Istria ha diritto che la lingua nazionale venga conservata e rispettata nella Chiesa almeno nella misura in cui qua e là si mantenne in uso fino ai tempi più recenti.«Mi rivolgo pertanto qui publicamente a Vossignoria nella speranza che vorrà interdire in forma solenne simili cambiamenti. È male senza dubbio, Reverendissimo Monsignore, che in molti luoghi dell'Istria il gregge sia senza pastore, ma sarebbe ancor peggio se un giorno i pastori avessero a rimanere sen\a gregge». Ecco la sfida lanciata publicamente con impertinente linguaggio, da uno che hanno messo a figurare tra' capi della propaganda slava nell'Istria, a Mons. vescovo di Parenzo, e con lui a tutti i vescovi che firmarono la Lettera pastorale del 1886. O piegatevi alla nostra volontà; o ben sapremo noi emanciparci dalla vostra autorità ecclesiastica. Ed il redattore del «Diritto Croato» (323) intervenuto a Pietroburgo ai festeggiamenti pella ricorrenza del 25.mo anniversario della Società di beneficenza slava, dopo avere inneggiato alla santa Russia, parlava in questi termini: «Pur troppo la religione ancora ci divide: i croati e gli sloveni che hanno in origine ricevuto il cristianesimo dai primi apostoli degli slavi [281] Cirillo e Metodio, sono successivamente passati, sotto la oppressione dei latini, nel dominio della chiesa occidentale... Appena dopo che il culto divino verrà esercitato in tutte le chiese degli slavi occidentali nella lingua dei nostri maggiori, noi ci avvicineremo al santo ideale di formare un solo pastore ed un solo gregge, secondo la vera dottrina di Cristo...; frattanto la lìngua russa, come quella che è la più colta e la più diffusa, deve essere l'arma degli slavi meridionali ed occidentali per propugnare il raggiungimento dei loro scopi religiosi e civili, questo essendo il loro compito religioso e letterario, ed il loro programma»... E conchiudeva infine colle parole: «l'unione religiosa e letteraria degli slavi deve essere ristabilita, costi quello che sa costare. Questo è il nostro diritto naturale ed incontestabile» (324). Ed il conte Ignatiew, nella ricorrenza del i5.mo anniversario della conclusione dei preliminari del trattato di pace di S. Stefano, diceva alla direzione della stessa Società slava di beneficenza, che erasi presentata nel giorno 3 marzo 1893 a recargli i propri omaggi: «il vincolo che lega i russi coi rimanenti popoli slavi è l'ortodossìa». E questo si chiama parlare chiaro anche ai sordi. Giunti al termine di questo studio, ci sentiamo per primo obligati a rivolgere una parola di grazie a Mons. Volarich, da cui avemmo la spinta ad occuparci della liturgia slava nell'Istria propriamente detta. Non vogliamo scrutare le intenzioni, dalle quali Monsignore fu guidato a sollevare tale questione nella Dieta provinciale che è una corporazione politica, e non ecclesiastica; e lasciamo perciò intieramente a lui la responsabilità morale di averla posta laddove essa non apparteneva, e donde anzi avrebbe dovuto essere assolutamente bandita. Sono troppe in questi tempi le lotte nazionali, perchè le si debbano far entrare anche nel sereno campo della [282] chiesa, che è la casa della pace. E con quanta poca conoscenza della storia nostra civile ed ecclesiastica Monsignore abbia trattato dell'argomento, lo dimostrano le precedenti pagine, nelle quali abbiamo fatto parlare i documenti, nulla aggiungendo del nostro, che non fosse da quelli pienamente giustificato. l'uso della liturgia slava nell'Istria, nella quale comprendiamo anche la glagolitica, ben lungi dall'appoggiarsi ad un privilegio, e tanto meno ad un diritto che gli Slavi venuti a ripopolarla avessero portato seco, od avessero trovato quivi sussistente sino dal tempo di S. Metodio, deve la sua origine, come abbiamo ampiamente provato, soltanto al basso grado di cultura ed all'ignoranza della lingua latina del clero slavo venuto con essi, o fatto venire dai vescovi, a ciò duramente obligati dalle circostanze eccezionali, in cui versavano, e rispettivamente alla ignoranza della lingua slava da parte dell'indigeno clero italiano. Ed abbiamo veduto anche come gli sforzi dei nostri vescovi, diretti al ripristinamento della liturgia latina, fossero coronati di pieno successo, così da far cessare quasi dovunque la liturgia slava nelle pievi di campagna al cadere del secolo XVIIl, e tollerando solamente la lettura ad alta voce della epistola e dell'evangelo nel cosìddetto Schiavetto, come mezzo di edificazione del popolo. Ora perchè, si domanda, dovremmo noi ritornare ad uno stato di cose già lungamente passato, e che segnava peli' Istria un periodo di tempo quanto mai infausto, quale quello della irruente barbarie dei secoli XVI e XVII? La chiesa non può al certo desiderare questo ritorno, perchè esso sarebbe altrettanto fatale a lei, quanto alla provincia intera. d'altronde, a che cosa si tenda colla imperiosa domanda della slavizzazione della chiesa, pretesa in nome di un immaginario diritto dai corifei della propaganda slava, sciaguratamente in ciò secondati dal clero slavo politicante, ed estraneo quanto quelli a questa terrà, non è nessuno che lo ignori. Ce Io fanno chiaramente intendere ad ogni propizia occasione, senza circonlocuzioni e reticenze. Ai nostri vescovi diciamo impertanto di stare sull'avviso, e di non lasciarsi sopraffare dagli avvenimenti. Custodiscano essi con gelosa cura e fermezza quel sacro deposito di fede e d'intima unione al centro della cattolicità, che da lunga serie di [283] secoli fu loro tramandato dai predecessori, lottanti con ben altre difficoltà che non siano le presenti, e che è il più nobile retaggio delle nostre chiese episcopali. Il clero istriano assista e conforti i vescovi in questa pia opera, come la chiamava il concilio aquilejese, rendendosi di questa guisa egualmente benemerito della religione e della patria. Ed il laicato, per ultimo, non dorma; si rammenti ch'esso pure forma parte importantissima nella chiesa, ed abbia presente alla memorìa il vecchio adagio: vigilantibus jura. |
Note: - L'odierno distretto di Castelnuovo, ed i territori di Castua, Volosca, Lovrana, Moschienizze e Veprinaz.
- Cioè le isole di Cherso, Veglia e Lussino, appendice alla Dalmazia sino al 1797, dal 1813 al 1822 parte del circolo di Fiume, quindi del circolo d'Istria: subordinate ecclesiasticamente sino al 1146 all'arcidiocesi di Spalato, e sino al 1830 a. quella di Zara.
- A. Amoroso, Le basiliche cristiane di Parenzo. (Atti e memorìe della Società istriana d'archeologia, v. VI, a. 1890, pag. 488, e la nota di Mons. Deperis (Op. cit. pag. 512).
- Plinio III, 44; — Strabone VII, 5, 3; — Benussi, L'Istria sino ad Augusto, p. 309; — Mommsen, Corp. Inscr. lat. V, 2818, 4327, 4328; I, 2618.
- L'Istria era divisa in sei diocesi: di Trieste, di Capodistria, di Parenzo, di Pola, e di Pedena.
- P. Diacono. De gestis Langobardorum, IV, 25: Langobardi cum Avaribus et Sclavis Histrorum fihes ingressi, universa ignibus et rapinis vastarunt; — IV, 42: Hoc nihilominus anno Sciavi Histriam, interfectis militibus, lacrimabiliter depraedati sunt. — Egualmente Dandolo, Chronicon venetum, VI, 2, 17. — S. Gregorio, Epistolae, X, 36: afjligor in his quae iam in vobis patior, conturbor quia per Istriae aditum iam Italiam (Sciavi) intrare coeperunt.
- Ughelli, Italia sacra, V; — Carli, Antichità italiche; — Kandler, Cod. dip. istr., a. 804; — Waitz, Deutsche Verfassungsgeschichte, III, 4, il quale lo chiama uno dei più importanti documenti per la storia di Carlo Magno.
- Monumenta Sclavorum meridionalium, voi. VII, Documenta, n. 2, n. 3.
- Kandler. Atti del placito al Risano, pag. 3: Insuper Sclavos super terras nostras posuil: ipsi aranl'nostras terras, et nostras runcoras, seganl'nostras pradas, pascunl'nostra pascua et de ipsis nostris terris reddunl'pensionem Ioanni.
- Kandler. Cod. dipl, istr., a. 804. Atti del placito al Risano: Per tres vero annos illas decimas, quas ad sanctam Ecclesiam dare debuimus, quando eos super Ecclesiarum et Populorum terras trasmisit in sua peccata et nostra perditione.
- Const. Porphyrogenitus. De Thematibus et de Administrando Imperio. Ree. L Bekkerus (Corpus scriptorum historiae byzantinae, voi. III). Bonna, 1840. cap. 30.
- Opera e luogo citato.
- Antiquitus Dalmatia incipiebal'a confìniis Dyrrachii et ad Istriae montes usque pertingebat... Abares Dalmatiam universam occuparunt, exceptis oppidulis mari adiacentibus... Chrobati in Dalmatiam venèrunl'Abares vicerunl'atque ex ilio tempore a Chrobatìs possessa haec regio fuit — A Zentina fluvio Chrobatia incipit, extenditurque versus mare ad Istriae usque confinia sive Albunum urbem; versus montana aliqua-tenus etiam supra Istriae thema excurrit ac versus Tzentina et Chlebena Serviae regionem attingit.
- Anonimo ravennate. Cosmographia, IV, 37.
- Mommsen. Corpus inscr. lat. Ili, i, pag. 392: Constant. Porphyrogenitus Chrobatiam extendit usque ad confinia Histriae sive castrum Albona, ul'et Albonam et Flanonam Histriae tribuere videretur.
- Mommsen. Corp. inscr. lat. V, 45: Regionem hanc alpestrem et infrequentem ipse nuper adii titulosque quos potui inspexi, multo plures visuros, nisi infelicis memorìae homo Golmaier parochus ex Carniolana provincia oriundus propter studia sua Slavica in ipsos aetatis Romanae lapides grassatus, eorum quos posset in fundamenta ecclesiae suo iussu fabricatae s. Andreae obiecisset.
- Cfr. anche De Franceschi. Note storiche; — e Benussi, l'Istria all'epoca bizantina (Atti, VII. a. 1891, p. 416).
Dinanzi a questi fatti inoppugnabili, che valore possono avere le seguenti parole di Anastasio Bibl. a. 639: Iohannes IV natione dalmata., temporibus suis,misit per omnem Dalmatiam seu Istriam multas pecunias per Martinum abbatem propter redemptionem captivorum, qui depredati eranl'a gentibus.? - L'avvocato Laginja, oriundo castuano.
- A Chrobatis possessa haec regio (Dalmatia) fuit... Chrobati Dalmatiam incolentes... Divisa autem est eorum regio in zupanias 11, quorum nomina Clebiana, Tzentzena, Emota, Pleba, Pesenta...
- Krones. Handbuch der Geschichte Oesterreichs, I, p. 359.
- Gfrörer. Byzantinische Geschichten, II, p. 34.
- Iirececk. Oesterreichische Gesch. II, p. 63.
- Safarik, Slawische Alterthiimer, II, 33, p. 279.
- I. Kukuljevich. lura regni Croatiae, Dalmatiae et Slavoniae, I, p. 11. — Racki. Monumenta Slavorum meridionalium, VII, p. 413,
- Vedi le note 9 e 10.
- De Sclavis autem unde dicitis accedamus super ipsas terras ubi resideant, et videamus ubi sine vestra damnietate valeanl'residere, resideant: ubi vero vobis aliquam damnietatem faciunl'sive de agris, sive de silvis, vel roncora, aut ubicumque, nos eos ejiciamus foras. Si vobis placet, ul'eos mittamus in talia deserta loca, ubi sine vestro damno valeanl'commanere, faciant utilitatem in publico sicut et caeteros populos.
- Contra generationes Sclavorum i'nimicos vestros. — Kandler. Cod. dipi. istr. Pavia 22 febbraio, a. 840; — Muhlbacher, Regesta, n. 1033.
- «Eco del Litorale» n. 136, 26 novembre 1892. — Supplemento, colonna V.
- Trovasi publicato anche nel Pertz. Mon. Germ. hist. XI, 15 in appendice alla Conversio. — Excerptum de Karentanis: Karentanis predicavit Hosbaldus episcopus... Post hunc interiecto aliquo tempore supervenit quidam Sclavus ab Hystrie et Dalmatie partibus nomine Me-thodius qui adinvenit Sclavicas literas et Sclavice celebravit divinum ofjìcium et vilescere fecit Latinum; tandem fugatus a Karentanis partibus intravit Moraviam ibique quiescit.
- Wattenbach, Gesta Archiep. Salisburgensium (Pertz. Mon. Germ. hist. XI, pag. 3).
- Codex legendarum et monumentorum de SS. Cyrillo et Methodio. edito dal Ginzel, e publicato in Appendice alla Geschichte der Slawen-apostel Cirill und Method. Vienna 1861.
- P. Giovanni VIII al re Carlomanno. a. 875. Restituto nobis Pannoniensium episcopatu, liceat fratri nostro Methodio, qui illic a sede apostolica ordinatus est. — P. Giovanni Vili Methodio archiepiscopo Pannoniensis ecclesie: a. 879; — Methodio archiepiscopo S. ecclesiae Marabensis. Lettera di Giovanni X a Svatopluk nel giugno 880. — Ginzel, App. p. 58. Jaffè, Reg. Pont. n. 2973. Iohannes VIII Montemero duci Sclavoniae, 14 mag. 873: admonemus te, ul'progenitorum tuorum secutus morem, quantum potes, ad Pannoniensium reverti studeas diocesim. et quia iam illic, deo gratias a sede B. Petri apostoli episcopus ordinatus est, ad ipsius pastoralem recuras sollecitudinem. — Racki, Mon. Sci. mer. VII p. 367 vi aggiunge di suo: Ecclesiae pannoniensis limites e sedis apostolicae intentione hoc quoque illustrat documentum.
Secondo il Racki VII p. 368 sarebbe Muntimiro o principe della Serbia, o più probabilmente della Pannonia fra la Sava e la Orava. Dei Croati nò, perchè dopo Domogojum tennero il ducato di Croazia Sedeslao e Branimiro. — Jaffè, Reg. Pont. n. 2976, 14 mag. 873. Nelle istruzioni a Paolo suo legato in Germania, il papa Giov. VIII lo incarica di dire al re Lodovico intorno alla vertenza fra Tare, di Salisburgo e Metodio: Ipse nosti o gloriosissime rex, quod Pannonica diocesis aposto-licae sedi sit subiecta.. — Vita S. Metodii, e. 6, ed Miklosich Vienna 1870: Excepit vero eum (Methodium) Kocel cum magno honore; et iterum eum ad apostolicum (Hadrianum II) misit et XX viros, homines honorabiles, ut cum sibi ordinaret in episcopatum in Pannonia in sedem S. Andronici, quod etiam factum est. - Isidoro, Etymol. IX, 1, 3; — Dümmler, Gesch. des ostfrankischen Reiches, II, p. 185.
- Ginzel, Gesch. § 29, pag. 115 nota 9: Wahrscheinlich war Methodius nach Kocet s Tode (a. 878) auf einige Zeit im slawischen Kùstenlande gewesen, und hatte dorl'persönlich in der genannten Weise gewirkt.
- Neppure il Pastrizio nel suo Opus in gratiam, decus, utilitatem tum Nationis illyricae in Dalmatia tum quoque cleri glagolitarum concinnatum (inch. ab. a. 1688) ha il coraggio, come Mons. Volarich, di attribuire a S. Metodio l'introduzione della liturgia slava nell'Istria; ma, più modesto di lui nelle sue aspirazioni, scrive: «circa l'anno 900 i discepoli di Metodio perseguitati discesero nella Croazia, nell'Istria, nell'Interamnia in cerca di rifugio, e si stabilirono fuori delle città, nelle ville, nei vici e sugli scogli».
Anche lo storico G. G. Strzedobsky nella sua Vita SS. Cyrilli et Methodii a. 1710 esclude l'Istria dall'attività religiosa e liturgica dei detti Santi. - Ginzel, Gesch. p. 42, § 7.
- Ginzel, Op. cit. p. 47, § 9; — Bartolini, Memorìe pag. 50.
- Cfr. la n. 32.
- Ginzel, Gesch. pag. 52, § 12, nota 2.
- Ginzel, § 12, p. 55, n. 6: Unzweifelhafl'hatte sich Method im Frùhjahr 868 von Rom weg unmittelbar zu Rastislaw begeben, und er konnte in Mähren bis zum Ausbruche des Krieges in diesem Iahre ungestört wirken. Auch während des Krieges mag er Mähren nicht verlassen haben.
E questo sta appunto in contradizione colle conseguenze tratte da Mons. Volarich dall'excerptum carantanum. - Ginzel, Gesch. § i3, pag. 57, n. 5: An die Sprache Roms war auch Method als Erzbischof gebunden, denn er war zum Biscliofe der lateinischen Kirche geweihet worden und hatte bei seiner Consecration den Eid geleistet, die Einheit mit dem apostolischen Stuhle nicht nur im Glauben sondern auch in alien kirchlichen Einrichtungen wahren zu wollen.
Il Ginzel pag. 8, combatte contro il Dümmler l'autenticità della lettera di Adriano II del 869 ai principi Ratislao e Kozel contenuta nella leggenda pannonica, in cui si legge: Nos statuimus Methodium in partes vestras mittere... ut vos edoceret, quemadmodum rogastis, libros in vestram linguam interpretans in omni ecclesiastico facto totaliter, una cum sacra missa, nominatim cum liturgia et baptismate. Il Racki in quella vece (Archivio per la storia degli Slavi mer. p. 281-98). e con lui il Card. Bartolini (Memorìe, p. 81) ne sostengono l'autenticità. Il Bartolini, dopo avere narrata la disputa sorta fra Cirillo e Metodio da un lato, ed il clero romano dall'altro, intorno all'uso della lingua slava nelle funzioni ecclesiastiche, prosegue a pag. 50: Allora Adriano II con matura deliberazione approvò e stabili che in quelle regioni convertite alla fede cristiana per la loro predicazione, si potessero Cantare le sacre salmodie e celebrare il divino Eucaristico Sagrificio nella lingua slava. Quindi in segno dell'Apostolica approvazione, depositò sull'altare che sovrasta al sepolcro di S. Pietro il Vangelo tradotto neir idioma slavo».
Esaminiamo le fonti. La leggenda italica nulla sa nè di questa decisione del pontefice, nè della cerimonia dei libri sacri avvenuta nel sinodo romano. Ne parla invece la leggenda morava (e. 7), la quale, dopo di avere narrata la disputa, conchiude: statuerunt in illis partibus, quas Cyrillus Deo acquisierat, et sicul'statuerat, canonicas horas cum missarum solenniis ita debere deinceps celebrari». Con parole pressochè identiche ne parla la leggenda boemica (e. 4). La pannonica dice brevemente (e. 6): «sanxit doctrinam amborum, evangelio slovenico in altari sancti apostoli Petri deposito, et ordinavit presbiterum beatum Methodum». La bulgara parla (e. 3) dei libri e tace dell'altro. A maggiore intelligenza della questione devesi notare che l'ipotetico privilegio concesso dal pontefice Adriano II a Metodio di servirsi nelle funzioni religiose della lingua slava, segnava addirittura una rivoluzione nella storia della liturgia cristiana, e dovette per ciò costituire in quel-l'anno uno dei fatti più clamorosi avvenuti a Roma ed in tutto l'Occidente. Or bene: - Come si può mai supporre che la leggenda italica «per verità la più autentica e sincera narrazione, che intorno ai detti apostoli ci abbia conservata l'antichità», come la dice lo stesso Bartolini (p. VII), l'unica che deriva da fonte contemporanea perchè scritta da un vescovo ch'era presente al sinodo romano (Bollando, Acta sanctorum, II, p. 14), nulla sappia di questi fatti clamorosi che avrebbero dovuto essere accaduti sotto gli occhi del detto vescovo, e nei quali egli avrebbe dovuto avere parte attiva? La leggenda italica, e per il tempo in cui fu scritta, e per la persona che la scrisse, presente ed attrice nei fatti che narra, è l'unica che abbia il valore di un documento storico. Le altre hanno valore se vengono a completare fatti già provati dai documenti, non mai quando sono in contradizione a questi.
- Se adunque ora, all'esame delle leggende, aggiungiamo il confronto colle bolle pontifice di Adriano II del 869, di Giovanni VIII del 873, del 14 giugno 879 e del luglio 879, chi ammetterà che Giovanni VIII, l'immediato successore di Adriano II, e sotto di lui arcidiacono della chiesa romana, nulla abbia saputo di tanta concessione fatta dal suo predecessore con tanta solennità e pompa esteriore non più di 6 (dico sei) anni innanzi, ed abbia potuto scrivere a Metodio, tutto sorpreso per la novità della cosa, nel luglio 879: «Audimus et jam quod missas cantes in barbara, hoc est in sclavinica lingua», se nel sinodo romano e dal pontefice Adriano II fosse stato realmente elargito all'arcivescovo pannonico il privilegio liturgico in quella forma così solenne ed alla presenza di tutto il clero e del popolo romano?
- E se questo privilegio è stato realmente elargito da Adriano II, perchè nella bolla del giugno 880, in cui concede a Svatopluk la liturgia slava, Giovanni VIII non ne ha fatto menzione, e non vi si è riferito come hanno fatto i suoi successori rispetto alla bolla dello stesso Giovanni VIII?
- E se Adriano II è stato il primo a concedere la liturgia slava, e Giovanni VIII il secondo, perchè tutti i pontefici posteriori, nel conferire a singole diocesi il privilegio della liturgia slava, si riferirono soltanto alla concessione di Giovanni VIII, e non mai a quella di Adriano II?
Questi argomenti sono di tanto peso che ci dispensano dal produrre altre prove tratte dagli anacronismi ed errori che s'incontrano nella bolla di Adriano II contenuta unicamente nella leggenda pannonica. Per quelle rimettiamo il lettore a quanto ne scrisse il Ginzel, Gesch. p. 8. — Anche il professore di Teologia ad Erlangen il Dott. Herzog (Abriss der gesamten Kirchengeschichte, Erlangen 1890, p. 448) rifiuta l'autenticità della bolla di Adriano II.
- Ginzel, Gesch. pag. 62, n. 2.
- Audivimus etiam, quod missas cantes in barbara, hoc est in sclavina lingua. Unde iam litteris nostris per Paulum episcopum Anconitanum tibi directis prohibuimus, ne in ea barbara, hoc est sclavinica lingua sacra missarum solemnia celebrares, sed vel in latina vel greca lingua, sicul'ecclesia Dei toto terrarum orbe diffusa cantant; Predicare vero aul sermonem in populo facere tibi licet».
Così si legge nel breve indirizzato dal detto pontefice a Metodio il 14 giugno 879. — Ginzel, Codex legendarum, pag. 58. — Jaffè, Reg. Pont. n. 3268; — Mansi, Sacr. conc. XVII, 133; — Dümmler, Gesch. des ostfrànk. Reiches, III, 193. - Ginzel, Gesch. § 14, p. 62: Geschichtlich fest ist nur diess, das Method fortfuhr, sich des Slawischen bei allen kirchlichen Functionen zu bedienen.
- La Pannonia fu teatro della sua attività sino al 877 nel quale anno per la morte di Cozel, il clero salisburghese ebbe il sopravento, Metodio fu cacciato dalla Carinzia e dovette ritornare nella Moravia. Così il Ginzel Gesch. § 15, p. 66 n. 9 spiega l'excerptum: tandem fugatus a Karentanis partibus intravit Moraviam.
Dippiù uno dei più accorrimi nemici di Metodio il tedesco Wichling, veniva eletto dal papa vescovo nella nuova eretta cattedrale di Nitra in Pannonia (Ginzel. Cod. p. 61, Gesch. § 19, pag. 79) nella qual diocesi era compresa la parte della Pannonia soggetta al duca di Moravia ed al duca Arnolfo di Carinzia. - Dilecto filio Sfentopulcho glorioso corniti... Nec sanae fidei vel doctrinae aliquid obstat, sive missas in eadem sclavinica lingua canere, sive sacrum evangelium vel lectiones divinas novi et veteris testamenti bene translatas et interpretatas legere aul'alia horarum officia omnia psallere: quoniam qui fecit tres linguas principales, hebream scilicet, grecam et latinam, ipse creavit et alias omnes ad laudem et gloriam suam. Iubemus tamen, ut in omnibus ecclesiis terrae vestrae propter maiorem honorificentiam evangelium latine legatur et postmodum sclavinica lingua translatum in auribus populi, latina verba non intelligentis, adnuncietur, sicut in quibusdam ecclesiis fieri videtur. et si tibi et judicibus tuis placet, missas latina lingua magis audire, precipimus, ut latine missarum tibi sollemnia celebrentur. Baronio, Annales, o. X, p. 577, a. 880; — Bartolini, Memorìe, p. 121; — Ginzel, Codex., pag. 62.
- Così l'intende lo stesso Ginzel Gesch. § 20, pag. 83, il quale scrive in caratteri marcati: Diess Privilegium gewährte Iohann VIII, indem er anordnete: Dass in alien Ländern Swatophtk's fortan das Slawische als Cultussprache gebrauchl'wedern dürfe... ed anche il Parlati, Illyr. sacrum III, 91... Il testo della lettera è così chiaro che non ammette alcun dubbio in proposito.
- Ginzel, Codex p. 61; Gesch. § 19, p. 79. Questa diocesi subordinata all'arciv. Metodio comprendeva la parte della Pannonia soggetta a Svatopluk duca dei Moravi, e quella sottoposta ad Arnolfo duca di Carinzia.
- Pro certo affìrmamus (scrive Asseman, Kalendaria Eccl. univ. Roma 1755 v. IlI, 170), motum Ioannem papam ad concedendum Slavonicae linguae in sacris usum... iteratis precibus Regis populique Moraviae, quibus si postulata negasset, ii haud dubie ad Graecam ecclesiam confugissent, a qua, Bulgarorum instar, id facile obtinuissent.
Il medesimo afferma il Dümmler, Gesch. des ostfränk. Reiches, II, p. 264. - Ginzel, Codex p. 62, breve del marzo 881. — Bartolini, Memorìe pag. 144.
- Nella surricordata lettera di Giovanni VIII a Svatopluk, il pontefice non parla di esami o concessioni fatte a Metodio rispetto alla liturgia; scrive soltanto: Ille autem (Methodius) professus est, se juxta evangelicam et apostolicam doctrinam, sicuti sancta Romana ecclesia docet, et a patribus traditum est, tenere et psallere. Nos autem illum in omnibus ecclesiasticis doctrinis et veritatibus orthodoxum et profìcuum esse repenentes, vobis iterum ad regendam commissam sibi ecclesiam Dei remisimus.
- Ginzel, Gesch. p. 83, § 20.
- Ginzel, Gesch. p. 87, § 22, n. 11.
- Vita S. Clementis e. 18; — Ginzel Gesch. § 24, p. 94.
- Vita S. Clementis e. 11; — Ginzel, Gesch. 1. cit.
- Ginzel, Gesch. 1. cit.
- «Divina autem ofjìcia et sacra misteria ac missarum solemnia, quae idem Methodius Sclavorum lingua celebrare praesumpsit, quod ne ulterius faceret, supra sacratissimum b. Petri corpus iuramento firmaverat, sui periuris reatum perhorrescentes nullo modo deinceps a quolibet praesumatur; Dei namque nostraque apostolica auctoritate sub anathematis vinculo interdicìmus: excepto quod ad simplicis populi et non intelligentis aedificationem attinet, si evangelii expositio ab eruditis eadem lingua ennuncietur; et largimur et exhortamur, et ut frequentissime fiat monemus ut orrmis lingua laudet Deum et confiteatur ei». — Ginzel, Codex, pag. 63.
L'autenticità di questo breve è contrastata. — Mentre Wattenbach (Beiträge zur Gesch. der christlichen Kirche in Mähren. Vienna 1849 p. 43) e con lui Jaffè (Reg. Pont. n. 3407), Dümmler, (Gesch. de ostfr. Reiches. IlI, 254) ne sostengono l'autenticità, Ginzel (Gesch. p. 10), Palacki ecc., la contestano. Non è mio intendimento di spezzare una lancia nè pro nè contro il breve pontifìcio. Osserverò soltanto che non havvi nessuna necessità per ritenerlo scritto mentre ancora viveva Metodio, (il Jaffè, Reg. Pon. n. 3407 gli assegna il novembre 885), e se anche qui e là vi possa essere qualche interpolazione posteriore, il detto breve non è un anacronismo, e per di più rispecchia fedelmente il pensiero della curia romana nella questione liturgica. Il commonitorium, che riporto nella nota seguente, è la prova più evidente dell'autenticità del breve summenzionato. - Commonitorium Dominico episcopo, Iohanni et Stephano presbiteris euntibus ad Slavos ... Missas et sacratissima illa ministeria, que Slavorum lingua idem Methodius celebrare presumpsit, quamvis domni loannis sanctissimi pape iuraverit se ea ulterius non presumere, apostolica auctoritate ne aliquo modo presumatur, penitus interdicit. — Antichità (Starine) ecc. v. XII, pag. 220.
- Epistola Episc. Bavar. ad Iohannem P. IX. a. 900 (Ginzel, Codex p. 68).
- Bartolini, Memorie, p. 198.
- Ginzel, Gesch. p. 113, § 29.
- Op. cit. § 29, pag. 114 n. 4 e 115 n. 9; — § 4, pag. 29.
- La diocesi di Trieste, oltre al proprio territorio, abbracciava la Carsia, estendendosi da Duino sino ad Adelsberg e Planina; comprendeva poi nell'Istria la parrocchia di Muggia, quella di Dolina colle chiese di Borst, Rizmagne ecc., la parrocchia di Ospo con Mascoli o Caresana e Gabroviza, e quella di Lonche con Rosariol, Cernical, Basoviza, Svonigrad e Popechio: la parrocchia di Pinguente colle sottoposte curazie di Sovignaco, Verch e Racize; la parrocchia di Rozzo con le soggette curazie di Draguch, Colmo, Boruto, e Semich; nel carso pinguentino la parrocchia di Lanischie; e finalmente la parrocchia collegiata di Umago con Materada.
- La diocesi di Capodistria comprendeva l'antico suo distretto (prima del 1815) entro il quale stavano Valomvrasa e Socerga, ora aggregate a quello di Pinguente: inoltre il distretto attuale di Pirano.
- Formava la diocesi di Cittanova l'odierno distretto giudiziario di Buie, con di più Topolovaz, Gradigna e Portole, luoghi ora del distretto di Montona.
- Era costituita la diocesi di Parenzo dal presente suo distretto giudiziario e da quello di Rovigno con Sanvincenti (del distretto di Dignano), dal distretto di Montona alla sinistra sponda del Quieto, ed aveva nel distretto di Pisino le seguenti parrocchie; Pisino, Pisinvecchio, Antignana, Corridico, S. Pietro in Selve, Gimino, Vermo, Terviso, Zumesco, Gardosella e Caschierga.
- La diocesi di Pola comprendeva tutto l'odierno distretto giudiziario di Pola, e quello di Dignano, meno Sanvincenti (della diocesi di Parenzo). Inoltre il distretto di Albona meno Berdo e Cepich (della diocesi di Pedena) e nel distretto giudiziario di Pisino le parrocchie di Susgnevizza, Bogliuno, Pas e Lupoglavo (oggidì parrocchia di Dolegnavas) nel distretto attuale di Pinguente. Questi ultimi luoghi costituivano l'arcidiaconato di Albona. Al di là del Montemaggiore la diocesi abbracciava tutto il paese da Ciana a Fianona, dal Montemaggiore sino al l'Arsia, formando l'arcidiaconato di Fiume.
- Minima fra tutte era la diocesi di Pedena. Aveva Pedena, Gallignana, Lindaro, Novacco, Cerovglie, Chersicla, Gollogorizza, Cherbune, Berdo, Cepich, S. Ivanaz, Grimalda, tutte parrocchie, ed i vicariati di Sarez (Arecium), Scopliaco, Grobnico, Previs, Tupliaco e Gradigne.
- Chi la vuole moscovita, chi rutena, chi bulgara, chi tracica, chi serba, chi morava, chi pannonica, chi carantana, chi slovena. — Il Ginzel, Gesch. § 41 pag. 153, n. 3. la dice: serbo-bulgara-macedone.
- Ginzel, p. 6, pag. 36 n. 1: Pertz in seiner Abhandlung de cosmografia Ethici (p. i5o-53) suchl'nachzuveisen, dass der Philosoph Ethikus aus Istrien, der vielleichl'von slawischer Abkunfl'war, in der ersten Hälfte des 4 Ihdts die Glagoliza erfunden habe. — Der Beweis, welcher von Pertz fùr diese Behauptungen gefuhrl'wird, machl'die Sache zwar äussersl'wahrscheinlich, isl'jedoch nichl'völlig zwingend.
- Cosmographia Aethici Istrici ab Hieronymo ex graeco in latinum breviarium redacta. Edita da Enr. Wuttke, Lipsia 1854.
- Laonde anche Wuttke, Op. cit., p. 78 lo dice dell'Istria scittica; anzi scrive a p. 69: Merkwürdig isl'uns dass während von Aethicos so viele Völker vorgeführl'werden, selbsl'die Hunnen — die Slawen keinen Platz haben. Hòchstens die kurze Erwàhnung der Vinnosi zwischen Dànen und Rifeen liesse sich auf die Wenden beziehen.
Per chi non sapesse avervi esistito un' Istria al Mar nero trascrivo il seguente brano degli Scriptores historiae Augustae, II, p. 64, a. 238. Sub his (Maximus et Balbinus) fuit et Scythici belli principium et Histriae excidium eo tempore. - Vita S. Clementis, c. 14. — Dümmler, Gesch. des ostfränkischen Reiches, II, 254. — Lo stesso Dümmler nell'altra sua opera Ueber die älteste Gesch. der Slaven in Dalmatien, a p. 417 scrive: Wann die slovenische Liturgie bei den dalmatinischen Slawen Eingang gefunden, vvird in den Quellen nirgends näher angegeben, unmittelbar durch den persönlichen Einfluss des h. Methodius kann es nichl'der Fall gewesen sein, weil die Croaten gar nichl'zu seiner Diöcese gehörten.
- Dümmler, Op. cit. pag. 410.
- Arch. Spalatensis existimavit... id permitti non posse, quod contra jus, et fas prò arbitrio, ac voluntate usurpaverant. Così scrive il Farlati, Illyr. sac. IlI, p. 91.
- Farlati, Illyr. sacrum v. IlI e specialmente Dümmler, Ueber die àlteste Geschichte der Slaven in Dalmatien (Sitzungsber. der k. k. Ak. der Wiss. phil-hist. Classe, vol. XX, il quale nel Cap. l'da pag. 406 ne parla diffusamente). Vienna 1856 — e Geschichte des ostfränkischen Reiches. IlI, 254 e seg.
- Epistola Iohannis P. X ad Iohannem III Archiepiscopum Spalatensem et Episcopos provinciae Spalatensis — Ginzel, Codex, p. 76; — Jaffè, Reg. Pont. n. 3571; — Farlati, Illyr. sacr. IlI, 93.
- Ginzel, Codex, pag. 76; — Jaffè, Reg. Pon. n. 3572: Tamislao regi Croatorum et Michaeli Duci Chulmorum ... verum etiam et omnibus zupanis et universo populo per Sclavoniam et Dalmatiam commorantibus.
- Iohannes Ep.... Ioanni Sanctae salonitanae Ecclesiae Archiepiscopo omnibusque suis sufjraganeis Episcopis.
- Così Dümmler, Ueb. die alt. Gesch. der Slawen pag. 420.
- Unde hortamur vos dilectissimi... ul'secundum mores Romanae Ecclesiae Sclavinorum terrae ministerium sacrificii peraganl'in latina scilicet lingua, non autem in estranea, quia nullus filius aliquid loqui debet vel sapere nisi ul'mater ei insinuaverit. — Farlati, Illyr. s. IlI, p. 93.
- Farlati, Illyricum sacrum, III, p. 95: Quis etenim specialis filius sanctae Romanae Ecclesiae, sicul'vos estis, in barbara seu Sclavinica lingua Deo sacrificium offerre delectatur?.. Unde iterum atque iterum vos monemus ul'in vestra conversatione maneatis et linguam et praecepta Rev. Episc. a nostro latere vobis transmissi, in omnibus nobis creduli audiatis.
- X. Ul'nullus Episcopus nostrae provinciae audeal'in quolibet gradu Sclavinica lingua promovere... nec in sua Ecclesia sinal'eum missas facere praeter si necessitatem sacerdotum haberet, per supplica-tionem a Romano Pontifìce licentiam ei sacerdotalis ministerii tribuat. Racki, Documenta historiae chroaticae per. ant. ili. pag. 149. — Farlati, Illyr. sacr. IlI, 97.
- Ginzel, App. p. 78.. Quia in vobis orta fuit contentio ante nostrorum Legatorum praesentiam de Ecclesiasticis negotiis, volumus ad limina Apostolorum venientes ante nostram nostrorum Episcoporum praesentiam cuncta definire satagatis... Nam vestras litteras suscipientes investigare non detulimiis, et quia illic maxima eral'impressa murmuratio, suspendere hoc curavimus, ul'ante nostram praesentiam, aul'tu cum Gregorio, aut unus vester suffraganeus Episcopus veniens cuncta per ordinem vobis revelent; quatenus per viam justitiae incedentes, quidquid rectum est inter vos definire valeamus. De caeteris autem Capitulis vobis innotescimus, quatenus hac ratione excepta, quidquid synodaliter nostri Legati Episcopi vobiscum una statuerunt, a nobis confirmata existant. — Jaffè, Reg. pont. n. 35y3.
A torto scrive il Ginzel (Gesch. § 3o p. 119): Der Erfolg dessen war dass der Pabsl'die Geltung des X.ten Canon suspendirte... und es scheinl'mir keinem Zweifel zu unterliegen dass der Bischof Gregor von Nona so gliicklich war, Pabsl'Iohann X mit dem slawischen Kirchenwesen in Dalmatien zu versöhnen, und die Aufhebung des durch dèn besagten X Canon des Spalater Concils uber dasselbe ausgesprochenen Todesurtheils vom Pabste zu erwirken. Nella lettera succitata, non il Canone X riflettente la liturgia, ma venne sospesa la decisione del Canone XI riguardante i confini della diocesi di Nona e la subordinazione del vescovo Gregorio all'autorità metropolita di Spalato. Ed è perciò che il papa cita a Roma il vescovo di Nona, e l'arcivescovo di Spalato. Così il Farlati, Illyr. sacrum, III, p. 102, n. A. spiega le parole della lettera pontifìcia «de ecclesiasticis negotiis» — id est de jurisdictione Ecclesiastica, de qua Episcopi Dalmatiae cum Episcopo Chrobatorum contentio erat; ed alla n. K. il «quatenus hac ratione excepta» — excepta controversia de jurisdictione Ecclesiastica, quam injudicata relinquit, caetera omnia, quae Synodus Spalatensis decrevit, approbantibus legatis Pontificiis, auctoritate Apostolica confirmat. — Il Racki pure (Monum. Sclavorum merid. VII, p. 193) scrive: Constitutiones concini a sede romana confirmantur excepto capitulo de jurisdictione nonensis episcopi. Egualmente si esprime il Dìjmmler, Ueber die alt. Gesch. der Slaven, pag. 422. E che il Farlati, il Racki, il Dümmler dicano il vero, ed il Ginzel sostenga il falso, lo dimostra quanto accadde nella Dalmazia negli anni susseguenti. Cioè: non essendo comparsi a Roma nè il vescovo di Nona Gregorio, nè l'arcivescovo di Spalato, la questione si protrasse per altri tre anni. Ma continuando il primo ad opporsi al suo metropolita e ad usurparne l'autorità (Thomas Arch. e. 16), i vescovi della Dalmazia si rivolsero nuovamente al pontefice, affinchè mettesse fine a tale disordine. Il pontefice mandò allora come legato il vescovo Madalberto, il quale, venuto nella Dalmazia ed esaminato accuratamente lo stato delle cose, convocò nel 928 un nuovo concilio a Spalato, in cui, re'spinte le pretese del vescovo di Nona, furono confermate le diocesi nei loro antichi confini, ed assieme la subordinazione delle diocesi e dei rispettivi vescovi dal me^ tropolita di Spalato. Il papa Leone VI confermò nello stesso anno 928 tale deliberato. La bolla se la può leggere nel Farlati, Illyr. sacrum, III, pag. 107; — Jaffè, Reg. pont. n. 3579. Suffraganei dell'arcivescovo di Spalato vennero confermati, in base agli antichi documenti, per la Dalmazia croata i vescovi di Arbe, Veglia, (qui obtinebal'maiorem partem parochiarum quas nunc habet signiensis ecclesia), Ossero e Zara; per la serba Stagno, Ragusa, Cattaro. Vediamo quindi che i vescovati dell'Istria (di Trieste, Capodistria, Cittanova, Parenzo, Pola, Pedena) nulla avevano da fare coll'arcidiocesi di Spalato, e colla liturgia slava. - Ginzel, Codex, pag. 76, 77, 78; — Gesch. § 31, pag. 121.
- Ginzel, Gesch. § 31, p. 121.
- Farlati, Illyr. sacr. IlI, 128; — Dümmler, Ueber die alt. Gesch. p. 428; — Racki, Mon. Slavorum mer. VII, 204.
- Per indicare la Dalmazia e la Croazia il Ginzel si serve della parola» Kùstenland». Sembra ch'egli non sappia o non voglia sapere come la parola Kùstenland, quale espressione politica, indichi le tre province amministrative dell'Istria, Trieste e Gorizia unite in una sola provincia politica col nome di «Litorale». Ed è sorprendente con quale indifferenza egli attribuisca questo nome ora alla Dalmazia, ora alla Croazia, ora all'Istria, ora al Goriziano, talvolta separatamente, talvolta a tutte assieme, occasionando così enorme confusione, fonte di molteplici errori.
- Racki, Mon. Slavorum merid. VII, p. 204, a. 1059:.. ul'nullus de caetero in lingua slavonica praesiuneret divina mysteria celebrare, nisi tantum in latina et graeca, nec aliquis ejusdem linguae promoveret ad sacros ordines.
- Thomas, Historia Salonitanorum pont. (Lucio, De regno Dalmatiae et Croatiae, 1. IV, p. 371); — Ginzel, Append. pag. 89; Gesch. § 3i, pag. 121 — Farlati, Illy. sacr. IlI, 129.
- Verumtamen non secundum ritus aul'sectam Bulgariae gentis vel Ruziae, aul'Slavonicae linguae, sed magis sequens instituta et decreta apostolica, unum potiorem totius Ecclesiae ad placitum eligas in hoc opus Clericum, latinis adprime literis eruditum.... — Ginzel, Codex, p. 79.
- Ginzel, Gesch. § 36, pag. 140, n. 8.
- Quia vero nobilitas tua postulavit, quo secundum Sclavonicam linguam apud vos divinum celebrare annueremus officium, scias nos huic petitioni tuae nequaquam posse favere... Unde ne id fial'quod a ve-stris imiprudenter exposcitur auctoritate beati Petri inhibemus, teque ad honorem omnipotentis Dei huic vanac temeritati viribus totis resistere precipimus. — Harduin, Acta concil. 1434; — Ginzel, Codex, pag. 91.
- Innocentius P. IV ad Episcopum Seniensem. Porrecta nobis petitio tua continebat, quod in Slavonia est littera specialis, quam illius terrae clerici se habere a B. Hieronymo asserentes, eam observanl'in divinis offìciis celebrandis. Unde ul'illis effìciaris conformis, et terrae consuetudinem, tu qua existis episcopus, imiteris, celebrandi divina officia secundum praedictam litteram, a nobis licentiam suppliciter postulasti. Nos igitur attendentes, quod sermo rei, et non res sermoni subiecta, licentiam tibi in illis dumtaxal'partibus, ubi de consuetudine observantur praemissa, dummodo ex ipsius varietate litterae sententia non laedatur, auctoritate praesentium concedimus postulatam. — Raynaldus, Ann, eccl. a. 1248; — Ginzel, Codex, pag. 92.
- Innocentius episcopus ecc. Venerabili fratri... Episcopo Veglensi, Salutem ecc. Dilecti filii Abbas et Conventus Monasteri sancti Nicolai de Castro Muscla (Castelmuschio) ordinis s. Benedicti tui diocesis nobis humiliter supplicarunt, ul'cum ipsi, qui Sciavi existunl'et slavicas litteras habeant, discere latinas litteras non possimi, eis, ul'in litteris sclavicis secundum ritum ecclesiae Romane divina ofjìcia valeanl'celebrare, proul'iidem et predecessores sui facere consueverunt, licentiam concedere cura-remus. De tua itaque circumspectione plenam in domino fiduciam obtinentes, presentium tibi auctoritate concedimus, ul'super hoc facias, quod videris expedire. Datum Perusii VII Kal. febbruari, Pont, nostri Anno IX.
— A. Theiner, Vetera Monumenta Slavorum Meridionalium. Roma 1863. - «Reperiuntur in illa insula, in certo Monasterio quidam Fratres Sciavi, qui sacrificanl'et celebranl'divina offìcia more sciavo, qui variis causis sunl'ex insula praedicta removendi. Igitur tibi mandamus ul'cum primum ad insulam perveneris, reiicere et licentiare debeas Fratres praedictos sclavos, nec permittere aliquem eorum, ullo unquam tempore venire in insulam praedictam et cura habere alios religiosos qui in monasterio praedicto stenl'et celebrenl'more nostro latino, an. 1481 die 24 Aprilis. — In collegio habente auctoritatem a Consilio Rogatorum. Com. Francisco Barbo». — Mon. Slav. merid. I.
- M. Ivancich, Rito glagolitico per gli appartenenti al terzo ordine di S. Francesco nella Dalmazia, Istria e Quarnero. Zara, 1887 (Poraba glagolice kod. redovnika III reda sv. Franie ecc.) pag. 8.
- Ginzel, Codex, pag. 94.
- Ginzel, Codex, p. 93... recipiendi unum locum duntaxal'in dicto regno vel ejus confinibus, in quo servare valeanl'dictum ritum.
- ...ad minus Evangelia, Epistolas et Symbolum in Vulgari in Missis et Ecclesiis coram populo ad excitandam devotionem libertari, legi et decantari. Nam in nostro linguagio slavico.. Assemani, Kalend. IV, 222.
- ...quod ritus Ecclesiae hoc non habet, neque in ipsa Pragensi Ecclesia ante ista disturbia hoc fiebat.
- Scrive il Kandler, Memorie storiche di Montona, pag. 67: Delli Slavi diremo brevemente che nell'Istria propria tra l'Arsia ed il Timavo non ve ne furono al tempo romano, nè al tempo dei bizantini. ...Li Slavi nell'Istria non cominciano a figurare che appena col 1400. Fra questo e l' 800 si ha certezza di Slavi venuti, come tutto persuade a credere, dal Carnio, perchè Sloveni, collocati nelle parti montane del Triestino, nell'Egidano, nell'Emoniense, nel Pinguentino, nel Pisinese, nel Petenate, frammisti agli avanzi dei Celti e dei Latini; ondate frequenti ai confini di popoli, ove or l'uno or l'altro avanza o retrocede, secondo tempi propizi od avversi, sia in guerra sia in pace.
- I documenti qui ricordati trovansi nel Kandler, Cod. dipl, istr., — nel Schumi, Urkunden und Regestenbuch fur Krain, Lub. 1882; — e nel Minotto, Acta et Diplomata a r. tabulano veneto, Ven. 1870.
- Lo stesso Fra Paolo Chiachich del convento illirico di S. Gregorio di Capodistria mette dopo il mille la venuta degli Slavi nell'Istria. — Kandler, Istria, a. I.
- Istrumento conchiuso il 10 febbraio 1199 fra Pribisclavo gastaldo di Barbana ed il conte di Pola.
- De Franceschi, Note storiche, p. 352.
- Raimondo d'Agiles, Historia Francorum qui ceperunl'Ierusalem.
- Racki, Mon. Slav. Mer. VII pag. 206-210.
- Kandler, Cod. dipl, istr., 5 maggio 1325.
- De Franceschi, Studio critico sull'istrumento della pretesa reambulazione di confini del 5 maggio 1365, pag. 39.
- Kandler, Cod. dipl. istr. — Osserva il De Franceschi, Note storiche, pag. 354: questa denominazione speciale di villa degli Sclavi indica senz' altro che le altre ville non erano occupate da Slavi, e che questi abitavano quel luogo da non lungo tempo. — così il nome di Passiavas (villa dei cani) dato da essi alla villa Decani, che prese il nome dalla famiglia De Cano di Capodistria che ne fu proprietaria nel i3oo e nel successivo 1400 li mostrerebbe apparsi colà appena a questo tempo, cioè dopo le grandi pesti del 1348 e 1361.
- Manzano, Annali del Friuli, II, 286.
- Kandler, Istria, VI, 27 e 28.
- Kandler, Cod. dipl. istr.
- Kandler, Cod. dipl. istr. a. 1300 circa.
- Senato misti, XXV, (Atti V, 58), 1349, 29 marzo.
- Lo assicura G. Stradner, Rund um die Adria, Graz 1893, pag 36, il quale vi aggiunge: «laonde Dante poteva allora scrivere: il Quarnero che Italia chiude e i suoi termini bagna».
- Il Tommasini, Commentari, I, e.15 scrive: Li primi e più numerosi degli altri sono li Schiavoni che altri chiamano Slavi, che vengono dalla Dalmazia o Schiavonia, antico Illirico, popoli forti ed atti alle fatiche, e sono sparsi per tutti i luoghi, anzi al presente la lingua slava si è fatta comune quasi per tutto, e le genti di molte ville non sanno nemmeno pronunciare l'italiana. Questi l'anno 966 invasero la provincia e distrussero principalmente il territorio di Parenzo, onde nel privilegio di Rodoaldo vengono chiamati nefandi Slavi e duri barbari.
Non è possibile, come vorrebbe il Tommasini, che la popolazione Slava nell'interno dell'Istria abbia l'origine dalle piraterie dei Croati e Narentani del sec. X. — Notevole è però il fatto che neppure questo vescovo attribuisce la presenza degli Slavi nell'Istria ad un periodo di tempo anteriore al 966. - ...quod tota Istria dici potest deserta ista de causa. Così nelle relative Commissioni ducali.
- Queste e le seguenti notizie riguardanti principalmente il ripopolamento dell'Istria sono tratte dalle publicazioni: Senato misti (Atti, v. IlI, a. 1887); — Senato secreti (Atti, v. VI, a. 1890, e vol. VII, a. 1891); — Relazioni dei capitani di Raspo (Atti, v. IV, a. 1888; v. V, a. 1889; v. VI, a. 1890); — Relazioni dei podestà-capitani di Capodistria (Atti, v. VI, a. 1890; v. VII, a. 1891; v. VIIl, a. 1892); — Relazioni dei provveditori veneti (Atti, v. II, a. 1886; v. V, a. 1889); — Kandler, Indicazioni per riconoscere le cose storiche del. Litorale. Trieste 1855; — De Franceschi, L'Istria, note storiche, pag. 348 e seg.; — T. Caenazzo, I Morlacchi nel territorio di Rovigno (Atti, v. I, a. 1885); — Bidermann, Die Romanen und ihre Verbreitung in Oesterreich. Graz 1877; — A. Marsich, Quando vennero gli Slavi nell'Istria (Arch. triestino, v. XIII, a. 1887); — B. Schiavuzzi, La malaria in Istria (Atti, v. V, a. 1889).
L'averli ricordati mi dispenserà dalle troppo frequenti citazioni. - Nella sola Polesana furono descritti nel 1563 campi 135, 632. — Tommasini, Comm. V, p. 474.
- Con questo nome di Morlacchi (sinonimo molto spesso di Va-lacchi) intendevasi allora quei Rumeni, o quegli Slavi, o quel miscuglio di ambedue questi popoli, che abitavano nelle province di confine della Turchia, donde emigrarono verso l'Adriatico. In generale però più che a determinare una popolazione etnograficamente, questo appellativo era usato ad indicare «i pastori venuti dai confini turchi» senza precisarne, la nazionalità. — Cfr. anche Bidermann, Die Romanen. pag. 88.
- Bidermann, Die Romanen, pag. 86. — Due secoli e mezzo più tardi il Tommasini, Comm. App. p. 515 scriveva: I Morlacchi che sono nel Carso hanno una lingua da per sè, la quale in molti vocaboli è simile alla latina.
- Kandler, Cod. dipl. istr. 13 marzo 1490. Linz. L'imperatore Federico ordina di espellere i mandriani esteri dal territorio di Trieste perchè distruttori delle selve e dei boschi. — Quiquidem et commodas pecori suo caulas struentes, et sibi ac familiae suae ignes immodicos continuis diebus ac noctibus parantes ita silvas et nemora territorii nostri devastarunt, ut jam populus iste noster unde vix usui suo Ugna comparet habeat.
- Tommasini, Comm. V, p. 405: Queste due ville di Abrega e Fratta sono più nuove di Torre. Una decisione del 1548 afferma che Villanuova poteva essere allora 22 anni che si era cominciata ad abitare.
- Kandler, Notizie storiche di Montona, p. 70: Fra le poche carte che ci riesci di raccogliere sull'Istria interna, ci accade di leggere un decreto dell'Imperatore Ferdinando I del 1535 per occasione che voleva collocati nella contea esuli Slavi di Bosnia e Croazia.
- Tommasini, Comm. V, p. 405. Sono circa 70 anni che questa villa di Torre venne abitata dagli abitanti nuovi venuti dalla Dalmazia e da Zara vecchia, fuggendo la barbarie turchesca; avanti qui non vi era cosa alcuna, ora è piantata di vigne e buoni terreni.
- Tommasini, Comm. V, p. 376. Parenzo ha fertile ed abbondante territorio con ricche ville accresciute da nuovi abitanti da un secolo in qua.
Scriveva il vescovo di Parenzo De Nores al Pontefice, nel 1592 chiedendogli dei preti slavi: hoc praesertim tempore, cum non paucae a serenissimo DD. venetorum dominio ex Turcarum confinibus in Istria deductae sinl'familiae. - Fu in quest' anno distrutto dai Morlacchi il bosco di Marzana il maggiore di tutto il contado.
- La polesana contava allora 4939 abitanti tra vecchi e nuovi, Dignano e territorio 2987.
- Tommasini, Comm. V, 482: Prontontore era unito alla villa di Pomero, dalla quale fu disunito l'anno 1632, e fatta parrocchiale, e va crescendo d'abitanti nuovi.
- Tommasini, Comm. III, 26: Sopra S. Floriano (presso Grisignana) si vedono le vestigie d'una villa di abitanti nuovi, che si chiamava Villa amorosa già 40 anni in essere, ed ora non ha neppure un abitante.
- Tommasini, Comm. V. 434: Tutti gli abitanti dei Due Castelli ville e territorio (150 fuochi, anime 700)... sono tutti forestieri, morti li naturali, non vi sono persone civili, essendo queste estinte e ritirati ai luoghi più vicini e di miglior aria.
- Tommasini, V, p. 404: Fontane e villa nuova fatta abitare dalli Signori Borisi.
- Tommasini, Comm. V, p. 429. Vien tutto il territorio di S. Vincenti abitato da genti slave venute ad abitar qui dalle montagne di Morlacchia per l'incursion dei Turchi, onde murlacchi anco si chiamano, e questi attendono alle terre e li Cargneli alla mercanzia.
- Tommasini, Comm. V, p. 488: Ha una bella villa detta Filipano abitata da Morlacchi. Conta 400 abitanti.
- Il Malipiero nella sua Relazione del 29 giugno 1583 assegna alla Polesana 3800 anime; il Rhenier in base alla descrizione generale fatta nell'agosto 1584, 4071; il Salamon in base a quella del 1588, 4507; il Memo nel 1590, 4939 (a Dignano e territorio 2987); il Basadonna nel 1635, 4293.
- Tommasini, Comm. V, p. 419: al tempo del Manzuolo, si affittava l'entrata di questo contado (di Pisino) per fior. 17000 all'anno, ma al presente vengono stimate da 25000. — Ciò significa che anche la popolazione della contea si era in questo periodo di tempo sensibilmente accresciuta.
- Il Provveditore Gir. Priuli scriveva nella sua Relazione 21 aprile 1659:.. «poichè havendo tanto premuto l'Eccellentissimo Senato per popular la Provincia negli tempi andati et presenti con spesa di tant'oro, et di terreni di pubblica ragione concessi a suddeti venuti dal paese Turco, così che non è huomo che costi più de 40 in 50 ducati per la somministratione di denaro, biave, legnami, ferrarezze, instrumenti rurali, et bovi, ascendendo i capitali di Vostra Serenità a credito di centenera di migliara de lire...».
- Il confine fra Croati e Sloveni è oggi segnato dalla Dragogna e da una linea che dalle sorgenti di questo fiume andasse attraverso la Ciceria sino a Castelnovo. cosìcchè l'estrema linea meridionale degli Sloveni sarebbe segnata da Carcauze, Costabona, Trusche, Socerga, Valomvrasa, Rachitovich, Castelnovo, Studenagora, Ielsane, Novocrazine, Sussak, Zabisce, Podgraie; e dirimpetto a questa starebbe l'estrema linea settentrionale croata con Castelvenere, Merischie, Obscurus, Topolovaz, Gradina, Ielovize, Golaz, Pogliane, Razzize, Maloberdo, Rupa, Lisaz.
- A S. Lorenzo del Pasenatico abbiamo appunto un esempio della continuità dell'elemento italiano indigeno nelle borgate maggiori dell'interno della nostra provincia. In un contratto del i325 troviamo, qui menzionate 16 famiglie tutte italiane: — e nel libro di questa parrocchia intitolato «Anniversario de' morti che si annunciano ogni Domenica dell'anno dal Pievano di S. Lorenzo, riportati dal libro vecchio sino all'anno 1696» fra il 1500 ed il 1600 troviamo registrati, come fu detto, i nomi di ben i33 famiglie prette italiane.
Tommasini, Comm. App. p. 515: Usansi indifferentemente a Pin-guente due lingue, schiava ed italiana, ma nel castello più l'italiana e la schiava di fuori. - Relazione del Prov, Contarini (Atti, V. 104) — Tommasini, Comm. V, p. 434.
- E nel 1. V, p. 429 parlando del territorio di S. Vincenti: i Morlacchi attendono alle terre e li Cargneli alla mercanzia.
- Relazione del Prov. Basadonna (Atti, v. V, a. 1887.
- Tommasini, Comm. II, e. 6. Nel 1649 nei luoghi soggetti alla Serenissima 49,332 anime, dei quali 13,514 fra i 15 ed i 60 anni. — Diocesi di Cittanova anime 5000 circa.
- Rapporto sull'Istria al vicerè d'Italia nel 1806 del Cons. Bargnani (Porta orientale, p. 128).
- Come avvenne p. e. coi Morlacchi della villa di Rovigno. — T. Caenazzo. I Morlacchi nel territorio di Rovigno (Atti, II; a. 1885, p. 136).
- P. e. quelli che si accasarono nel territorio di Monspinoso condotti dal Padre Porubba, e fondarono la villa di Dracevaz. — Il relativo atto d'investitura è publicato. nelle Note storiche di C. De Franceschi, p. 365, n. 3.
- T. Caenazzo, Op. c. pag. 139.
- S. M. Ivancich, Uso del glagolito ecc., pag. 15: Contro l'uso del glagolito importato dai Terziari nell'Istria a Capodistria, Cittanova e Visinada, sorse nel 1593 (Proti porabi glagolice, koju su Trecoredci na vidik iznasali usred Istre, ustade ecc.) il vescovo Sozomeno...
- Atti e mem. della Società istriana di Storia patria, II, a. 1886, p. 185 e seg. — Klodich cav. de Sabladoski, Slavische Sprache und Literatur (Die oestung. Monarchie; — Kustenland, pag. 238).
- Biografia di Stefano Console (Istria, a. I, 1846, n. 1); Sue opere Istria I, n. 24, pag. 99).
- Il Vergerio fu nel 1546 vescovo di Modrussa nella Croazia.
- Ch. H. Sixt. Petrus Paulus Vergerius, papstlicher Nuntius, Katholischer Bischof und Vorkämpfer des Evangelismus. Brunswick 1871; — Dimitz, Geschichte Krains. Lubiana 1874. v. I, 2, p. 229.
- Dimitz, Gesch. Krains, I, 2, p. 238.
- Dimitz, Gesch. Krains, I, 2, p. 259.
- Dimitz, Gesch. Krains, I, 2, p. 278. — Nè vi mancarono i Castuani Mattia Garbich, Giorgio Svecich e Giorgio Iurisich. Klodich-Sabladovski, Op. Cit. pag. 240.
- Kandler, Indicazioni, pag. 65.
- Breve di Urbano VIII, 29 aprile 1631 (v. la nota 161).
La Storia della lingua e dei libri ecclesiastici glagolitici antichi contenuta nei §§ 41-47 del Ginzel ci dimostra come l'Istria non ebbe parte alcuna diretta od indiretta nella compilazione di questi messali. - Questo messale glagolitico fu ristampato nel 1688, nel 1706 e nel 1741.
- Literae Urbani P. VIII, 29 apr. 1631 ... quum itaque, sicut accepimus, Missale idiomate Sclavonico, olim a fel. rec. Ioanne VIII praedecessore nostro concessum, a centum circiter annis typis editum non fuerit, nos... inpenximus, ul'illud praefato idiomate Slavonico ad usum et commodum eorumdem Christifìdelium Ecclesiarum, locorum et provinciarum ubi ìiaclemis praefato idiomate celebratum fuit, imprimi curarent... Propterea prohibemus omnibus et singulis Presbyteris et Clericis eorumdem Ecclesiarum, locorum et provinciarum, ubi hactenus, ut praefertur, idiomate Slavonico celebratum est, ne elapsis octo mensibus a die publicationis praesentium in Urbe, alio quam hujusmodi, novo Missali, itisi maluerint Latino, untantur. — Ginzel, Codex, pag. 97.
- Giov. Pesante, La liturgia slava con particolare riflesso all'Istria. Studio. Parenzo, 1893, pag. 59.
Era già in corso di stampa il nostro lavoro, quando comparve il succitato studio del Canonico parentino. Questo studio ci permetterà di aggiungere qua e là qualche notizia importante, che l'egregio Mons. trasse da ms. tuttora inediti, esistenti negli archivi episcopali della nostra provincia. - Costituzione Quod primum del 14 luglio 1570.
- Relazione del vescovo di Parenzo Giovanni Lipomano del 1601: I sacerdoti illirici della sua diocesi oltre ai libri scritti in illirico «nulfos alios libros latinos italicosve habentur in usu». Egualmente nella relazione del 1604 ove di questi sacerdoti dice: «nec latinam nec italicam linguam calleant, sed solum illiricam».
- Cum in maxima ministrorum penuria constituti sumus... scriveva il vescovo di Parenzo De Nores al S. Pontefice nel 1592.
- Volarich, Suppl. al. n. 136, col. 6. «Porro in Diocesi, quae per satis ampia est et in qua multae sunt Collegiatae ecclesiae, plures Parochiales, nullus ex Canonicis neque Parochis deest, omne suo funguntur munere, atque scio neminem, qui scandalum aliquod praebeat, quinimo et verbo et exemplo omnibus prosunt, atque praelucent. Unum tantum est, quod maiores profectus impedit atque retardat. Nam cum omnes Illyrica utantur lingua, vix Breviarium et Missale vetus cum quodam parvo manipulo apud illos reperitur, ob quod incomodum in maxima optimorum librorum inopia versantur. Pluries de hac re ad summos Pont: scripsit Episcopus, pluries etiam fuit ili spes data, quod quam primum imprimerentur, nihil tamen hactenus majoribus negotiis impeditis, morteque praeventis effectum est. Vestrum erit Illustrissimi Domini in re admodum Cultui Dei necessaria, nedum huic Diocesi, sed et toti Istriae et Dalmatiae, reliquisque Provinciis quae idiomate Illirico utuntur providere. Nihil enim Deo gratius nihil acceptius ac populo toti necessarium praestare poterunt».
- Ughelli, Italia sacra, V, 395: Diocesi di Parenzo.. Ampia satis Dioecesis est, quae partim Venetam partim Austriacam ditionem attingit, magna ex parte Illyrica utens lingua, quae natio eo est in hac dioecesi populosior, quod multi ex Turcarum tyranide huc se recipiunt.
- Supplemento cit. col. 8.
- Crediamo che altro non possa essere il senso delle parole «nam cum omnes Illyrica utantur lingua, vix Breviarium et Missale vetus. apud illos reperitur, ob quod incomodum in maxima optimorum librorum inopia versantur». — Siccome qui si parla di fedeli slavi e di parrocchie slave, il Missale vetus non può essere il missale latino, di cui gli Slavi non avevano bisogno, e di cui non c'era carestia, perchè publicato non più di 20 anni prima, ma bensì il Messale glagolitico antico che essi, per poterlo usare, dovevano, secondo il concilio di Trento, dimostrare essere stato approvato dalla S. Sede, ed essere in uso presso di loro per lo meno da 200 anni.
- Così nel 1603 il vescovo di Trieste Ursino De Berthis scriveva alla S. Sede che principalmente nella parte della diocesi soggetta al dominio veneto si trovano «plures sacerdotes ex ritu Illirico et Sclabonico», il che gli riesciva di grande incomodo nella sua visita canonica.
- Parochos illos lingua illyrica celebrantes, quos asserit (tua am-plitudo) correctione indigere, prò suo munere corrigat. — Atti ms. del vescovo Ingenerio, v. II.
- Rubeis, Mon. Eccl. Aquil. CXVII, pag. 1106.
- Concilium provinciale aquileiense primum, celebratum a. D. 1596. (Como 1599) pag. 27. Cap. De divinis ofjìciis... Qui Illyricam oram coliinl'episcopi, in qua Breviarium et Missale lingua Illyrica in usu ha bentur, curent ut illa diligenter adhibitis doctis et piis viris, qui linguam illam callent, revideantur et emendentur. Optandum tamen esset ul'episcoporum illyricorum diligentia sensim Breviarii Romani usus cum Missali item Romano et Rituali Sacramentorum induceretur: quod effìcere pro eorum pietate ac prudentia non erit summopere digitile, si juniores Clericos et ex Seminarii scholis selectos, qui studio et ingenio magis proficiunt, exercere sensim coeperint, et ad opus hoc pium studiose promoverent. Haec in optatis. Exequutio praescribi non potest: praescribet autem prudentia illorum et singularis in Deum pietas.
- ...tamen ratio peragendae sacrae rei, et illa, quae tantopere Deo placet, consensio uniformi ritu recepta, maxime suadet ut in Aquileiensi provincia statuatur unica laudes Deo canendi et sacra obeundi officia forma.
- Di ciò tratta a lungo il Cap. De Seminario clericorum, pagina 87.
- Relazione del Barbarigo vicario del vesc. di Parenzo Lipomano, a. 1600: I preti sono poveri, per la maggior parte ignorantissimi. Molti di questi preti specialmente Morlacchi fanno vita disonesta e dissoluta. Molti furono condannati. (Kandler, Montona. p. 222). Theiner. Vet. Mon. Tomo II. pag. 330. Visitator apostolicus, episcopus Feltrensis, exponit statum reipublicae ragusinae, rationemque reformationis. Roma anno 1574... «Il clero ha molti preti di mala vita, per il più ignoranti, concubinari o almen con donne sospettissime in casa, poverissimi per il più servono alli nobili nelle cose profane et villi, tengono cura del grano, sale, carne nelle taverne, sino a far li vini, lavorar le possessioni, spazar le strade ed altri esercizii di maggior viltà, in vilipendio dell'ordine sacerdotale». Se questo era il clero nella civilissima republica di Ragusa, figurarsi poi quale esso fosse nel rimanente della Dalmazia ed Albania!
E nello Status ecclesiae Parentinae a. D. 1655; Relazione del vesc. G. B. Del Giudice, si legge: Virorum Monasteria diversorum ordinum decem, in quibus paucissimi religiosi, et prò maiori parte pessimi; qui cum extra Italiam (cum in Istria Italiae provincia sint) reperiri profiteantur non curarunl'in debitam obedientiam Bullae Innocentii X eorum statum referre... - De Franceschi, L'Istria. Note storiche, pag. 369.
- Kandler, Notizie storiche di Montona, pag. 70: Fra le poche carte che ci riesci di raccogliere sull'Istria interna, ci accadde di leggere un decreto dell'imperatore Ferdinando I del 1535 per occasione che voleva collocati nella contea esuli Slavi di Bosnia e di Croazia. Nel quale è memorabile la conferma dei barbari costumi di queste tribù, e la speranza che vi cedano; ma più di ciò è memorabile il fermo e ripetuto rifiuto degl'indigeni di accettare nella contea siffatti ospiti.
- Cfr. la nota 10.
- Cum in maxima ministrorum penuria constituti simus, episcopo facultas concedatur ul'aliquos ex illis e (Dalmatia) in suae Dioecesis subsidium accersire possit, ac eo praecipue, quod ad gentem hanc, quae illirica lingua utitur, instruendam, institutum sit Collegium. Così pregava il vescovo di Parenzo Cesare De Nores il sommo pontefice nell'ottobre del 1592. Cfr. la corrispondenza del P. Prov. Glavinich. — Starine, XXIV, a. 1891, sp. pag. 12 e 17. S. Congregazione 22 novembre 1632. Essendo per antica traditione stato concesso alla nazione illyrica di dichiarare li evangelii e le epistole nel loro idioma, perchè pochissimi intendono latino, et essendosi dall'antichità del tempo adolterate le reali e sincere dichiarationi, era introdotto che li sacerdoti ancora che ignoranti ex tempore dichiaravano detti evangelii et epistole con molte corruptele vane, ridicole e quasi heretiche interpretazioni. Op. cit. p. 25.
- Literae Innocentii P. X. circa Breviarium Romanum Illyricum datae 22. Februarii 1648... Quum igitur Illyrìcarum gentium, quae longe lateque per Europam diffusae sunt, atque ab ipsis gloriosis Apostolorum principibus Petro et Paulo potissimum Christi fidem edoctae fuerunt, libros sacros jam inde a D. Hìeronymi temporibus, ul'pervetusta ad nos detulit traditio, vel certe a Pontificatu fel. rec. Ioannis Papae VIlI. Praedecessoris nostri, uti ex ejusdem data super ea re epistula constat, ritu quidem Romano, sed idiomate Slavonico, et charactere S. Hìeronymi vulgo nuncupato conscriptos, opportuna recognitione indigere compertum sit: nos rec. mem. Urbani Papae VIII etiarh Praedecessoris nostri, qui Missa le Illyricum emendatum juxta nuperrimas illius reformationes charactere Hieronymiano, ac lingua Slavonica typis vulgari mandavit, vestigiis inhaerentes,..., mandavimus ul'Breviarium Illyricum, ante annos centum impressum, recognosceret, et ad formam Breviarii Romani Latini nuper a praedicto Urbano Praedecessore reformati in praedictam linguam slavonicam redigeret...; idcirco nos motu proprio,..., deque Apostolicae potestatis plenitudine,..., Breviarium praedictum tenore praesentium confirmamus et approbamus, typisque mandari jubemus. — Cfr. Ginzel, Codexi p. 99.
Delle medesime espressioni si serve il pontefice Benedetto XIV nella sua bolla «Ex pastorali munere» del 15 agosto 1754, togliendole dalla succitata bolla d'Innocenzo X: Cum itaque acceperimus in Ritum Slavo-Latinum, quem felicis recordationis Praedecessor Noster Iohannes Papa VIII fideli ac religiosae nationi Illyricae, una cum idiomate, quod nunc Slavum litterale appellant, et characteribus, quos Hieronymianos dicunt, adhibendum concessit.., Ginzel, Codex. pag. 102. - Volarich. Suppl. cit. col. 4; Rammemoraremo solamente le parole di Pio Pp. V. «Cum ob innumeras Romani Pontiflciis occupationes et particularium rerum quarumlibet status ignorantiam, contingal'ab eo litteras emanare, quae in magnum aliquorum praeiudicium redundare noscuntur, minime reprehendendum esse videtur, si tandem praeiudicio cognito litteras huiusmodi etiamsi Praedecessorum, tanquam per inadvertentiam editas revocat, et limital'aliasque desuper disponit, prout rerum et temporum qualitate pensata conspicit in Domino salubriter expedire»; ovvero se più piace quella sentenza d'Innocenzo III che dice: «Iudicium Ecclesiae nonnumquam opinionem sequitur, quam et fallere saepe contigit, et falli».
- D. Bartolini, Memorìe dei santi Cirillo e Metodio, pag. 73, 96, 100, 125, 128, 133, 155.
- Jaffè, Reg. pont. n. 2976, 14 maggio 873.
- Ginzel, Monumenta epistolaria de Ss. Cyrillo et Methodio agentia, pag. 57; —Jaffè, Reg. pont. n. 2971.
- Ginzel, Mon. epist. pag. 58.
- Ginzel, Mon. epist. pag. 59 e 61.
- Ginzel, Mon. epist. pag. 62.
- Bartolini, Memorìe, pag. 107.
- Bartolini, Memorìe, pag. 109 e 110; — Jaffè, Reg. Pont, n. 2979.
- E non «di Croazia e Schiavonia» come scrive il Bartolini, pag. 124, essendochè morto nella Croazia Domogoi, ebbero il trono Sedeslao e Branimiro. — Cfr. Dümmler, Ueber die ält. Gesch. der Slaven, p. 407; — Racki, Mon. Slavorum mer. v. VII, pag. 368.
- Racki, Mon. Slavorum mer. VII, pag. 363; — Jaffè, Reg. Pont. n. 2973.
- Parole che il Bartolini arbitrariamente traduce a pag. 125: Giovanni VIII aveva scritto al duca Montemir di rivolgersi a Metodio arcivescovo per gli Slavi.
- Antichità (Starine ecc). Zagabria 1880, vol. XII, pag. 206 e seg.
- Si trovano nel Ginzel col titolo Codex legendarum de SS. Cyrillo et Methodio, e formano l'appendice della sua Storia di questi santi?
- Così scrive il card. Bartolini stesso, Memorie, pag. VII.
- Sono parole del card. Bartolini, Memorie, pag. XIV.
- Memorìe, pag. 81.
- Cfr. specialmente Iv. Crncich, Sui nomi «Sloveno ed Illirico» nel nostro ospizio di Roma dopo il 1453 (Prilozi k razpravi ecc.) publicato nelle Antichità (Starine ecc.), Zagabria 1886, tomo XVIII, pag. 1 e seg.
- Crncich, Op. cit. (Ant. XVIII) n. 4, p. 8: heremitarum Dalmatiae seu Illiricae nationi... Dalmatica tamen seu Illirica natio. Così n. 8, p. 16; n. 20, p. 36, n. 21, p. 38 ecc. ecc. — Mons. Stratico (dalmato) vescovo di Cittanova scriveva nel 1783: «Conservare nella nazione il nobilissimo privilegio della sacra ofjìciatura in lingua nostrale, privilegio antichissimo che fin dal nono secolo autorizzato da Giovanni Vili ai Dalmatini suoi nazionali, è stato... M. Ivancich, Op. cit. p. 53.
- Cardinalis Hosius Polonus: «Cum praesertim Dalmatica lingua sacros libros Ilieronymum venisse constet. Moravos, Silesios, Mosovitas, Ruthenos et alios innumeros fere populos per Europam et Asiam qui non solum lingua sed literatura Illyricae linguae utuntur, Slavos appellare possumus.
Idioma Slavorum seu Illyricorum maiorem Enropae et Asiae maximam portìonem incolit ut declarat sapientissimus Urbanus glor.me. Papa VIIl in Bulla institutionis collegij Illirici Laurentani. Antichità (Starine), XVIII, n. 68, pag. 101. - Così è scritto il suo nome nel libro dei morti di Ragusa, Folio 15, n. 274, il 10 decembre 1638.
- Al titolo: Il monumento al Gundulic,si legge nel Diritto Croato del 7 giugno 1893 a. V. n. 35: «I Croati come pochi popoli vantano un passato ricco di pagine gloriose. E non sono solo glorie raccolte sui campi cruenti di battaglia; sono pure conquiste fatte sul campo della civiltà, di cui i Croati vanno a ragione superbi... Ed appunto uno di questi astri fulgidi, uno di questi gloriosi suoi figli è Ivan Gundulic. Come in pio pellegrinaggio i Croati accorreranno numerosi nella città (di Ragusa) ch' ebbe l'onore di essere chiamata l'antica Atene croata.
- Plinio, III, 46, 126, 133; — Strabone, V, 1, 1; VII, 5, 3; — Benussi, L'Istria sino ad Augusto, pag. 309.
- Böcking, Notitia dignitatum in partibus Occidentis, 2; — Marquardt, Röm. Staatsverwaltung, I, p. 81; — Wiltsch, Kirchliche Geographie von den Zeiten der Apostel bis zu dem Anfange des XVI Ihdt. Berlino 1846, I, pag. 62; — Kiepert, Lehrbuch der alten Geographie. Berlino 1878, II, p. 352 e seg.
- Sulla base appunto della costituzione dell'imperatore Costantino il pontefice pretende, contro l'arcivescovo di Salisburgo, spettargli il diritto di disporre per Metodio della diocesi Pannonica. Dììmmler, Gesch. des ostfrànk. Reiches. II, p. 263.
- Responsio Hieronymi Pastritij 18 februarii 1652: Non obstal'quod nonnulli ex adverso adducti scriptores Carniolam compraehendant in Illyrico una cum Stiria, Carintia et Histria, quia praeterquam Histria ab Augusti Caesaris divisione semper fuerit inclusa in Italia, ut innumeri antiqui et moderni scriptores praecise tenent, praedictae aliae regiones... Starine, XVIII, n. 68, pag. 100.
- Provinciam veram et propriam nationis Illyricae iuxta Bullam et mentem Sisti V, fuisse et esse intelligi debere Dalmatiam sive Illyricum, cuius partes sunt Croatia. Bosna et Slavonia, exclusis penitus Carinliae, Styriae et Carniola. — Crncich, Op. cit. (Ant. XVIII) n. 87, pag. 160.
- Interessante anche per il nostro assunto è la questione agitata a Roma negli anni 1651 e seguenti, sul valóre della frase: «nazione illirica o sclavonica».
Nel 1651 era sorto il dubbio se all'ospitale «S. Hieronymi Illyricorum seu Sclavonorum», potessero essere accettati i carniolici, o, in altre parole, se la provincia della Carniola «sit illyrica seu sclavonica». Il 18 gennaio 1652 fu decretato non essere questa provincia illirica, ma germanica (Crncich Op. cit. n. 66, p. 87). Molti però non si adattarono a questo responso, ed allora fu incaricato il Pastrizio, professore di glagolitico nell'istituto romano ed espertissimo in tali studi, a riferirne in proposito: ed egli presentò il suo responso 18 febbraio (n. 68, p. 90), che qui riportiamo per sommi capi. «Nella Chiesa di San Girolamo degli Illirici sono da distinguersi: I, l'ospitale fondato nel 1453 «prò suscipiendis in eo specialiter pauper-rimis peregrinis Dalmatiae seu Illyricae nationis»; II, la Collegiata eretta da Sisto V nel 1589 «prò personis dictae nationis illyricae»; III, la congregazione per il governo dell'ospitale. Per poter dare alle varie determinazioni il loro giusto valore convien distinguere, — scrive sempre il Pastrizio, — l'Illirico naturale o proprio, dall'Illirico generale o comune. Il primo, dai Romani in poi per l'unanime assenso di tutti gli scrittori, comprendeva la Slavonia fra la Drava e la Sava, la Croazia, la Bosnia e la Dalmazia (nella quale si trova la contea di Zara una volta detta Liburnia): altri comprendono in questo Illirico soltanto la Croazia (antica Liburnia) e la Dalmazia chiamata volgarmente Schiavonia ed estesa dall'Arsa alla Boiana. L'Illirico universale comincia dalle sorgenti del Danubio e del Reno e va fino al mar Nero a Costantinopoli ed al mare Egeo. Poi prosegue: Quando Sisto V eresse nel 1589 la collegiata di S. Girolamo degli Illirici, nelle sue lettere apostoliche su tale fondazione scrisse: — «Iuxta quam Ecclesiam est Hospitale Nationis Illyricae prò suscipiendis in eo specialiter pauperrimis peregrinis et infirmis ex ea Provincia» — Colla parola Provincia nel numero singolare non intese egli di comprendere l'Illirico generale con tutte le sue regioni, ma volle restringersi all'Illirico vero e proprio, quale esisteva al tempo del detto Pontefice, e nel quale sono contenute soltanto quattro regioni, la Slavonia, la Bosnia, la Croazia e la Dalmazia. Ciò è provato dalla inconcussa osservanza mantenuta per oltre i5o anni durante i quali furono ricevuti infermi delle dette quattro regioni, ma nessuno della Carinzia, Stiria o Carniola. I carniolici per la bolla di Gregorio XIII del 1573 erano accolti nel collegio germanico. Egualmente Urbano VIII nel ristabilire nel 1580 il collegio illirico a Loreto «prò viginti alumnis nationis Illyricae», assegnò otto posti alla Dalmazia, e gli altri otto alla Bosnia ed alla Slavonia (inter Savum et Dravum constituta). Nè può ostare il fatto che, — sono sempre parole del Pastrizio, — alcuni scrittori carniolici comprendevano nell'Illirico, insieme con la Stiria, la Carinzia e l'Istria, poichè, prescindendo dall'Istria che dalla divisione di Cesare Augusto in poi fu sempre inclusa nell'Italia, come innumerevoli scrittori antichi e moderni l'espressero indubbiamente, le predette altre regioni sono comprese nella Germania. Nò vi osta che i Carniolici coi Carintiani, Stiriani ed Istriani da alcuni scrittori sieno chiamati Slavi, perchè presso di loro havvi una larva della lingua slava — imago slavicae linguae». — Fino qui il Pastrizio. Nel 1652 sorse di nuovo questione per un canonicato (n. 75 p. 110) «ad S. Hieronymum Illyricorum prò natione illyrica creatum». Il rev. Giorgio Crisanio, croato, riferì che secondo la Bolla di fondazione non vi poteano essere promossi che coloro «qui sint gente et lingua Illyrica», laonde ne erano esclusi gli Albanesi ed i Carniolici. Siccome poi alcuni pretendevano che potessero esservi promossi anche gì' Istriani, mentre altri gli escludevano, furono assunti una serie d'interrogatori, interessanti per farsi una idea della confusione e delle contradizioni che regnavano in tale proposito: e poscia tutti i documenti ed i protocolli vennero deferiti alla S. Rota a Qìnchè si pronunciasse sull'argomento. E questa, come è noto, pronunciò, sentenziò, e decise il 24 aprile 1656 (Crncich, Op. cit. n. 87, p. 160): «Provinciam veram et propriam Nationis Illyricae iuxta bullam et mentem Sisti quinti fuisse et esse ac intelligi debere Dalmatiam seu Illyricum, cuius partes sunt Croatia, Bosna et Slavonia, exclusis penitus Carinthia, Styria et Carniola, et oriundos ex dictis quatuor regionibus Dalmatiae, Croatiae, Bosnae et Slavoniae tantum admitli posse ...». E così fu troncata ogni questione. - Theiner, Mon. Slav. merid. v. II, 17 maggio 1679.
- P. Phil. Riceputi, Prospectus Illyrici sacri. Roma 1738, pag. 11: Pola, quae licet Cathedralem habeat in Istria, Italiae provincia, dioecesim tamen in Liburniam Illyrici partem protendit.
- Suppl. cit. col. 6. — L'ameno poi si è che in quella carta del frate di S. Girolamo restano escluse dalle province illiriche tutta la Carniola, la Stiria, l'Ungheria, la Serbia, l'Albania. — Non si può negare che vadano molto bene d'accordo fra loro.
- A dimostrare che l'Istria era stata sempre compresa nell'Illirio, Mons. Volarich afferma che Strabone «Venetos ipsos Illyricos nominat, e che Ferdinando I nella sua lettera al pontefice (a. 1549) intorno alla diocesi di Pedena, si esprime: quam tenuis quamque exiguus sit Episcopati Petenensis in Illirio ditionis nostrae».
Riguardo al primo punto, preghiamo Mons. Volarich a rileggere Strabone; riguardo al secondo, V Illirico è una espressione amministrativa inventata nel medesimo modo che s'inventò la lingua illirica per indicare nuli' altro che lingua slava. l'uso che si fece nei secoli XVI e XVII di questo nome d'Illirico — e gliene potremmo portare non uno, come fa Mons. Volarich, ma a diecine gli esempi — non muta nulla al significato ed all'estensione ch'ebbe l'Illirico romano e l'Illirico ecclesiastico, come le province illiriche di Napoleone non rovesciano le province illiriche di Giovanni VIIl, nè spiegano quelle d'Innocenzo X. Nè maggior valore ha l'argomento che nell'ospitale di S. Girolamo degl'Illirici fossero pure accolti gl'Istriani (Crncich, Op. cit., p. 103): essendochè si ricoverassero anche persone di Cividale, dell'Apulia, dell'Abruzzo, di Ortona dei Marsi, di Lanciano ecc. (Crncich, Op. cit. p. 102 e 109), paesi che nessuno si sognò mai di comprendere nell'Illirico. — Nel 1515, appartenevano al curatorio della società di S. Girolamo in queir ospedale un Bortolo da Cremona, un Domenico da Parma, guardiano, un Battista da Fermo, camerlengo. Cremona, Parma, Fermo, erano forse terre illiriche? - Lo scrive iI Ginzel, Gesch. § 45, pag. 165, persona non sospetta quando dice di simili cose.
- Il Kassich nella sua lettera ad Urbano VIIl nel 1636 si esprime in questi termini: Perdifjìcile enim erat Illyricis sacerdotibus non paucis sacros ritus latino eloquio scriptos intelligere, eosque in praxi exercere, apud quos non ea latinae linguae vipet eruditio, ut possint exequi praescripta rito recteque, sicut oportet. — Assemani, Kalend. IV, 428.
- Constitutio Benedicti P. XIV, 15 agosto 1754... Cum itaque comperimus... nonnullos esse qui audeant Missas insertis orationibus et precibus Slavo vulgari sermone conscriptis, componere .. mandamus ut omnes qui Ritum Slavo-latinum profitentur... Missalia, Tabellas et Breviaria characteribus Hieronymianis impressis typis... et Slavo-latinum idioma quemadmodum per plura anteacta saecula ab Illyrico Clero servatum fuit, ita deinceps teneantur.
Quocirca... Episcopis in quorum Dioecesibus Ritus Slavo-Latinus viget committimus ut... districti praecepti executionem curent, ac novi-tatis omnes irreptosque quoslibet abusus eliminent. Decernentes has nostras Litteras et in eis contenta hujusmodi, semper et perpetuo firma, valida, et efficacia existere et fore... on obstantibus contrariis quibusvis... decretis, privilegiis et indultis eidem nationi Illyricae, eiusque Ecclesiis, atque Praesulibus, quavis etiam Apostolica auctoritate concessis, ac iteratis vicibus confirmatis. Si quis hanc Nostrae declarationis paginam infringere vel ei ausu temerario contraere praesumpseril, indignationem omnipotentis Dei, ac Beatomm Retri et Pauli Apostolorum eius, se noverit incursurum. L'intera Lettera pontificia trovasi riportata dal Bullarium t. IV. Romae 1757, p. 223, nell'Appendice del Ginzel, pag. 102. - Non è esatto quanto scrive l'Ivancich, Rito glagolitico (Poraba glagolice) pag. 15, che nel sec. XVI ci fosse nell'Istria anche il convento dei terziari a Cittanova, perchè questo convento di Cittanova, ancora al tempo di AÌons. Tommasini (a. 1650), era tenuto ed officiato da frati domenicani. Cfr. Tommasini, Comm. III, e. 10, pag. 211.
- Relazione Del Giudice a. 1655, pag. 13.
- P. Ivancich, Op. cit. pag. 15. Le sue parole non sono ben chiare, ma credo questo sia il loro significato. Egli scrive: «Il vescovo li accusò di adoperare il glagolito in opposizione agli ordini ecclesiastici e vielò loro di celebrare la messa nelle chiese di città del vescovato altrimenti che in latino».
- Non si è però potuto trovare la relativa bolla pontifìcia. Cfr. M. Ivancich, Op. e. pag. 17.
- M. Ivancich, Op. cit. pag. 13: «È fuori di ogni dubbio che i Francescani (minori osservanti e conventuali) non usarono mai'della liturgia slava».
- S. Concilio di Trento Sess. 23. de ref. cap. XVIII. — Inculcato nuovamente dal concilio romano del 1725 sotto Benedetto XIII, e dalla Costituzione in esso publicata dal detto sommo pontefice.
- Atti ms. del vescovo di Capodistria G. Ingenerio, v. II, p. 181.
- Kandler, Indicazioni p. 65.
- Relazione del vicario generale Angelo Barbarigo del 1600 circa.
- La sua lettera è publicata nel Ginzel, Gesch. § 48, pag. 173.
- Ughelli, Italia sacra, V, p. 381. Additio del Colletti a. 1720. — Capodistria: Collegia duo, Illyricum unum seu seminarium Clericorum Illyricorum in solo aedium Episcopalium a Paulo Naldino erectum, alterum Patrum Scholarum Piarum pro totius Provinciae juventutis commodo.
- Ms. Cur. episc. «Erezione del Seminario». — G. Pesante, La lit. slava, pag. 133.
- Relazione del vescovo di Pola, e decisione della S. Congregazione 27 novembre 1660.
- Dell'Italia sacra si fecero due edizioni; la prima dall'Ughelli stesso nel 1660 (egli morì nel 1670), la seconda dal Coleti nel 1717 e seg. (il V vol. nel 1720). In questa seconda edizione sono stampati con tipi diversi quello che si leggeva nella precedente edizione da quanto vi aggiunse il Coleti: così si rende possibile l'attribuire le varie notizie alla loro epoca giusta. Le surriferite appartengono tutte alla prima edizione.
- Relazione del vescovo Marenzi, a. 1650: Draguch parochia habet parochum R. Andream Matcovich, aetatis 90 annorum, qui illirico sive Glagolitico idiomate Missas celebrat et sacramenta ministrat.
- Relazione del v. Marenzi, a. 1650: Sovignacho parochia parochum Matheum habet virum sufficientem cum cooperatore lingua glagolitica callente.
Non ricordiamo Ternova, ora della diocesi di Lubiana, perchè fuori del confine istriano. - Ughelli, Italia sacra, V, p. 38o .. Dioecesis exigua duobus tantum oppidis continetur. Reliquae Parochiae tredecim sunt, et in his sacra Illyrico idiomate celebrantur... plerique ex Illyrico huc commigrarunt.
- G. Pesante, La lit. slava, pag. 130 e 136.
- Folium Cur. episc. terg. iust. a. 1867, pag. 136; — G. Pesante, La liturgia slava, p. 111.
- A. Marsich, Quando e come vennero gli Slavi nell'Istria (Arch. triest. XIII, a. 1887, p. 428); — G. Pesante, La lit. slava p. 131.
- Adest Missale Romanum et more romano actenus celebratum est. Praesens Parochus primus attulit slavonicum et cum eo celebrat, qui novus abusus omnino est tolendus. — G. Pesante, Op. e 1. cit.
- Michele Voch Pleban. «Interr: Se celebri alla Romana in lingua latina. Re: Dico la Messa in schiavo. Cogitando quo modo per totam Dioecesim restituendo, sit Missa latina prout antea erat ne contagio serpat per alias Villas».
- Folium Cur. episc. Terg. Iust. a. 1870, p. 90, (G. Pesante. La liturgia slava pag. 108): Cumque (in parochiis ruralibus cultores illiricae sunt linguae, Parochi ut plurimum sunt rustici, et parum ad animarum curam habiles, et saepe in errores incidunt, quo fìt ut defectu et sacer-dotum penuria, qui illiricam linguam calleant, vel hujusmodi tollerentur, vel animadversio valde mitis evadat.
- Naldini, Corografia ecclesiastica della città e della diocesi di Giustinopoli. Venezia 1700. L. II, c. 3, p. 199.
- Ughelli, Italia sacra, V, p. 227. Diocesi di Cittanova... perangusta est. Sunt in ea oppida tria et vici decem, in quibus omnibus sunt parochiales ecclesiae, quarum Parochi sunt Illyrici et Illyrica lingua Dioecesanos instruunt.
- Ughelli, Italia sacra, V, p. 395. Diocesi di Parenzo... ampia satis Dioecesis est... magna ex parte Illyrica utens lingua.
- De Missalis, Breviarii illyrici romani et similium divinorum officiorum origine charactere... Opus in gratiam, decus, utilitatem tum nationis illyricae in Dalmatia, tum quoque cleri glagolitarum concinnatum a Ioanne Pastritio Dalmata Spalatensi... inchoatum ab anno 1688...
Il titolo in tutta la sua ampollosità ed i vari brani trovansi nel cit. Supplemento, col. 9. - Supplem. cit. col. 10.
- Breviarium romanum Slavonico idiomate, jussu S. S. D. N. Innocentii XI editum. Romae tipis et impensis Sac. Congregationis de Propaganda Fide MDCLXXXVIII. — Ginzel, Gesch. §. 44, pag. 164.
- Status ecclesiae Parentinae a. D. 1655. Relazione del vescovo G. B. Del Giudice: publicata dal Dott. Swida sotto il titolo di Miscellanea nel!' Arch. triest. XIV, a. 1888, pag. 13.
- Confr. la nota 166,
- M. Ivancich, Op. cit. pag. 15.
- G. Pesante, La liturgia slava, pag. 147, nota 1.
- Fol. Dioec. parent. pol. a. 1879, pag. 47; — G. Pesante, op. cit. pag. 149.
- Status dioecesis Polensis, a. 1701 publicata nel Folium Dioecesanum, a. IlI, Parenzo 1881.
- Idioma usuale est italicum fere in omnibus locis, aliquae tamen villae utuntur lingua illirica etiam in recitatione chorali divini offìcii et missis solemnibus tantum.
- La Diocesi di Pola nel 1701, secondo la Relazione del vescovo Bottari, comprendeva le chiese di: Pola, Fasana, Brioni, Pedreolo, Stignano, Gallesano, Lavarigo, Altura, Monticchio, Sissano, Pomer, Promontore, Medolino, Lisignano, Momorano, Marzana, Carniza, Dignano, Barbana, Castelnovo, Filippano, Albona, S. Lorenzo in Produba, S. Lucia in Schitazza, S. Domenica, S. Martino, Fianona, Cosliaco, Chersano, Villanova, Susgneviza, Pas, Vragna, Bulliunz, Lupoglavo, Sumberg. Poi nella Liburnia le chiese di: Fiume, Ciana, Castua, Veprinaz, Moschenizze, Lovrana e Bersetz.
- Ughelli, Italia sacra, V, p. 470. Diocesi di Pedena... sacra plerisque in locis hujus dioecesis ob linguae latinae imperitiam et sa-cerdotum inopiam Illyrico idiomate celebrantur.
- Ughelli, Italia, sacra, V. p. 38o. Diocesi di Capodistria... quamvis incolae Italicam linguam non ignorent, tamen plerique ex Illyrico huc commigrarunt, ac proinde lingua Illyrica fere loquuntur.
- Status dioec. Polensis a. 1701. Idioma usuale est Italicum fere in omnibus locis...
- Cod. ms. cur. episc. «Diversorum», Lippomano. — G. Pesante, La liturgia slava, pag. 118.
Queste conferenze, come fu detto, erano tenute in lingua italiana, «se alcuno, però, non sapesse dare il parer suo in italiano, lo potrà anco dir in ischiavo, se così parerà al vicario; ma di poi quel voto di colui detto in ischiavo sia riferito da un altro, interpretato in italiano». - E. Fermendzin, Corrispondenze sui libri glagolitici ecclesiastici fra gli anni 1620-1648 (Listovi o izdanju ecc.) nelle Antichità (Stanne), Zagabria 1891, tomo XXIV, pag. 8.
- Responsio Hieronymi Pastritij 18 februarii 1652. Minus obstat quod... et Istris a nonnullis scriptoribus appellantur Slavi, tum quia apud eos viget imago Slavicae linguae... Starine XVIII, n, 68, pag. 101.
- Status ecclesiae Parentinae a. D. 1655. Relazione del vescovo G. B. Del Giudice: Post Synodum, quam lingua italica typis traditam Parochis meis tam latini quam illyrici sermonis, prò eorum faciliori captu donavi...
- Decreti sinodali della diocesi di Ossero e Cherso publicati nella prima sinodo di Mons. Vescovo Giovanni De Rossi, celebrata il dì 11-13 aprile 1660. Venezia 1660.
- Cfr. ad es. Benussi, Abitanti, animali e pascoli in Rovigno e suo territorio nel sec. XVI. (Atti e mem. II, a. 1886, p. 120).
- Quanto grandi fossero gli attriti fra i vecchi abitanti e le nuove famiglie slave specialmente nella polesana, se lo può leggere nella relazione del Proveditore Lod. Memo del 1590, in cui fra altro si trova: «È tanto e tale l'odio tra Polesani e le nove nationi, che quando queste che di forze et di numero sono inferiori non avessero un parti-colar Protettore, ne seguirebbono al sicuro tra due fattioni diverse questioni et risse di momento grande».
- Relazione del vescovo di Parenzo Pietro De Grassi il 17 novembre 1730... sive parochi sive officiales ecc. ab Episcopo praeviis debitis examinibus instituuntur, cum hoc discrimine tamen, quod Parochis, qui in castris et terris gerunt sollicitudinem animarum latino idiomate examina proponuntur, illi vero qui campestribus dantur ecclesiis mos est quod sermone illirico interrogentur.
- Come vorrebbe il Volarich, nel Suppl. cit. col. 9.
- E sono: D. Agostino Corsi preposito di Pisino, D. Giorgio Florianis pievano di Gimino, D. Girolamo Fabris vice preposito di Pisino, D. Valerio Valentinis pievano di Visinada, D. Simone Covaz pievano di Torre, D. Giorgio Ferretich curato di Sbandati, D. Pietro Moro curato di Giroldia.
Di questi il quinto ed il sesto soltanto tradiscono nei loro cognomi l'origine slava. - G. Pesante, La lit. slava, pag 119.
- Ad ruralem Parochiam promovendus, in quo Illyrico idiomate utuntur incolae, examinari debet etiam an Illyricum calleat sermonem, cum ipse pecudum suarum vocem, et illa Pastoris debeant audire et intelligere. — G. Pesante, La lit. slava, pag. 120.
- Sinodo diocesano della S. Chiesa di Parenzo... celebrato nei giorni 16 e 17 giugno 1733. — Publ, a Venezia nello stesso anno 1733 per Cristoforo Zane. Cap. XIV, 3, 4, pag. 40.
- Sinodo cit. Appendice, pag. 75. Annotazione.
- E qui dobbiamo deplorare la leggerezza di Mons. Volarich che accusò la curia vescovile di avere soppressi gli atti del sinodo Mazzoleni per togliere alla parte slava un mezzo di difesa. Egli scrive nel già cit. Suppl. col. 8. — «Fummo assicurati, che dopo che Ginzel prese notizia di tale disposizione sinodale nella sua citata opera, sparirono dall'archivio della curia di Parenzo gli atti di quel sinodo diocesano». Quale motivo poteva mai avere la curia di Parenzo di far sparire dal suo archivio gli atti sinodali, se essi erano stati già publicati per le stampe?
- Dioecesana Synodus prima lustihopolitana quam 111. Ant. M. Borromeo d. 4 et 5 Maii celebravit anno 1722. Padova. Typis Conzatti. 1723.
- E sono: D. Giov. Tacco, D. Giov. Manzioli, D. Vinc. Ragogna, D. Andr. Tacco, D. Gir. Gravisi, D. Fil. Schiavuzzi, D. Giov. M. Corte, P. Mag. Fr. Ant. Peracha Ex-prov. dell'ord. m. conv. di S. Frane. Di slavi vi erano dunque soltanto il terzo e l'ottavo esaminatore.
- Dioec. Synodus cit. pag. 43.
- Dioec. Synodus cit. pag. 49.
- A. Marsich, Quando e come vennero gli Slavi nell'Istria (Arch. triest. XIII, a. 1887, Pag. 429).
- Sulle isole, nella chiesa di S. Antonio (Lussingrande), il registro dei battezzati ch'ebbe principio nel 1560, tenevasi dapprima in illirico. Nel 1674 mons. S. Gaudenzio ordinava che, sapendo ormai tutti i sacerdoti leggere e scrivere nelle due lingue, si annotassero i battesimi da una parte del libro in lingua slava, e dall'altra nell'italiana. Dal 1708 tanto il libro dei battezzati, quanto quello dei matrimoni si tennero esclusivamente in italiano. A Lussinpiccolo, i registri dei nati, morti e coniugati, tenuti dapprima in slavo, dal 1732 per ordine del vescovo Drassich, si tennero in lingua italiana. Il cappellano Don Gasp. Suttora vi annotava i battesimi in lingua italiana ancora nel 1608. Nel 1802 in tutta la parrocchia venne sostituita la lingua latina alla illirica in tutte le funzioni. — Cfr. G. Bonicelli, Storia dell'isola dei Lussini, Trieste 1869; — G. Pesante, La lit. slava, pag. 83, nota 1.
- Klodich-Sabladovski, Slavische Sprache und Literatur (Oesterr.-ung. Monarchie in Wort und Bild. Küstenland, pag. 211).
- Synodus dioecesana aemoniensis habita diebus 27, 28, 29 aug. anni 1780 sub. ill. D. Fr. I. D. Stratico ecc. — Padova, typis Seminarii 1781.
- Synodus dioeces. aemonensis, a. 1780 III, e. 1, p. 77: Vehementer optamus Clericos et Sacerdotes juniores praesertim in Illyricae popularis linguae peritia doctos esse, ut Dei verbo ministrando idonei fiant; ne unquam pauci, ac tenues nostrarum Ecclesiarum proventus extraneis distribuere opus sit, necessaria hac conditione in nostris deficiente.
Nos fortasse, Deo juvante, gravioris doctrinae libros Illyricos quandoque ad Sacerdotum Illyricorum utilitatem edemus. - Synodus dioeces. aemon. a. 1780. II e. 5, p. 58: In Conventualibus Missis popularis cantus aedifìcationem inspiret... Confermamus et omnino servari volumus usum canendi Illyrica lingua Epistolam et Evangelium, et celerà eo idiomate populo annunciari consueta.
- M. Ivancich, Rito glagolitico (poraba glagolice), pag. 55.
- E da questo publicata nella sua opera Geschichte der Slaven-Apostel Cyrill und Method und der slawischen Liturgie, Vienna 1861, §, 48, pag. 173.
- Ciò avvenne nel 1627.
- Abbè Paul Pisani. La Dalmatie de 1797 á 1815. Paris, 1893. Ecco quanto scrive a pag. 8 quest'autore del clero secolare alla fine del secolo XVIII: «La formation du clergè seculier ètait assez nègligèe: si de sujets choisis allaient ètudier au sèminaire illyrien de Lorette, et en revenaient capables de remplir des emplois importants, le sèminaires de Zara et de Priko, près Almissa, ne donnaient qu' une instruction èlementaire, et beaucoup de prètres n' avaient mème pas passe par là; ils avaient fait leur ètudes dans quelque presbytère, sans autre livore que le catèchisme du cardinal Baronius. Ces prètres observaient le rite illyrien, e' est-à-dire cèlebraient en langue slavonne, non pas pour affirmer, cornme on le fait aujourd'hui, les origines slaves de leur nation, mais parce qu' ils ignoraient absolument la langue Iatine.
Ed a pag. 105: «le prétres sèculiers de campagnes n' avaient souvent pour vivre que les honoraires de leur messes, 12 gazettes (25 centimes) par jour». - Klodich-Sabladovski, op. cit. pag. 237. Inoltre a Castua due messali glagolitici, l'uno del 1706, l'altro del 1741, e tre rituali con lettere latine e lingua illirica del 1640; a Bersez qualche libro di minor importanza.
- Klodich-Sabladovski, Op. cit. pag. 242. Inoltre un inventario del capitolo di Lovrana del 1574.
- Ad onta della proibizione vescovile.
- In mancanza di altri documenti genuini, incorporano gli Slavi nella letteratura glagolitica istriana il cosìddetto «Istrumento di reambulazione dei confini fra il patriarca Raimondo ed il conte Alberto II. di Gorizia» al quale affibbiano la data del 5 maggio 1275. Il Signor De Franceschi in un lungo e particolareggiato studio critico ha esuberantemente dimostrato essere questo preteso Istrumento «apocrifo e redatto nel secolo XVI da qualche capitanio della contea di Pisino a bella posta in lingua slava e con caratteri glagolitici, con l'intenzione di meglio mascherarne la falsificazione».
- Mons. Pesante, (Lit. slava) dopo avere annoverate (pag. 125-127) le numerose ordinazioni di messali quali risultano dall'esame degli atti dei vescovi di Parenzo fra il 1600-1778, conchiude a pag. 128: «Nel settecento ormai i libri illirici figurano solo qua e là come esistenti e ritrovati nelle sagrestie, assai raramente come oggetto di ordinazione del vescovo; di modo che da mons. Mazzoleni (1731-42) in poi si trovano di regola solo ingiunzioni di provvedere o aggiustare semplicemente il messale (latino) od il rituale (latino)».
- Cfr. la nota 184.
- Klodich-Sabladovski, Op. cit. pag. 237 [or 287].
- Volarich, Suppl. cit. col 10.
- Mons. Tommasini, Comm. IlI, c. 9; — Synodus diocesana aemoniensis a. 1780, III, c. 2, pag. 79.
- Mons. Tommasini, Comm. IlI, c. 10.
- M. Ivancich, op. cit. p. 56.
- Croniche ossia Memorìe storiche antiche di Trieste estratte dalla storia del P. Ireneo della Croce con annotaz. di G. Mainati, Venezia 1819.
- G. Pusterla, I Rettori di Giustinopoli, pag. 23.
- Ginzel, Gesch. § 48, pag. 173.
- Ginzel, App. pag. 182.
- Sulle isole del Quarnero, in quella vece, cioè nell'odierna diocesi di Veglia, secondo la relazione di Mons. Vitezich dell' 11 aprile 1857, la liturgia slava era usata nelle parrocchie di Bescanova, Castelmuschio, Dobrigno, Dobasnizza, Verbenico, Poglizza, Bescavalle, Ponte, e nelle curazie di Bescavecchia, Qornichia, S. Fosca. Micoglizze e Monte.
- Se poi il bano di Croazia Tomaso Bakac Erdedidi era convinto come ci assicura il «Diritto croato» (n. 35, a. V, 7 giugno 1893), che l' Istria fosse croata, e nell'anno 1596 si lagnò coll' imperatore Rodolfo II «de iniqua Pisini atque Istriae a regno Croatiae et sacra corona avulsione» questo è affare tutto suo; è un argomento che non ha nessun valore dinanzi il tribunale della storia. Forse l'imperatore gli rifiutò il capitanato di Pisino, che prima gli aveva promesso, per punirlo della sua ignoranza della storia istriana.
Amena poi è questa sortita del «Diritto croato»: «Su che cosa il bano si basasse, sul diritto storico o etnografico, non c'importa di indagare. Ci basta sapere ch' egli pensava un tanto e n' era convinto», - Prospectus beneficiorum ecclesiasticorum et status personalis cleri unitarum dioeceseon Tergestinae et Iustinopolitanae ineunte anno 1892.
- Status personalis et localis unitarum Dioeceseon Parentinae et Polensis ineunte anno 1893.
- Vedi la nota 216.
- Atti della Dieta provinciale dell'Istria, a. 1863.
- Atti ecc., a. 1868.
- «Osservatore triestino» 20 aprile 1878 n. 91, pag. 36o. Appello. La deficenza quasi totale di giovani candidati per lo stato sacerdotale che rimpiazzino i sacerdoti, i quali o per morte, o per in-fievolimento di forze, o per età avanzata più non reggono alle faticose mansioni del loro sacro ministero, desta nei cattolici di queste unite diocesi ed in chi le regge la più seria apprensione circa le angustiate condizioni, alle quali in prossimo avvenire vanno a ridursi l'esercizio del culto divino e la cura d'anime, la cui salutare e somma influenza sul corretto vivere, nonchè sul morale e sociale benessere delle popolazioni è suprema incontestabile verità.
Ad attenuare questa, fosse mai pur troppo fondata ed incalzante prospettiva, ed a prevenire possibilmente la grave jattura presentita dal pastore diocesano nella sua enciclica d.d. 2 febbr. a. e, i sottoscritti profondamente impressionati da questo allarmante stato di cose ed ottemperanti alla voce del loro Antistite, ch' è pur quella della grande maggioranza dei propri concittadini, si costituirono legalmente in comitato nel!' intendimento di promuovere acconciamente e con pari riguardo alle diverse nazionalità l'istruzione e l'educazione di studiosi familiarizzati colle lingue, coll' indole e col carattere dei propri conterranei, e presumibilmente proclivi ad abbracciare lo stato ecclesiastico. E ciò col dar animo a contributi spontanei, mercè dei quali si possa fino d'ora sussidiare nel lungo arringo scolastico un congruo numero di giovani qualificati, ed attivare fors'anco un convitto diocesano, od altrimenti istituire un numero corrispondente di annui stipendi. L'importanza e la santità dello scopo che si ha in vista... ed i pregiudizi gravissimi che deriverebbero, ove il clero secolare non s' avesse. a riprodurre fra noi in misura corrispondente ai più imperiosi bisogni della popolazione, varranno... G. dott. Dobrila, dott. Alber cav. Augusto, Burgstaller Gius.. Clescovich Spiro, Colognati Giovanni, Cosolo Giov., Cosulich de Teofilo Cumin Domenico, Deseppi Federico, Dragovina Carlo, dott. Ferrari Francesco, dott. Goracuchi cav. Aless., Gustin Giov., Gutmannsthal-Benvenuti cav. de Lodovico, Marenzi Marg. de Francesco, Marussig cav. Frane, Miniussi cav. Giacomo, Pascotini bar. Carlo. Piber Antonio, Porenta cav. de Carlo, Reinelt Carlo, dott. Righetti cav. Giov., dott. Scrinzi cav. de Giambatt., Tommasini cav. de Muzio, Valerio cav. Angelo. - Folium dioecesanum a Curia episcopali Parentino-Polensi editum. III. a. 1881.
Già nel primo anno (sett. 1880 — luglio 1881) si ebbe un introito di 3882 fior. - Lettera circolare dell'agosto 1882 dell'amministrazione del pio fondo pel convitto diocesano.
- La immediata direzione è affidata al sacerdote Don Nicolò Spadaro, catechista in queir i. r. Ginnasio, e la sorveglianza a Mons. dott. Francesco Petronio, Protonotario apostolico, e Preposito-Decano della Concattedrale di Capodistria.
- Come documento di storica importanza diamo qui trascritte le disposizioni di ultima volontà.
Trieste il dì 12 Gennaio 1882Io sottosegnato con croce non potendo per malattia scrivere l'intero mio nome (Giorgio dott. Dobrila Vescovo di Trieste e Capodistria) formo in istato di mente sana il seguente: CODICILLO 1) Dispongo ed è mia ultima volontà che col capitale complessivo di fiorini novantamila circa riportato in apposito registro consistente in carte pubbliche del valore di fiorini 68300 ed il rimanente in danaro, fin qui accolti dal Comitato costituitosi nel 1878 per ovviare alla penuria di sacerdoti secolari nelle Diocesi di Trieste e Capodistria, nel qual capitale è pure compresa la somma di fiorini quarantamila da me a tale scopo applicata, venga in base alla massima già sancita dal predetto Comitato col suo Appello 20 aprile 1878 istituita una fondazione di stipendi in favore di poveri studenti ginnasiali intenzionati di dedicarsi al sacerdozio secolare in queste unite Diocesi. Preferibilmente siano chiamati al godimento di questi stipendi meritevoli studiosi oriundi nei distretti giudiziali di Pisino, Pinguente, Volosca ed in prima linea Castelnovo. E qui esprimo il desiderio che nel conferire questi stipendi si abbia particolare riguardo ai miei parenti fino al numero di tre stipendi. Oltre a ciò raccomando che nel conferire questi stipendi si abbia speciale considerazione per quei studiosi che frequentano ginnasi dello Stato, non escluso quello regio di Fiume (Croato). Gli stipendi possono essere goduti per tutti i corsi ginnasiali da studenti meritevoli e per buona condotta e per progresso nello studio. 2) Colla premessa disposizione non intendo però di sottrarre il capitale prementovato e i suoi frutti all'originaria precipua sua destinazione, quella cioè di attivare un Convitto Diocesano; anzi è mia ferma volontà che nel caso riuscisse ai miei successori di attivarlo, rimanendo però sempre intangibile il capitale, i frutti derivanti da esso debbano essere devoluti al mantenimento degli alunni nel Convitto. Nell'accettare questi alunni dovrassi però riflettere alla disposizione fatta all'articolo precedente pel conferimento degli stipendi. — I giovani quindi che all'epoca dell'attivazione del Convitto si trovassero nel godimento degli stipendi sopra mentovati, dovranno od entrare tosto nel detto Convitto cessando lo stipendio, oppure andar privi del godimento dello stipendio medesimo. Questa disposizione però riguardante la devoluzione di questi stipendi a prò dell'eventuale Convitto Diocesano, la dichiaro valevole soltanto pel caso che il Convitto stesso venisse attivato o nella città di Trieste o in quella di Pisino, città queste che a ciò si raccomandano, la prima perchè il Convitto sarebbe sotto l'immediata vigilanza delle Supreme Autorità Diocesane, la seconda poi per viste economiche. — Se non avviene ciò, rimane ferma la prima disposizione cioè la semplice fondazione di stipendi ma sempre con riguardo al futuro Convitto Diocesano colle norme premesse. 3) Questa fondazione desidero che sia intitolata: Fondazione Rodolfiana la quale abbia a fruire dei diritti concessi dalla Legge 11 aprile 1881 N. 37, appoggiati sempre ed esclusivamente al Vescovo prò tempore in unione al Capitolo cattedrale di Trieste l'amministrazione del capitale fondazionale, ed il diritto di conferimento dei singoli stipendi da costituirsi cogli annui interessi del capitale stesso. — Questi stipendi sieno di due categorie, cioè per due terze parti ascendano a fiorini ottanta e per la rimanente terza parte ad annui fiorini cento. — S'intende da se che anche i fiorini ottanta sieno annui. Così disposi sul complessivo importo raccolto dal bene meritato Comitato (ai singoli illustri membri del quale anche in questa solenne occasione sento il dolce dovere di rendere i più vivi ringraziamenti per la caritatevole cooperazione, pregando pure all'anima di quelli che mi precedettero nell'Eternità), nella fiducia che esso Comitato non avrà nulla incontrario. E se poi non fosse questo il caso le sovraesposte mie disposizioni si restringano agli importi da me versati con fiorini trentamila Obbligazioni di stato rendita in carta e fiorini diecimila in denaro, nonchè all'importo di fiorini ventitre mila due cento in Obbligazioni di stato rendita in carta comperate da me con una somma rimessami da una pia persona ancora prima che si fosse costituito il Comitato e verso la quale, in seguito ad espresso di lei desiderio, mi obbligo di disporre, come ho disposto. In esecutore testamentario di questa mia disposizione nomino il Canonico mio Pro Cancelliere dott. Giovanni Sust. Questa la dichiaro la mia ultima volontà che prelettami la confermo col mio segno di (- con preghiera al testimone dott. Carlo de Porenta di scrivere il mio nome di Giorgio dott. Dobrila. Io dott. Carlo de Porenta apposi... Barone Giovanni Battista dott. Scrinzi Montecroce fui presente... Antonio Piber fui presente insieme agli altri due testimoni... (In atti dell'i, r. Tribunale prov. di. Trieste al N. 19211 dell'anno 1882). Per formarsi una chiara idea del benefìcio ridondante agl' Italiani della diocesi di Trieste-Capodistria da questo Codicillo, con cui Monsignor Dobrila disponeva, oltrechè della sostanza propria, anche del denaro raccolto dal Comitato triestino, basti sapere che i distretti giudiziari di Castelnovo e Volosca, che stanno fuori dei confini geografici dell'Istria, contano assieme, secondo l'ultima anagrafe uffiziale del 31 dicembre 1890, 730 Italiani, 41380 tra Croati e Sloveni, e 756 appartenenti ad altre nazionalità. 1 due distretti giudiziari di Pisino e Pinguente, posti entro V Istria geografica, contano uniti 1747 Italiani. 41082 tra Croati e Sloveni, e 98 abitanti di altre nazionalità. - Le due diocesi unite contavano al 3i decembre 1890 anime 433.500; delle quali 235.000 di nazionalità italiana, 172.000 slava, e 14.000 di nazionalità diverse, per la maggior parte tedesca.
- Oltre alla cattedra di slavo che devono frequentare nel ginnasio, vi ha nel convitto apposito maestro.
Nel testamento 11 luglio 1880, Monsignore lasciava alla pia Società «Druztvosvesjevlensko» in Zagabria, il legato di f. 1000, affinchè colla rendita di questo capitale fosse distribuito fra gli Slavi dell'Istria, e principalmente fra quelli del distretto politico di Pisino, un corrispondente numero di libri popolari che vengono publicati dalla Società predetta. Essendo ancora vescovo di Parenzo-Pola, Mons. Dobrila istituiva otto stipendi colla lettera fondazionale 26 Settembre 1875 N. 2033, dedicandovi il capitale di f. 20000, in favore di giovani nati da genitori slavi dalle parrocchie della diocesi, fuori delle città e borgate frequentanti un ginnasio austriaco od ungarico (croato): oppure una scuola reale con cattedra di lingua croata, o slovena, qualora la medesima sia obbligatoria per tutti gli scolari di nazionalità croata, e rispettivamente di nazionalità slovena, e con preferenza a quelli che promettessero di dedicarsi al sacerdozio. (Vedi l'ultimo Avviso di concorso dell'i. r. Luogotenenza di Trieste 11 Agosto 1893 N. 14470 dell'«Osservatore Triestino» N. 192). - Nota dell'Ordinariato vescovile in risposta a quella del Municipio di Trieste d.d. 5 ottobre 1891.
- Verbali del Consiglio della città di Trieste, v. XXVI. a. 1886, pag. 305.
- Nella Lettera pastorale dei vescovi dell'arcidiocesi di Gorizia 26 novembre 1887 si legge: «E proprio nella nostra provincia si ebbe ad udire un'enorme stonatura in mezzo a questa bella armonia. Il periodico Slovenski Narod, che pur si stampa in mezzo ad un popolo profondamente cattolico, e si vanta di promuovere i suoi interessi, ebbe l'impudenza di chiamare il venerando Vegliardo, il Capo di tutta la cattolicità, il nostro Padre comune, alla vigilia del suo Giubileo col titolo (inorridiamo a dirlo) di rifiuto del genere umano. Fogli di questa fatta, alla cui testa si trova lo Slovenski Narod, pretendono altresì d'immischiarsi nelle cose della nostra Religione e di prescrivere il rito e la lingua del culto divino nella Chiesa».
- «L'Istria», a. VI, 1887, n. 314.
- Il nunzio apostolico a Vienna, l' 11 maggio 1887 dichiarava che la conferma fatta all'arcidiocesi di Antivari del privilegio di usare nella s. liturgia la lingua slava antica «nullo modo adduci potest in favorem Slavorum, qui Montis Nigri principatui non subiecti sunt; anzi eccitava i vescovi della Monarchia a proibire» quominus hae de re a Slavis Vestrae iurisdictioni subiectis postulationes ad S. Sedem mittantur, quae necessaria analogia deficiente inter conditiones Archid. Antibarensis et Monarchiae Austro-ungaricae, petitionibus illis suffragari nullatenus posset.
- Don Krusnik, amministratore parrocchiale di Promontore.
- «L'Istria», 12 gennaio 1889, n. 370.
- La riproduce anche «L'Istria» del 15 aprile 1893, n. 592.
- Il prete Antonio Iakich venuto nel nostro paese da Podgora di Dalmazia, ed oggi spretato.
- S. Petersburger Herold, 14 (26) maggio 1893, anno XVIII, n. 134.
|
|
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.