lunedì 4 dicembre 2023

L'esule Cesare Ottaviano Augusto

C'è una statua a Gorizia, che guarda verso est, verso le amate terre perdute: una statua illustre, che subito colpisce e attrae il visitatore attento e sensibile ai richiami del passato. 

A Gorizia non vi sono molti turisti, e, di quei pochi, ancor meno si fermano ad ammirare e rendere omaggio al simulacro del grande imperatore Romano Cesare Ottaviano Augusto, erede di Giulio Cesare e fondatore dell'Impero. Eppure dovrebbero, anzi dovremmo tutti recarci almeno una volta in quella cara città tagliata in due dal confine con la Slovenia, e che ha il privilegio d'aver conservato codesta mirabile statua alla pubblica vista -in Largo martiri delle foibe-, al contrario di molte altre città italiane a cui fu donata durante il Ventennio, ma che per stupidità, dopo la guerra, la tolsero di mezzo, cacciandola a nascondersi in qualche buio scantinato in quanto evocatrice di sirene fasciste. Più o meno quel che accadde al mirabile affresco del grande pittore sardo Mario Sironi “l'Italia fra le Arti e le Scienze”, ricoperto per anni da un grottesco drappo, quindi ritoccato e storpiato, e solo di recente, dopo un lungo restauro certosino, ridonato all'originario splendore e alla vista di tutti, nell'Aula Magna dell'università la Sapienza di Roma.

Ma l'imperatore di Gorizia ha in sé un'anima speciale, un significato spirituale aggiunto, intenso, sofferente e fiero della fierezza delle genti dell'Adriatico orientale, carico delle memorie tragiche degli esuli fuggitivi, perché lui pure è un esule, lui pure compì il viaggio con essi, il viaggio ultimo da Pola, ove i nostri connazionali non vollero lasciarlo: essi non vollero abbandonarlo là, in quelle mani nemiche che furiosamente s'avventavano sui leoni di San Marco, e dunque lo trassero via, caricandolo amorevolmente sulla nave “Toscana” che, nei suoi 12 viaggi, tanti italiani doveva condurre a salvamento nella madrepatria, e salvare anche lui, calato nella realtà impietosa delle disgrazie dei suoi discendenti.

Nè, una volta giunto, l'illustre ospite Romano conobbe una sorte migliore degli esuli. Infatti, proprio come loro, lungi dall'essere innalzato e festeggiato, fu accantonato in un ricovero di fortuna freddo e oscuro, ove giacque in solitudine e dimenticanza per 20 anni: l'Italia aveva altro a cui pensare, anche se le cose a cui non si pensa, talvolta sono le più importanti. E se nella realtà lo spirito non di rado ci parla per segni, potremo dire che il Padre condivise la sorte dei figli. 

Gli abitanti di Pola ardentemente sperarono fino all'ultimo che la città fosse assegnata all'Italia, come sembrava. E quando ciò non avvenne, un silenzio spettrale calò sulle strade, le case e i monumenti, e in quel silenzio ci si preparò all'esodo di massa. A nulla erano valse le pressanti richieste, le preghiere, gli ammonimenti severi, i reiterati richiami anche dei membri del CLN cittadino, d'ispirazione italiana, i quali essi stessi avevano denunciato ed erano rimasti vittima del terrore scatenatosi durante i 40 giorni di occupazione slava, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, che peraltro gli Alleati conoscevano benissimo. Le denunce dei fascisti non sarebbero state prese in considerazione, ma essendo gli stessi antifascisti a farle, il governo De Gasperi doveva crederci per forza. L'avvocato Enzo Bartoli, membro democristiano del CLN scrisse: “in soli 40 giorni di occupazione slava, Pola subì una feroce dominazione con arresti, deportazioni, arbitri di ogni genere, leve forzate, uccisioni.”

La gente veniva prelevata di notte e trascinata via: 4.000 persone furono arrestate; centinaia di disgraziati, tra cui anche partigiani insofferenti al dominio slavo, rinchiusi nei forti cittadini, e là fatti oggetto a sevizie inenarrabili, uccisi a colpi d'ascia e di piccone. L'appuntato della Guardia di Finanza Antonio Cau scrisse: “Il mondo civile dovrà inorridire quando sarà possibile far luce su tutti gli orrori e i delitti di cui si macchiarono senza giustificato motivo i partigiani jugoslavi.”

Il 12 giugno del '45 gli slavi furono costretti a lasciare Pola per farvi subentrare gli inglesi, in attesa che un'apposita commissione dei vincitori stabilisse il destino della città, che si coprì di tricolori e di cortei, manifestando in ogni modo la sua italianità, mentre il presidente del CLN, dottor Attilio Craglietto, pronunciava un discorso duro e chiaro avanti alla commissione medesima, in favore del passaggio di Pola e dell'Istria all'Italia.

Ma in fondo era già tutto deciso: inferociti per aver dovuto lasciare Trieste e Gorizia, gli slavi, armati fino ai denti, s'erano accampati a poca distanza dalla città, mentre Tito, appoggiato dalla Russia e dai comunisti di casa nostra, puntava i piedi minacciando di rimettersi in guerra. Gli inglesi esautorarono il CLN di Pola, troppo patriottico, preferendovi l'unione antifascista italo-slava, chiaramente comunista, la cui sede venne devastata nottetempo. 

Dopo mesi di snervante attesa, cominciò a profilarsi la sventura, e a dicembre del '46 si venne a sapere che il trattato di pace sarebbe stato firmato il 10 febbraio del '47. La città, affranta, si trovò davanti al fatto compiuto. Non c'era più niente da fare, e con un gesto dimostrativo di disperazione, premeditato ma inutile, la maestra di origine toscana Maria Pasquinelli, che aveva insegnato tanti anni a Spalato e si era sempre interessata alle sorti della Venezia Giulia, scaricò tre colpi di pistola addosso all'incaricato inglese, il generale Robert de Winton, uccidendolo.

Lo sgombero cominciò il 2 gennaio del '47. Nessuno voleva trovarsi nuovamente gli slavi addosso, che già s'erano portati via tutto quello che avevano potuto, svaligiando l'ospedale, le farmacie, i negozi, le fabbriche, e, perfino, gli armadietti degli operai.

La cittadinanza s'adunò per l'ultima volta nell'amata Arena tutta illuminata, cantando fra le lacrime il “Và pensiero” di Verdi, e portando poi con sé una piccola pietra come fosse il germoglio di una pianta che non muore, quella delle proprie origini e della propria millenaria identità.

Lo scrittore genovese Vittorio Rossi, che era vissuto a Pola tanti anni, scriverà dopo la guerra: “A Pola non posso più tornare, non ho neanche il desiderio di tornarci così com'è. Ora quell'altra Pola non c'è più. Ce n'è una che non è la mia Pola. E alla mia Pola io penso di continuo, con grande amore e altrettanto grande tristezza.”

Così dobbiamo fare anche noi: non dimenticare. Perché il ricordo è come una resurrezione.





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