Capitava in quel torno di tempo il signor Rosenbach (o Rossbach) a far un po' di propaganda e a dare chiarimenti. Alto ed elegante, sorridente, vestiva una specie di tenuta sportiva da cavallo con stivaloni e cappello floscio e con gran disinvoltura portava un vistoso cinturone di cuoio chiaro con fondina e pistola.
I tempi erano difficili, all'esterno gli slavi, all'interno fascisti e tedeschi che cercavano volontari, ricorrevano a leve e a rastrellamenti improvvisi. Pertanto dava la sua adesione, bene o male, la stragrande maggioranza degli uomini, dai più giovani ai più anziani, studenti, artigiani, operai, insegnanti, commercianti, impiegati, agricoltori e pescatori.
Si formava un corpo di 350 uomini divisi in 4 plotoni ed una squadra per servizi interni. Per armamento venivano forniti 50 fucili Mod. 91/38 con un migliaio di cartucce, 1 mitra Beretta con un caricatore da 40 colpi, una ventina di bombe a mano "Breda" e "S.R.C.M.", una dozzina di cappotti grigioverdi di panno militare. Non c'erano divise, ma, come riconoscimento, un bracciale rosso con lo stemma dell'Istria, la scritta in italiano e tedesco e un tesserino di cartoncino verdolino. Da aggiungere, quasi una mascotte, una vecchia pistola a rotazione e a capsule del 1870 trovata da una pattuglia, buttata via da qualcuno che aveva voluto disfarsene, ad ogni buon conto, timoroso di incorrere in qualche sanzione per detenzione abusiva d'armi.
Il comando provinciale del nuovo corpo era tenuto dal capitano o maggiore delle SS e Feldgendarmerie von Meutschke, un prussiano dai folti baffi rossicci tagliati alla Hitler, individuo facile ad alzare la voce e a dare in escandescenze, ma al quale non si poteva imputare alcuna cattiveria. Tra l'altro, non si faceva vedere molto.
La sede cittadina veniva posta nell'ammezzato della Loggia (da tempo lasciata libera da quando il P.N.F. s' era trasferito in Brolo, nell'antico Fondaco divenuto Ca' Littoria, ma vi erano rimasti due grandi armadi con vecchie carte d'archivio, che vennero ritirate successivamente).
Il corpo locale veniva organizzato dal dott. Antonio Padovan, capitano del disciolto R.Esercito, come primo comandate, indi dal maestro Paolo Paulin, tenente, e infine dal maestro Bruno Busan, promosso da tenente a capitano. Fungevano da aiutanti gli studenti Aldo Cherini e Lauro Ghitter. già sottotenenti dell'esercito, con un minimo di corredo di ruolini e registri. Fungevano da ufficiali d' ispezione in turni giornalieri il maestro Attilio La Placa, anche lui ufficiale del disciolto esercito, Piero Antonini e Riccardo Divora, lavoratori del commercio, Antonio Rovatti, artigiano, i maestri Nino Bensi e Paolo Zucca, Ferdinando Favento, tipografo, Vittorio Lonzar, operaio notoriamente criptocomunista. Il maneggio del fucile e alcune regole pratiche di comportamento relativo al servizio venivano impartite nel corso di alcune riunioni pomeridiane tenute nel cortile maggiore di Santa Chiara. Una lezione di tiro al bersaglio aveva luogo, un giorno, fuori Porta della Muda, lungo l' argine orientale di conterminazione della bonifica. Il maneggio del fucile da parte di gente poco pratica quando, finito il turno di servizio, bisognava togliere il caricatore, non diede luogo ad incidenti, pur partendo talvolta qualche colpo accidentale: ne andò di mezzo, una volta, l'impermeabile del maestro La Placa appeso, accuratamente ripiegato, ad una parete. Veniva creata una vera e propria fureria tenuta dapprima da Glauco Bonnes, sottufficiale d'artiglieria, e un magazziniere che montava in servizio a turni settimanali con il prof. Iginio Zuccali, il maestro Antonio Minutti e il maestro di macchina Russo, sbarcato dal piroscafo "Itala".
Il servizio si attivava al tramonto del sole e, previo ritiro della parola d'ordine fornita dal capitano tedesco del porto, veniva svolto fino all'alba da quattro pattuglie di tre uomini, che giravano per il controllo dell'oscuramento e del coprifuoco; altri erano addetti a due postazioni fisse di guardia, alla radice della strada di Semedella, passata poi sul "fondo Calda" presso la centrale elettrica del Piazzale Ognissanti, e sul "fondo Almerigogna" in Riva Castel Leone; una guardia di due uomini saliva sul campanile col compito di dare l'allarme aereo con tre colpi di fucile in caso di comparsa di aerei isolati, quali il popolare "Pippo", per i quali non veniva dato l' allarme con le sirene.
Servizio cittadino, quindi, ma ad un certo momento, a nulla essendo valse le proteste, una squadra veniva mandata a presidiare il ponte sul fiume Risano (danneggiato dai partigiani dopo l'8 settembre 1943 e riparato con travi di legno) assieme ad alcune guardie di finanza in borghese. Una dozzina di giovani che, preso alloggio nella vicina casa, dovettero organizzarsi anche con una propria mensa e condividere poi la guardia con giovanissimi soldati della Wehrmacht neanche diciottenni alloggiati nella casa cantoniera.
Veniva a stabilirsi fin dall'inizio uno spirito di corpo favorito dalle comuni circostanze e dalla coscienza di un futuro assai incerto e inquietante. Veniva organizzato nella Sala della Loggia (un tempo sede di incontri culturali e sociali elitari) un vero e proprio spaccio, curato dal giovane Giusto Zhiuk, che forniva alle guardie in servizio un panino al formaggio e un bicchiere di vino e gazose, un vero e proprio ritrovo molto frequentato, con i soliti giochi, anche da coloro che non erano di turno essendo ogni altro locale pubblico chiuso a seguito del coprifuoco. Venivano sistemati nella grande sala anche alcuni letti di ferro, presi a prestito dall' Istituto Grisoni, che il più delle volte venivano usati da gente sorpresa in viaggio dal coprifuoco, che qui trovava ospitalità per la notte.
Le disposizioni sull'oscuramento davano occasione a qualche contrasto e incidente. Un diverbio tra Antonio Rovatti e Piero de Manzini, l'antico podestà e uno dei cittadini più in vista, finiva con una multa inflitta a quest'ultimo. Ma peggio toccava al vecchio Pieri, abitante nella casa Petris di Via Combi: una finestra appariva malamente oscurata ed una pattuglia della Milizia Difesa Territoriale, passando per quella via, invitava rumorosamente a spegnere la luce, non solo, ma qualcuno si metteva a sparare proprio quando il Pieri stava affacciandosi rimanendo colpito a morte. In un primo tempo facevano servizio di pattuglia anche gli aderenti alla Milizia Ausiliaria del Partito Fascista Repubblicano, che non vedeva di buon occhio la Guardia di Riserva appioppandole il nomignolo di Guardia Rossa (ciò non era vero anche se in essa si mimetizzavano i vecchi filocomunisti e i nuovi filopartigiani, che però non erano molti). S'era venuto a formare, però, un certo gruppo vicino al Comitato di Liberazione Nazionale clandestino, del quale faceva parte, come si saprà dopo, lo stesso comandante Bruno Busan. Fatto sta che le relazioni stavano sul piano dei sospetti. Capitava una notte sotto la Loggia una pattuglia fascista denunciando un'oscuramento inefficiente e minacciando rappresaglie. Ne nasceva un incidente con parole grosse tra il commandante della Guardia Territoriale, che allora era Paolo Paulin e il segretario del Fascio Rpubblicano Nino de Petris, incidente che giungeva a conoscenza del maggiore von Meutschke il quale convocava tutti a Santa Chiara e prendeva il provvedimento di sciogliere la Milizia Ausiliaria e di incorporare i membri nella Guardia Territoriale. Paolo Paulin doveva dare le dimissioni e, a scanso di qualche guaio, si arruolava nella X MAS di Pola.
Si arrivava così al mese di aprile del 1945. Le autorità politiche della Repubblica Sociale s'erano rese conto che la fine era questione di giorni e tentavano di addivenire ad un accordo per un ordinato trapasso di poteri agli esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale non più tanto clandestino. Il commissario prefettizio Mario de Vilas si recava al comando della Guardia Territoriale e prendeva contatto col capitano Bruno Busan inten- dendo prestare opera di convincimento quale intermediario, ma non ne scaturiva nulla.
Dalle ore 23 del 27 aprile la città era in allarme, si temeva che i Tedeschi, in procinto di ritirarsi, avrebbero fatto saltare le mine del porto e non poca gente trascorreva la notte nei rifugi. Nelle prime ore del 28 aprile i Tedeschi abbandonavano infatti le posizioni tenute sulle colline tra Albaro Vescovà e Villa Decani, ritiravano le sentinelle del ponte del Risano. Il distaccamento della Guardia Territoriale, comandato in quel periodo da Aldo Cherini, se ne rendeva subito conto e un sopralluogo effettuato nel loro accantonamento della casa cantoniera rivelava la fretta con cui se n' erano andati abbandonando anche parte del materiale. Non restava al distaccamento che tornare a Capodistria, evento previsto da giorni e preparato con ritiro non per via di terra, dov'era probabile fare brutti incontri, ma per via di mare. Due uomini mandati alla casa padronale dei Nobile di Lazzaretto, dove c'era un telefono, erano stati scambiati per male intenzionati e avevano proseguito per Capodistria. Comunque erano stati presi accordi con un pescatore, che veniva con la sua barca a prelevare uomini ed effetti personali alla foce del Risano, sullo Scano. La breve traversata fino al porticciolo di Bossedraga era avveniva in tutta tranquillità.
La situazione appariva molto incerta e confusa, ma il mattino del giorno 29 i Tedeschi stavano tranquillamente scaricando da una motozattera dei pezzi di artiglieria destinati a certe postazioni in allestimento sul Monte San Marco. I posti di blocco presso il ponte di Semedella e alla Muda erano sempre presidiati dalla Milizia Difesa Territoriale. Ma fattosi notte, dopo il rientro del presidio di Buie avvenuto con la copertura di un reparto di Capodistria, la Milizia si scioglieva abbandonando armi e materiali quasi al completo. Una piccola colonna blindata prendeva la via di Trieste mentre non pochi militi e ufficiali si presentavano al comando della Loggia chiedendo qualche indumento civile e offrendo in cambio giacche di pelle, scarponi e altri effetti. Ci fu, sotto il lume lattiginoso della luna, un via vai concitato ma nessun incidente. Nessuno negava quel poco di aiuto che poteva dare di fronte alla gravità dell'ora ed alle terribili incognite che stavano affacciandosi. Qualcosa di simile s'era già veduto in tutte le contrade d'Italia dopo l'8 settembre 1943 a riprova del fatto che la popolazione non sa nutrire sentimenti di rancore o di odio indiscriminati, cedendo solo alla sobillazione e alle mene dei mestatori.
Alle prime luci dell'alba lasciavano la città gli ultimi militi. Se ne andarono con un autocarro per la strada di Semedella dopo aver scaricato in mare, presso il molo della Porporella, numerose casse. Se ne andarono dopo aver rivolto un saluto alla città, che avevano difeso per sette mesi dai partigiani slavi, e dopo aver offerto una borraccia con un po' di cognac ad una pattuglia della Guardia Territoriale, che aveva sostato nei pressi.
Il maggiore Martini, comandante del presidio, che nonostante tutto non aveva disperato di poter organizzare una difesa fino al presunto arrivo delle truppe anglo-americane, non faceva in tempo a ritirarsi ma, aiutato dai frati di S.Anna, riusciva a salvarsi dopo asser rimasto nascosto per diversi giorni nella cassa dell' organo del convento. I nuovi venuti poterono mettere mano soltanto sulla sua divisa, che esibirono in Piazza prendendola a calci, quasi una velleitaria esecuzione in effigie.
Al Porto, quel 29 aprile, le sentinelle del distaccamento tedesco di marina erano sempre al loro posto. La Guardia Territoriale era ora il solo corpo italiano organizzato oltre ai pochi Carabinieri e Guardie di Finanza, che avevano rimesso le stellette sulla divisa. Questo gesto, che intendeva essere una manifestazione di fiducia, costerà la vita ad alcuni di essi, pochi giorni dopo, per opera degli slavi.
Ma la Guardia Territoriale non era un corpo militare, si accingeva però a provvedere all'ordine pubblico, al piantonamento dell' ufficio postale, della sede locale della Cassa di Risparmio dell' Istria, del cantiere navale I.S.T.R.I.A., dei magazzini dei viveri e deli uffici pubblici. Provvedeva anche al rastrellamento delle armi e degli materiali abbandonati dalla Milizia Difesa Territoriale. Parecchie armi, specialmente mitragliatrici e mortai, venivano rinchiuse in due stanze esistenti presso il comando nell'amezzato della Loggia. Ma altre, per iniziativa di uno sparuto ma pericoloso gruppo di fautori dei partigiani slavi, fermati appena possibile, venivano trafugate fuori Capodistria per essere consegnate alla formazione che si apprestava ad occupare la città.
I primi di essi, una decina o poco più, penetravano nell'abitato poco dopo le ore 6. Il loro capo si presentava nel comando della Guardia in Loggia. Piccolo di statura e biondo, biascicava appena qualche parola d'italiano e, nel guardarsi attorno con malcelato nervosismo, sembrava più un fuggiasco che un "liberatore".
Sulla strada provinciale erano apparse, intanto, le prime autocolonne tedesche che si erano ritirate da Pola ed erano dirette a Trieste. Gli automezzi si susseguivano ininterrottamente ed il rumore dei motori arrivava fino in Piazza, il che fu sufficiente a provocare la pronta ritirata degli slavi, che non si fecero più vedere per quasi tutto il giorno.
La Piazza era particolarmente animata. Il sole splendeva impassibile in un cielo senza nubi e la gente, raggruppata in capanelli in attesa degli avvenimenti finali, si scambiava impressioni e notizie. Il Comitato di Liberazione Nazionale locale, in seno al quale si trovava in posizione di prestigio il farmacista Ghino de Favento mentre don Edoardo Marzari si trovava a Trieste, era uscito dalla clandestinità, aveva a disposizione un'automobile fornita da Libero De Carlo con tanto di sigla di riconoscimento dipinta sui fianchi, ma non aveva molti aderenti e non disponeva di un organizzione militare. Si sperava in un imminente ingresso di una formazione italiana che, si diceva, si trovava vicino a Buie. Altri affermavano che era giunta a Vanganel e che chiedeva automezzi per un rapido ingresso in città. Tutte illusioni, perché non esistevano formazioni italiane né vicino né lontano (la nuova Italia aveva già fatto rinuncia delle nostre terre).
Pochi i fautori scoperti dei partigiani slavi, riconoscibili da una certa fascia bianca con segni e sigle blu che portavano al braccio sinistro, ma di più gli illusi che dal cambiamento di regime si aspettavano vantaggi.
La maggioranza della gente credeva in un imminente arrivo delle truppe anglo-americane, tanto che alcuni operai del cantiere navale avevano alzato alla Porta della Muda un arco di legno a sostegno di alcune grandi scritte di benvenuto, ma ad opera non ancora finita venivano cacciati via in malo modo da alcuni slavi sbucati dai pressi.
Vero le ore 13, le batterie tedesche di Punta Grossa cominciavano a sparare su Capodistria ritenendola già occupata dai partigiani. Il fuoco, fortunatamente non intenso, durava per parecchie ore ma non provocava, fortunatamente, vittime. Non ci si rese conto, dapprima, di che natura fossero i colpi nè da che parte arrivassero. Poichè qualche proiettile era esploso sul Belvedere, sull'Istituto Grisoni e sulla casa Madonizza, precisamente sul muro dell' ufficio postale, corse voce che trattavasi di bombe ad orologeria lasciate dal direttore dell'ufficio, scappato perché accanito fascista.
Verso le ore 16, il reparto tedesco di artiglieria della postazione esistente presso il ponte di Semedella si ritirava dopo aver fatto saltare i pezzi e le riservette di munizioni. Un proiettile veniva lanciato in aria e cadeva nei pressi della Piazza da Ponte arrivando addosso ad uomo, che stava passando fortuitamente proprio in quel momento e in quel posto. Si trattava di Antonio Predonzani, il popolare Toni Isolàn, che moriva quasi sul colpo, vittima degli avvenimenti di queste ultime ore di guerra. Restava ora il distaccamento di marina del Porto e la incognita delle mine. Una delegazione di cittadini, esponenti del C.N.L. accompagnati dal capitano Bruno Busan, prendeva contatto col capitano di porto Trost, che non si rifiutava di parlamentare. Dichiarava che non si sarebbe arreso ai partigiani e che, se lasciato tranquillo, si sarebbe ritirato senza far saltare il dispositivo di distruzione delle banchine, cioè quelle mine, neppure se ne avesse ricevuto l'ordine. Parole certamente rassicuranti, ma era da fidarsi? Il capitano Busan avea già presa una sua iniziativa predisponendo un discreto servizio di vigilanza delle mosse dei Tedeschi e preparando due uomini che, d'accordo con un giovane marinaio tedesco, il viennese Wolfgang Menscha che durante il suo non breve soggiorno a Capodistria s' era fatto degli amici tra i coetanei e che aveva deciso di rimanere qui, sarebbero penetrati, se necessario, nella zona recintata per impedire il brillamento delle mine.
Nelle prime ore notturne del 30 aprile 1945, i Tedeschi si misero a caricare molto materiale sul piroscafo "Itala" da essi requisito e tenuto pronto a muovere. Era evidente che la partenza non sarebbe ritardata per cui veniva dato l'allarme alla popolazione per mezzo delle campane. I Tedeschi, imbarcati anche gli ultimi ritardatari della M.D.T. quali Ferruccio Zanchi, mollarono gli ormeggi alle ore 4 al termine di una telefonata del capitano Trost alla delegazione cittadina con la quale aveva parlamentato, lasciando un saluto alla città.
Poche ore dopo ricomparivano gli slavi e la libertà di Capodistria moriva sul nascere. La Guardia Territoriale di Riserva, svuotata da molti di coloro che vi avevano dato l'adesione, veniva tollerata per pochi giorni ancora e poi veniva sciolta.
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