La restituzione grafica di planimetria, alzato frontale e laterale, insieme a diversi dettagli esornativi, e la descrizione che li accompagna confermano che l'autore si stava soffermando sul tempio consacrato, secondo l'iscrizione in facciata da lui riportata con qualche imprecisione, ROMAE ET AVGVSTO CAESARI DIVI F(ILIO) PATRI PATRIAE, «augurandosi certamente» osserva Caprin- «[che] restasse a far scuola di nobile e spontanea eleganza». Il tempio della dea Roma e di Augusto, di 17,65 metri di profondità per 8,05 di larghezza e 12 di altezza, è in effetti un esempio di proporzione e armonia in grado di riassumere le caratteristiche salienti del tempio classico di ascendenza italica, a partire dal podio di base. Qui una breve scalea cinta da avancorpi laterali conduce al fronte tetrastilo, ritmato da slanciate colonne di ordine corinzio a fusto liscio su base attica. Il pronao di accesso, in accordo all'assetto prostilo della costruzione, mostra un accenno di peristilio sui risvolti, contraddetto subito in corrispondenza delle ante della cella, dove all'elemento colonna subentra una lesena ribattuta. La stessa risale anche gli angoli posteriori del tempio, in ossequio su un piano più estetico-visivo che realmente statico al principio di "firmitas" enunciato da Vitruvio. Un riferimento al trattatista di età augustea viene fatto anche da Palladio, il quale, sulla scorta del "De architectura" (III, 3, 2), riconduce le proporzioni del monumento al modello del tempio "systilos", dotato cioè di colonnato piuttosto aperto, con intercolumnio pari a due diametri di colonna. Il coronamento è costituito da frontoni aniconici impostati su una cornice di fitti modiglioni e su una trabeazione percorsa da un fregio a girali vegetali, assenti sull'epistilio anteriore, in parte ancora percorso dai fori cui un tempo si aggrappavano le lettere bronzee dell'iscrizione. Le nobili vestigia torreggiano a fianco del Palazzo del Podestà risalente al 1296. In tale contesto, visualizzare le parvenze dell'antico cuore religioso, economico e amministrativo dell'agglomerato romano si rivela non sempre agevole: dominava il lato nord il Capitolinum, santuario consacrato forse al culto imperiale o alla Triade capitolina, che dobbiamo immaginare inquadrato dai prospetti minori del tempio di Augusto, a sinistra, e di un corrispettivo analogo sulla destra, tradizionalmente riferito al culto di Diana. Sarebbero questi i due «Tempji» del brano palladiano, passibile, secondo l'analisi proposta da Claudio Fontanive su «L'Arena di Pola» del 13 settembre 1986, di un dilemma cronologico: come poteva Palladio si domanda l'estensore vedere nel Cinquecento due templi gemini senza notare il Palazzo del Podestà, che già a fine XIII secolo aveva coperto i resti del Capitolinum e fagocitato il tempio di Diana lasciandone visibile la sola parte postica? La vicenda della sopravvivenza augustea permette, a ogni modo, qualche considerazione più certa. Comunemente assegnato, sulla base della "legenda" dedicatoria, al periodo tra il 2 a.C. e il "terminus ante quem" del 14 d.C., anno di morte dell'imperatore, l'edificio perdurò nelle vesti di chiesa durante la stagione bizantina, per convertirsi in granaio con la Serenissima. Conobbe un primo, accurato restauro tra 1920 e 1925, ma i bombardamenti alleati del Secondo conflitto mondiale resero necessari nuovi interventi negli anni 1945-47. Nel 2014 è stato infine promosso il rifacimento delle coperture. Recuperata la funzione di lapidario assegnatagli nell'Ottocento, esso è cosi giunto a noi attraversando da protagonista secoli di storia polesana. Come nel 1806, quando Napoleone celebrò l'annessione dell'Istria con una medaglia raffigurante la propria effigie e, sulla faccia opposta, lo stesso tempio di Augusto. Questi sarebbe felice di sapere che, in architettura come in politica, aveva dunque innalzato - direbbe il suo confidente Orazio - «un monumento più duraturo del bronzo».
In difesa dell'italianità dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia
venerdì 8 dicembre 2023
Per la gloria di Augusto e di Roma: il tempio del foro di Pola
Nel capitolo d'apertura de "L'Istria Nobilissima" (1905), Giuseppe Caprin compilò con evidente soddisfazione il novero degli illustri protagonisti del Rinascimento accorsi a Pola per rilevare piante e alzati della locale gloria architettonica romana. Tra costoro figuravano fra Giocondo, Battista da Sangallo (cugino di Antonio il Giovane, successore di Raffaello nel cantiere di S. Pietro a Roma), Michelangelo, Baldassarre Peruzzi, Sebastiano Serlio e Andrea Palladio, che nell'ultimo de "I quattro libri dell'architettura" (1570) incluse un capitolo il XXVII incentrato sui "disegni di alcvni tempii che sono fvori d'Italia, & prima de' due Tempij di Pola". Dell'antica colonia di Pietas Julia l'architetto e trattatista veneto celebrava la magnificenza di «Theatro, & Anfitheatro, & vn'Arco [scil. dei Sergi]», affrontando con particolare riguardo l'analisi di «due Tempji di vna medesima grandezza, e con li medesimi ornamenti, distanti l'uno dall'altro cinquanta otto piedi, e quattro oncie».
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