Cinque medaglie d'oro al Valor Militare assegnate nel corso delle ultime due guerre mondiali a cinque nostri concittadini, Nazario Sauro, Ugo Pizzarello, Nicolò Cobolli Gigli, Giorgio Cobolli e Spartaco Schergat, danno a Capodistria, con i suoi ottomila o poco più abitanti, proporzionalmente un primato nell'eroismo e nell'amor patrio nei confronti di qualsiasi altra piccola o grande città italiana.
In questi giorni pieni di amarezza e di sdegno, in cui l'ignoranza, l'insensibilità, la malafede e gli interessi occulti coagulati nel Trattato di Osimo ci rendono matrigna la Patria, la Fameia Capodistriana ha ritenuto doveroso presentare alla coscienza, non solo degli Istriani ma anche a quella di tutti gli Italiani, che credono ancora nei valori perenni di Patria e Giustizia, il ricordo di tali eroi quale pegno, malgrado tutto, di immutabile dedizione di Capodistria all'Italia.
Antonio Della Santa.
L'umanista Pier Paolo Vergerio il Seniore ha scritto, nel 1395, che la «patria» è titolo di felicità, «inter felicitatis numeros», e che la stessa non va misurata secondo la grandezza o meno, sicchè egli stima indifferente il nascere a Roma o a Sinigaglia purchè i cittadini suoi siano veramente uomini. Anzi, le cose eccellenti egli afferma nascono sovente in luoghi umili e oscuri.
Non sappiamo quanti comprendono e apprezzano la umana filosofia dell'antico illustre nostro concittadino. Non certamente gli uomini politici, che oggi pontificano e ci governano, per i quali sembra aver valore soltanto il numero quale espressione di grandezza, d'ingombro, tenendo in non cale il centimento e il valore degli uomini, che non costituiscono grosse e turbolente comunità. Per essi i 350.000 profughi, o quanti ormai restano, non contano niente, i loro sentimenti non hanno significato, le loro lacrime sono nulla.
È ben strana e malintesa la democrazia, che non consulta e non ascolta i suoi figli quantomeno nei problemi e negli atti più gravi, che li toccano direttamente, come l'attuale questione di Osimo, ponendo così in atto comportamenti sostanzialmente antidemocratici.
Capodistria e le altre località istriane hanno il torto di essere state piccole «patrie» a nulla valendo che i loro cittadini siano stati «veramente uomini», a nulla valendo la millenaria appartenenza ad un nesso rivolto al di qua dell'Adriatico e non al di là delle Alpi Giulie.
La coscienza latina e italica affonda infatti le radici in epoche lontane nel pensiero e nel comportamento di uomini quali Santo Gavardo, capitano della cavalleria di Ladislao re di Napoli, primo rintuzzatore delle offese fatte agli Istriani (1414); Pier Paolo Vergerio il Giovane, vescovo di Capodistria, che scrive dalla Francia: «... io disegno di tornar tosto in Italia, là dove sono quelle anime che Dio mi ha dato in custodia...» (1540); Girolamo Muzio, che dichiara di essere italiano perché nato a Capodistria (1550) e che propugna la cacciata degli stranieri e la creazione di una federazione di stati italiani; Nicolò Manzuoli, che scrive intorno all'Istria: «... questa Provincia è Italia e non una regione fra il Danubio e l'Italia, nè separata dall'Italia dal seno dell'Adriatico...» (1611); Gian Rinaldo Carli, che nelle «Antichità Italiche» tratta in buona parte dell'Istria (1788) per non parlare del celebre articolo «Della Patria degli Italiani» pubblicato su «Il Caffè» nel 1765.
Nel periodo napoleonico, Capodistria è prefettura del Regno d'Italia (1805-1812) e a questo momento risalgono le idee, che sono alla base del movimento irredentista, del quale Capodistria è parte maggioritaria con uomini quali Antonio Madonizza, Carlo Combi, Nicolò de Rin, Nazario Stradi, Pier Antonio Gambini, Felice Bennati per citare alcuni senza far torto agli altri. Non è possibile contenere in breve spazio il nome di quanti, appartenendo a tutti i ceti, a tutte le classi sociali, anche alle più umili, manifestano apertamente e coraggiosamente la loro italianità.
L'aspirazione al ricongiungimento all'Italia è sottolineata non solo col pensiero ma anche con l'azione e col sangue in tutti i posti dove viene alzata la bandiera tricolore, nelle fila di Garibaldi e nell'esercito piemontese. Antonio Baldini, fucilato dagli Austriaci nel 1848, apre la serie di coloro che non esitano a rischiare e a dare la vita nelle guerre d'Indipendenza, da Leonardo D'Andri, Alfredo Cadolino, Federico Cuder ai 13 caduti nella guerra del 1915-18, quando 67 giovani varcano il vecchio confine per arruolarsi volontari nell'esercito italiano in cielo, in terra e in mare volontari votati alla morte sul campo o, se catturati, al capestro, mentre 50 tra i cittadini più in vista, tra i quali 17 donne, vengono relegati in campi d'internamento a Oberhollabrunn, Mittergraben, Göllersdorf, Hainburg. Pio Riego Gambini, il primo dei caduti, redige un appello alla gioventù istriana, che l'aviatore Mario Bratti s'incarica di lanciare dal cielo d'Istria. Ad un figlio di Capodistria, al gen. Elio Italo Vittorio Zuppelli, è affidato il Ministero della Guerra ed è proprio lui che reca alla firma di Vittorio Emanuele III l'atto di dichiarazione di guerra all'Austria!
Non va dimenticata la schiera di quanti si distinguono nelle attività di pace, nelle arti, nelle scienze, nelle lettere, negli studi di ogni genere con una profusione di sapere, che vale a conferire a Capodistria l'epiteto di Atene dell'Istria, con una serie di opere che trovano collocazione, non una esclusa, solamente nel contesto della cultura italiana.
Ottobre 1918: i primi tricolori appaiono quando gli Austriaci non hanno ancora lasciato la città. Breve è la stagione del coronamento delle antiche idee, del congiungimento alla Madrepatria, vissuto intensamente e con entusiasmo, con dedizione e trasporto. Arriva poi una nuova guerra, non voluta, ma tutti fanno il loro dovere. Gli uomini partono e lasciano il loro sangue, i brandelli delle loro carni su tutti i fronti, dalle steppe della Russia, dai dirupi dei Balcani alle sabbie dell'Africa, alle distese degli Oceani. Quelli rimasti in patria si prodigano e lavorano, sottostanno con pazienza a tutti i sacrifici. Arriva 1'8 settembre 1943 e cadono le prime vittime innocenti. Arriva il 1945 con la sedicente democrazia delle esecuzioni sommarie senza processo, delle foibe, degli assassinii, delle deportazioni, della prigione per futili motivi, delle bastonate sulla pubblica via, delle intimidazioni d'ogni genere, dell'esodo, che non è volontario come a taluni farebbe comodo credere o far credere.
La nuova Italia dapprima protesta, poi si stanca, si annoia; il calvario della parte migliore di tutti i suoi figli non interessa più, non ha più corso. Dopo cento assicurazioni solennemente elargite e disinvoltamente rimangiate, i detentori del potere se la cavano col metodo della reticenza, della disinformazione, della bugia, della superficialità.
In faccia a costoro, che si sono arrogati il ruolo di liquidatori delle ultime nostre speranze, noi gettiamo un pugno di medaglie d'oro, le medaglie dei figli più puri della nostra passione.
Giustino Poli
- Nazario Sauro
Il Piazzale di Santandrea, a Bossedraga, era uno dei siti in cui più schietta era l'aria che si respirava: aperto sul mare a tramontana con un lato delimitato dalla banchina del mandracchio, era coronato dalle case dei pesca tori tra le quali facevano spicco due edifici adorni di finestre e bifore gotico- veneziane e romaniche, testimonianza dell'antichità di legami con una civiltà non certo rivolta ad oriente, come taluni oggi vorrebbero far credere. Mostrava qui la sua semplice facciata la settecentesca casa natale di Nazario Sauro fregiata di un bel Leone marciano, di corone bronzee e d'alloro e di una epigrafe marmorea.
Ecco, negli anni venti e trenta, animarsi il Piazzale in varie occasioni allorchè brigate di visitatori, di gruppi di ex combattenti, di invalidi e di mutilati venivano da tutte le parti d'Italia a rendere omaggio alla memoria di un uomo, ch'era assurto a simbolo della fede e del martirologio adriatico, ecco formazioni di marinai e di soldati far da cornice alle manifestazioni, ecco personaggi illustri accostarsi all'umile casa e salire al piccolo museo, che la famiglia aveva allestito in una stanza interna,
Nazario Sauro era nato il 20 settembre 1880 da Giacomo, piccolo im- prenditore e armatore, e da Anna Depangher. Figlio di marinai e di pesca tori, conseguiva nel 1904 il diploma di capitano marittimo di grande cabotaggio presso l'Istituto Nautico di Trieste. Prendeva imbarco sulle navi della Società «Austro-Americana» dei fratelli Cosulich e dell'Istria-Trieste acquistando conoscenza dell'Adriatico fino negli angoli più riposti, lungo le coste istriane e della Dalmazia sino all'Albania. Sposatosi con Nina Steffè, passava al servizio della Società di Navigazione Capodistriana facendo la spola tra Capodistria e Trieste al comando del piroscafo «San Giusto», che prenderà poi il suo nome, vicino ai figli Nino, Libero, Anita, Italo e Albania, avuti tra il 1901 e il 1914, che egli educava ai più alti ideali di amor patrio, di libertà e di dignità.
Aderente al gruppo repubblicano di Pio Riego Gambini, allo scoppio della prima guerra mondiale lo troviamo impegnato a svolgere assidua opera a favore dell'Italia, del cui intervento non dubitava, raccogliendo informazioni riservate e viaggiando oltre confine fino a Venezia con la copertura di procurare carichi di farina. Abbandonava Capodistria il 2 settembre 1914 rifugiandosi a Venezia dove prestava la sua opera nei comitati di raccolta e di assistenza ai fuorusciti, che incoraggiava col suo entusiasmo, accorrendo tra i primi in aiuto ai terremotati della Marsica. Alla dichiarazione di guerra poteva finalmente arruolarsi volontario nella Marina Militare. Veniva asse- gnato col grado di tenente di vascello alla R.N. «Emanuele Filiberto» di guardia agli Alberoni a mordere il freno e ad architettare piani per un colpo di mano sulla costa istriana. Ottenuto un ruolo attivo, iniziava un'intensa attività di pilota pratico delle acque nemiche con imbarco su varie unità combattenti. Effettuava così una sessantina di missioni in 14 mesi facendosi spesso beffa del nemico: la cattura del piroscafo «Timavo», internato nell'Isonzato presso l'Isola Morosini, l'incursione nel golfo di Panzano col CT «Bersagliere», l'incursione nel porto di Trieste con la torpediniera 24 OS, l'azione contro la stazione degli idrovolanti di Parenzo col CT «Zeffiro», che egli portava audacemente all'ormeggio nel porto catturando un gendarme austriaco, l'incursione nel porto di Pirano, azioni che gli procuravano encomi solenni e una medaglia d'argento al valor militare con la seguente motiva zione: Prese parte a numerose ardite difficili missioni navali di guerra, alla cui riuscita contribul efficacemente, dimostrando sempre coraggio, animo intrepido e disprezzo dei pericoli e rendendo in tal modo preziosi servizi alla condotta delle operazioni navali. 23 maggio 1915-23 maggio 1916.
Usciva più volte anche con i sommergibili: con lo «Jalea», comandato dal concittadino Ernesto Giovannini (pure lui decorato di medaglia d'argento), con l'«Atropo», col «Pullino», inviato nel golfo di Fiume all'attacco dei piroscafi alla fonda in quel porto. La seconda incursione col «Pullino» riusciva fatale. Partito da Venezia il 30 luglio 1916, il sommergibile si appre stava ad entrare nel Quarnero doppiando lo scoglio della Galiola a meridione allorchè investiva la secca rimanendo incagliato irrimediabilmente. Il fatto non ha mancato di sollevare, a suo tempo, interrogativi e polemiche e qualcuno ha parlato anche di imperizia. Bisogna considerare che quella zona di mare è soggetta a forti e irregolari correnti e che al momento dell'incaglio un piovasco aveva ridotto la visibilità a zero. Nella precedente incursione il «Pullino» aveva seguito la rotta di settentrione e aveva corso il rischio di finire sul campo minato difensivo della piazzaforte di Pola per cui è spiegabile la scelta della rotta meridionale. Risultato vano ogni tentativo di disincaglio, l'equipaggio abbandonava l'unità cercando di tornare indietro con una barca requisita agli allibiti guardiani del faro. L'errore Nazario Sauro lo fece, forse, in questo momento staccandosi dai compagni per guadagnare la costa italiana da solo destando così i primi sospetti. Deferito al tribunale militare di guerra, subiva estenuanti interrogatori e l'inumano e inutile confronto con la madre, che per salvare il figlio frenava l'impulso di gettarsi nelle sue braccia negando di conoscerlo. Condannato a morte per alto tradimento, veniva impiccato la sera del 10 agosto 1916 nel cortile delle carceri militari. Mentre il cappio già gli stringeva lo gola, Nazario Sauro trovava la forza di gridare, secondo la tradizione del Risorgimento, «Morte all'Austria! Viva l'Italia!»
Nel testamento spirituale raccomandava alla moglie di ricordare sempre ai figli che egli era stato prima italiano, poi padre, poi cittadino. Con decreto del 20 gennaio 1919 gli veniva conferita la medaglia d'oro al valor militare con la seguente motivazione: «Dichiarata la guerra all'Austria, venne subito ad arruolarsi volontario sotto la nostra bandiera per dare il contributo del suo entusiasmo, della sua audacia e abilità alla conquista della terra sulla quale era nato e che anelava ricongiungersi all'Italia. Incurante del rischio al quale si esponeva, prese parte a numerose, ardite e difficili missioni navali di guerra, alla cui riuscita contribul efficacemente con la conoscenza pratica dei luoghi e dimostrando sempre coraggio, animo intrepido e disprezzo del pericolo. Fatto prigioniero, conscio della sorte che ormai lo attendeva, serbò, fino all'ultimo, contegno meravigliosamente sereno e col grido forte e ripetuto più volte dinanzi al carnefice di "Viva l'Italia" esalò l'anima nobilissima, dando impareggiabile esempio del più puro amor di Patria. Alto Adriatico, 23 maggio 1915 10 agosto 1916».
Vittorio G. Rossi ha scritto che Nazario Sauro va posto nella schiera di coloro, che nella guerra hanno messo di più degli altri italiani: la possibilità di due morti. Quella gloriosa, considerata tale anche dal nemico, e l'altra, dal nemico considerata ignominiosa: non la morte del soldato ma la morte del traditore, pesante, fredda, tetra e solitaria perchè quelli che stanno in- torno non sono amici ma giudici e carnefici..
Non tutti sanno che Nazario Sauro è stato impiccato due volte. Nel 1952, le statue del monumento nazionale, smontato dai Tedeschi durante la guerra e riparate nell'atrio del Civico Museo, pregevole opera dello scultore Attilio Selva, venivano fatte a pezzi. La effigie di Sauro veniva appesa per il collo e lasciata ostentatamente cosi per qualche giornata prima di seguire la sorte delle altre statue, gesto odioso e rivelatore del vero animo di coloro, che occupano oggi le nostre terre.
Le spoglie mortali dell'Eroe hanno seguito gli esuli e riposano ora al Lido di Venezia in attesa che sia fatta quella giustizia, nella quale egli ha creduto e per la quale è morto.
- Ugo Pizzarello
Ugo era figlio di Antonio Pizzarello, combattente con Garibaldi a Monte rotondo e a Mentana, e di Nicolina, sorella dell'avv. Pier Antonio Gambini, esponente dell'irredentismo istriano e padre di Pio Riego, caduto sul Podgora il 19 luglio 1915; Antonio era stato implicato in un clamoroso processo politico con la conseguenza dell'espulsione dall'Austria, cioè da Capodistria. Ciò bisogna premettere per comprendere lo spirito animatore di tutta la vita del generale Ugo Pizzarello.
Ugo era nato il 14 luglio 1877 a Macerata, dove il padre insegnava. Scolaro e giovane esemplare, conseguiva la licenza fisico-matematica nell'istituto tecnico maceratese e veniva ammesso all'Accademia Militare di Modena da dove usciva, tra i primi del corso, nel 1898 col grado di sottotenente. Assegnato al corpo degli Alpini, al VII battaglione «Feltre», metteva a frutto la sua passione per la montagna quale scalatore audace e preparato e istruttore di guide. Importanti lavori per l'attuazione di ricoveri militari, da lui diretti, gli fruttavano ampi riconoscimenti e la prima delle onorificenze, quella del cavalierato della Corona. Una medaglia d'argento di benemerenza gli veniva dedicata nel 1908 in occasione dei soccorsi da lui apprestati a favore delle popolazioni colpite dal terremoto di Messina. Nel giugno 1912 veniva promosso al grado di capitano e, trasferito all'VIII Alpini, riceveva dall'Ufficio di Stato Maggiore, gen. Porro, l'incarico della compilazione di monografie militari. A tal fine manteneva stretti collegamenti con l'ambiente irredentistico di Capodistria.
Nell'imminenza dello scoppio della guerra, ritornava tra i suoi alpini al comando della VI Compagnia del battaglione «Tolmezzo» assegnato al fronte carnico. Partecipava ai combattimenti accesisi alla testata del But, sul Pal Grande, al Freikofel guadagnandosi già nei primi giorni di guerra la prima decorazione al valor militare, la medaglia d'argento, e la promozione a maggiore. Ecco la motivazione: «Durante un attacco notturno e due successivi attacchi diurni a posizioni nemiche, con raro entusiasmo e coraggio mirabile, alla testa dei reparti che correvano in rinforzo della piccola guardia, si lanciava primo ove maggiore era il pericolo, animando gli inferiori con l'esempio e con la parola. Monte Pal Grande, 28 e 29 maggio. Si distinse anche per la valorosa condotta nel combattimento del 1915. Monte Freikofel, 22 maggio 1915». Tenente colonnello comandante di battaglione, si distingueva a Monte Croce Carnico nei duri scontri, che avevano luogo tra il 26 e il 27 marzo 1916, nel corso dei quali rimaneva ferito tre volte: non voleva abbandonare i suoi alpini e si faceva curare sul posto. Per tale comportamento gli veniva assegnata la croce di cavaliere dell'Ordine Militare di Savoia con la seguente motivazione: «Con coraggio, massima attività ed intelligenza, riusciva ad ottenere dalle truppe messe ai suoi ordini il massimo rendimento in modo che queste diedero brillante prova nell'azione offensiva del 26 e 27 marzo del 1916 al Passo del Cavallo e Selletta Freikofel, riuscendo a ricacciare il nemico, conquistarne le trincee e fare prigionieri e bottino di guerra. Passo del Cavallo e Selletta Freikofel, 26 e 27 marzo 1916».
Promosso colonnello nel dicembre 1916, veniva assegnato al comando. del X reggimento di fanteria della Brigata Regina, che conduceva in vittoriose azioni sul Faiti meritando la seconda medaglia d'argento, che il Duca d'Aosta in persona volle appuntargli al petto, con questa motivazione: «Bella figura di comandante di reggimento, con mirabile calma e grande perizia trascinava i suoi reparti in ripetuti contrattacchi, sempre alla testa dei più ardimentosi, non desistendo dal suo fermo proposito se non dietro ordine superiore. Rac cogliano, 26 e 30 marzo 1917».
Dal fronte giulio passava col reggimento al fronte trentino assumendo il comando tattico anche di quattro battaglioni di alpini. Partecipava all'aspra battaglia dell'Ortigara rimanendo, la sera del 25 giugno 1917, gravemente ferito alla testa. Non abbandonava il suo posto malgrado un temporaneo periodo di cecità causatogli dal trauma. Si riprendeva ma riceveva una seconda ferita alla testa e in altre parti del corpo sicchè veniva trasportato in gravis- sime condizioni alla settima Ambulanza chirurgica dov'era sottoposto a due trapanazioni del cranio per estrarre schegge di shrapnel, dell'elmetto e d'osso della volta cranica penetrate in profondità. Grazie a questo intervento veniva miracolosamente salvato. Una fotografia lo riprende con la testa avvolta in bende e con un sorriso smagliante sotto i folti baffi, come se nulla gli fosse capitato. Per il suo comportamento il Re gli conferiva «motu proprio» la medaglia d'oro al v. m. con la seguente motivazione:
«Sempre in mezzo ai suoi soldati, per dividerne le sorti, in un violento contrattacco nemico, più volte contuso e poi gravemente ferito in fronte, volle rimanere sul posto, raro esempio di amor di patria, di sentimento del dovere e di indomito coraggio. Monte Ortigara, 25 giugno 1917».
Al momento della ritirata di Caporetto, Ugo Pizzarello si trovava in ospedale a Padova. Chiedeva di ritornare al fronte, ma gli veniva affidato invece un delicato incarico in Inghilterra e in America nel quadro di una vasta azione intrapresa per la riscossa. All'epoca della conferenza della pace lo troviamo a Parigi nel gruppo degli esperti affiancati alla commissione italiana. Rientrava nel giugno del 1919 per assumere l'ufficio di assistenza e propaganda del Corpo d'Armata di Firenze. Qualche anno dopo prendeva il comando del 69° Reggimento di fanteria di stanza nel capoluogo toscano; veniva poi trasferito a Zara, dove rimaneva al comando di quel presidio dal 1924 al 1926.
Con la promozione a generale passava a Perugia alla testa della Brigata Alpi (1930), indi a Bari (1935) e infine al comando della Zona Militare di Roma. Tra l'una e l'altra di queste destinazioni non mancava di far visita a Capodistria come nella primavera del 1933 allorché gli ex volontari di guerra capodistriani gli offrivano la medaglia coniata dal municipio in onore dei reduci. Nel 1937 passava a disposizione del Ministero della Guerra col grado di generale di Corpo d'Armata per incarichi speciali sino al congedo per raggiunti limiti di età, che aveva luogo nell'ottobre del 1941, dopo 32 anni di onorevole e ininterrotto servizio. Ritiratosi a Firenze, cessava di vivere ultraottantenne il 29 settembre 1959.
- Nicolò Cobolli Gigli
Non per questo erano degli estranei, chè il sangue capodistriano di vecchio ceppo non s'era diluito nelle loro vene e vincoli di parentela e d'amicizia erano mantenuti con molti dei coetanei, specialmente coi cugini Cobolli. Cordiali con tutti, anch'essi erano attratti dal polo del Circolo Canottieri «Libertas» a Porta Isolana, luogo di convegno ideale, dove si vedevano spesso attorno alle barche ad organizzare uscite, escursioni o traversate sino al Lido di San Nicolò d'Oltra.
Nicolò era nato a Torino, il 30 ottobre 1918, quando la prima guerra mondiale stava per finire e a Capodistria erano già apparsi i primi tricolori. Il padre Giuseppe, che seguiva gli studi al politecnico, era stato sorpreso dagli eventi del 1914 nel capoluogo piemontese e s'era arruolato volontario nel l'esercito italiano col cognome Gigli sposando poi una torinese, Maria Azario.
Sensibile alla tradizione patriottica di famiglia e ai doveri, ch'essa comportava, Nicolò, appena diciottenne, partiva nell'ottobre del 1936 per l'Africa Orientale, terra che per i giovani del tempo rappresentava un romantico e avventuroso richiamo al di là del momento politico, dove egli si rendeva utile nello svolgimento di incarichi civili.
Rimpatriato alla fine del 1937, aveva modo di coltivare la sua passione per il volo conseguendo, nel giugno del 1938, il brevetto di pilota civile, che gli permetteva di coronare la vecchia aspirazione di entrare in servizio nell'Aeronautica Militare. Assegnato alla scuola di volo di Castiglione del Lago, superava severe prove psico-fisiche e otteneva il brevetto di pilota militare il 10 luglio 1939. Col grado di sottotenente di complemento prestava il prescritto servizio di prima nomina nei bombardieri per passare presto nel 4° Stormo Caccia Terrestre, specialità che richiamava il fior fiore dei piloti. Veniva collocato in congedo il 16 marzo 1940 e poco più di due mesi dopo, avuto appena il tempo di conseguire la laurea in scienze politiche presso l'Università di Roma con una brillante tesi sull'Albania, al precipitare degli eventi, nei quali l'Italia veniva trascinata, Nicolò era richiamato in servizio. Destinato al 51° Stormo Caccia Terrestre, prendeva pratica dei velivoli operativi di prima linea passando dai vecchi C.R. 42 ai G. 50. Nel settembre dello stesso anno veniva assunto in forza dal 59 Stormo, inquadrato nel 24° Gruppo destinato alle forze aeree dell'Albania.
Il giovane Nicolò Cobolli Gigli arrivava a Tirana il 2 novembre 1940 e veniva ben presto investito dal ciclone della guerra, nel quale si lanciava senza risparmiarsi e senza far valere amicizie e conoscenze altolocate, che avrebbero potuto metterlo al riparo dei pericoli. Dal novembre 1940 al marzo 1941 Nicolò era impegnato quasi giornalmente in voli di scorta ai bombardieri, in pattuglia di protezione ai campi, in azioni offensive, guadagnandosi la piena stima dei superiori e dei compagni di volo, su di un fronte difficile per le caratteristiche del terreno e sanguinoso per essere sostenuto da forze insufficienti rispetto alle inattese reazioni dell'avversario, che in un primo tempo era riuscito a ricacciare le truppe italiane in territorio albanese.
Il 4 marzo 1941 si sviluppava un'offensiva aereo-navale al confine greco- albanese. Da Tirana giungeva la squadriglia da caccia di Nicolò alla scorta di nostri bombardieri, che venivano attaccati da una forte formazione di caccia avversari. Accesosi un violento combattimento, Nicolò si lanciava in aiuto di un gregario tagliato fuori e si trovava impegnato ben presto in una impari lotta fatta di picchiate, di cabrate, di scivolate d'ala tra il grandinare di proiettili. Alla fine gli aerei avversari si ritiravano lasciando sul terreno cinque aerei, ma anche due dei nostri mancavano infine all'appello. Uno veniva rintracciato entro le nostre linee; di Nicolò Cobolli Gigli nessuna notizia. Trepide le speranze, che si facesse vivo da qualche campo di prigionia e la concessione della medaglia d'argento con la seguente motivazione: «Audace pilota da caccia, gregario generoso e fedelissimo, partecipava con grande slancio a numerose crociere offensive, a scorte al bombardamento, compiute in territorio nemico e spesso al limite dell'autonomia. In combattimento contro caccia avversari contribuiva efficacemente all'abbattimento di dieci apparecchi; in altro aspro combattimento contro forze nemiche da caccia, più che doppie di numero, generosamente ed eroicamente accettava l'impari battaglia, finchè colpito fu costretto a scendere in territorio nemico. Cielo di Grecia, novem bre 1940 marzo 1941».
La verità veniva appresa dopo 16 mesi quando il padre rintracciava e riconosceva la salma del figlio, quando fu possibile interrogare i testimoni oculari, come il capo del villaggio di Spilea, che rilasciava la seguente dichia razione: «Nelle prime ore del pomeriggio del 4 marzo 1941 mi trovavo a Spilea di Himara, da dove seguii il combattimento aereo-navale di quel giorno. La mia attenzione venne attratta da un aereo italiano, il quale, incurante del numero dei caccia nemici, li affrontava decisamente. Ne segui un serrato duello; l'italiano svolgeva brillanti evoluzioni da lasciare ammirati gli stessi soldati greci, sia per la perizia che per l'indomito coraggio tanto che gli stessi abitanti ne rimasero vivamente entusiasmati. Dopo poco, però, malgrado la aggressività e il coraggio, l'aereo italiano veniva colpito dal nemico e l'aviatore perdeva la vita nel generoso sforzo di volere tenacemente vincere. Questo aviatore viene qui ricordato come l'eroe del cielo di Spilea».
Conosciuta la fine coraggiosa del giovane pilota, la medaglia d'argento veniva commutata nella medaglia d'oro alla memoria con la motivazione che segue: «Chiedeva e otteneva giovanissimo ancora, di essere assegnato ad un reparto di aviazione da caccia. Pilota di eccezionale valore, gregario sicuro e fedele, combattente tenace e aggressivo, in più scontri aerei contribuiva ad infliggere al nemico la perdita di numerosi velivoli. Durante un combattimento contro preponderanti forze nemiche, dopo aver strenuamente ed eroicamente sostenuto la lotta asperrima, si lanciava in soccorso di un gregario che, tagliato fuori della formazione, stava per essere sopraffatto. Una raffica nemica, colpendolo in pieno, stroncava con la sua fiorente giovinezza, l'ultimo suo gesto generoso degno della nobiltà d'animo e dell'ardimento, che aveva caratterizzato la sua vita. Cielo d'Albania, novembre 1940 4 marzo 1941».
Il suo è stato un gesto molto simile a quello che pochi giorni prima era costato la vita nel cielo del Sudan al conterraneo Mario Visintini. L'offensiva italiana riguadagnava il terreno perduto proprio in quei giorni, ma non è stato dato a Nicolò di conoscere l'esito del sacrificio suo e dei molti suoi compagni d'arme, nè di riposare sotto i cipressi di S. Canziano, come avrebbe desiderato secondo quanto da lui confidato ad un amico.
- Giorgio Cobolli
Un gruppo molto unito, che il padre, capitano Biagio, e la madre, Nicolina de Baseggio, hanno educato ad alti sensi di civismo nella scia di una tradizione, che affonda le radici sino ai primordi dell'irredentismo istriano e più in là (non a caso è dei Baseggio il primo tricolore italico della Guardia Nazionale napoleonica). Vecchia famiglia di patriotti, quella dei Cobolli, dalla quale sono emersi Giorgio, benemerito podestà dal 1885 al 1900; Nicolò, fondatore dei ricreatori comunali di Trieste, che ha dedicato una vita alla educazione della gioventù; il capitano Biagio. Vecchio lupo di mare e comandante lloydiano, esponente della Lega Nazionale, arguto verseggiatore, al centro di aneddoti, di cui basti ricordarne uno: assumendo, un giorno, il comando del nuovo piroscafo del Lloyd «Austria» egli esclamava con voce stentorea facendosi sentire da tutti: «Austria! Ti tengo finalmente sotto i piedi!» Ce n'era a sufficienza e nel maggio 1915 capitan Biagio veniva internato con la famiglia a Oberhollabrun dove, nel 1917, veniva alla luce Redenta.
Giorgio è nato il 30 gennaio 1913. Conseguito il diploma di capitano di lungo corso nell'Istituto Nautico di Trieste, nel 1933, prendeva servizio presso società triestine di navigazione ed effettuava diversi viaggi in Mediterraneo e oltre gli stretti. Chiamato a prestare il prescritto servizio militare nella leva di terra, veniva destinato nell'ottobre del 1936 al corso allievi ufficiali di complemento presso la Scuola di Artiglieria di Lucca, dalla quale veniva licenziato l'anno successivo col grado di sottotenente. Prestava servizio di prima nomina presso il 23º Reggimento divisionale. Nel settembre del 1939 veniva richiamato nello stesso reggimento in previsione della guerra, in cui l'Italia stava per essere coinvolta, mentre si trovava imbarcato col grado di terzo ufficiale di coperta su di una nave della Società Adriatica di Venezia. Veniva assegnato al 204° Reggimento divisionale in partenza per la Libia. Sbarcato a Derna, il reggimento si trovava dislocato il 10 giugno 1940 nella zona di Tobruk e prendeva parte all'avanzata verso Alessandria d'Egitto e quel canale di Suez, che il padre aveva attraversato cento e più volte con i piroscafi del Lloyd, e dove i marittimi capodistriani si sentivano chiamare «cavresani» da bordo di una piccola barca a vela, al timone della quale si trovava il cap. Mario Giovannini, capo pilota della Compagnia del Canale.
Giorgio non pensava certamente a tutto ciò il 10 dicembre del 1940 allorchè si vedeva impegnato col suo reparto in un violento combattimento contro gli Inglesi. Inquadrato dal fuoco nemico, rimaneva gravemente ferito ma non voleva abbandonare la posizione. Catturato sul campo, veniva sottoposto alle prime cure nel 19° Ospedale Generale per essere poi internato in un campo di prigionia sino all'aprile del 1942 quando, ormai cieco, veniva rimandato in patria a seguito di uno scambio di prigionieri invalidi. Dopo altre cure ospedaliere, Giorgio Cobolli veniva trattenuto in servizio col grado di tenente in forza presso il Comando Territoriale e poi presso il 23° Comando Regionale di Trieste. Assumeva incarichi direttivi in seno all'Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra e nell'Associazione Nazionale Combattenti.
A riconoscimento del valore e dell'abnegazione dimostrata, Giorgio riceveva la massima decorazione al valore militare con la seguente motivazione: «Ufficiale comandante la pattuglia O.C. del Comando reggimento di artiglieria direttamente attaccato da forze corazzate avversarie, incurante dell'intenso bombardamento di artiglieria e del tiro diretto dei carri armati, con imperturbabile fermezza si prodigava nell'assolvimento del suo compito. Interrotte le comunicazioni, spontaneamente recava ordini alle batterie viciniori, attraversando zone già controllate da carri armati. Rientrato al proprio caposaldo di prima linea, dove più aspra era la lotta, accorreva di sua iniziativa ad una sezione di pezzi anticarro, che aveva già subito gravissime perdite, compreso il comandante, e, mentre con ammirevole calma e singolare coraggio dirigeva il fuoco contro carri armati a distanze molto ravvicinate, veniva gravemente colpito alla testa. Per quanto la ferita lo avesse reso completamente cieco, rifiutava di essere trasportato al posto di soccorso per non distogliere gli uomini dal combattimento e incitava i dipendenti, con la voce e con il gesto, a continuare nell'aspra lotta mortale finchè veniva catturato. Durante la prigionia, e malgrado delle gravi sofferenze, fu esemplare per alto spirito di patriottismo e indomita fierezza. Africa Settentrionale, 10 dicembre 1940.»
L'Istria veniva occupata dagli Jugoslavi nel maggio 1945 e Giorgio Cobolli subiva deportazione e nuova prigionia. Ottenuta la liberazione, poteva soggiornare a Capodistria per breve tempo riparando a Trieste nel 1948, sulla via dell'esilio, come la maggior parte dei concittadini. Nel 1950 si trasferiva a Roma chiamato alla sede centrale dell'Unione Italiana Ciechi quale diri- gente il Servizio Lavoro e Assistenza e il Centro del «Libro Parlato».
Promosso capitano nel Ruolo d'Onore con anzianità 1945, poi maggiore dal 1956, tenente colonello due anni dopo e colonnello dal 1959, Giorgio Cobolli vive con indomita dignità nella tristezza dei tempi che corrono, col conforto di Eugenia Lonza, la compagna fedele della sua vita, dei figli Marina e Giulio e dei nipoti.
- Spartaco Schergat
Polmoni a mantice e dimestichezza con l'acqua Spartaco aveva sempre dimostrato di possedere; non fa meraviglia quindi che, seguendo una vocazione che già s'era manifestata nel padre e nel fratello maggiore, egli abbia trovato pane per i suoi denti nell'attività di palombaro.
Nato il 12 luglio 1920, secondogenito di Pietro Schergat e di Maria Norbedo, era cresciuto tra le calli e i campielli della vecchia Capodistria, volonteroso scolaro a Santa Chiara e amico di tutti. Passata la leva di mare, partiva per il servizio militare in Marina nel marzo del 1940 e, dopo un primo periodo di addestramento presso la scuola del Corpo Reale degli Equipaggi Marittimi di Pola, veniva trasferito alla scuola di specializzazione di San Bartolomeo presso la base navale di La Spezia. Alla fine del periodo di istruzione e di selezione riceveva, nel settembre dello stesso anno, il bre-lvetto di palombaro grazie al quale, a sua richiesta, passava nei reparti speciali d'assalto, allora tenuti segreti sotto il nome di copertura di X Flottiglia MAS. Questi reparti richiedevano doti psichiche, morali e fisiche eccezionali, per cui egli si sottoponeva ad un nuovo periodo di allenamento massacrante e non scevro di pericoli al termine del quale entrava in quelle piccole ma aggressive formazioni che seminavano lo scompiglio e aprivano vuoti nello schieramento nemico con l'affondamento complessivo di quattro navi militari e ventisette mercantili. Troviamo Spartaco Schergat impegnato in varie azioni guadagnando menzioni onorevoli, due croci di guerra e una medaglia di bronzo, delle quali riportiamo le motivazioni:
«Volontario nei mezzi d'assalto della Marina partecipava come operatore di riserva al forzamento di una delle più potenti basi navali avversarie. A bordo del Sommergibile che con difficilissima navigazione ostacolata da correnti e dalla caccia avversaria trasportava gli audaci fino a poche centinaia di metri dalle ostruzioni, manteneva contegno calmo e coraggioso e coadiu vava efficacemente i compagni nella fuoriuscita. Gibilterra, settembre 1941».
«Volontario nei reparti d'assalto della Marina, partecipava prendendo imbarco su Sommergibile, a una arditissima missione di avvicinamento e di forzamento di una piazzaforte nemica, dando prova di slancio, coraggio ed elevato spirito combattivo. Mediterraneo Occidentale, 20 settembre 1941- 10 novembre 1941».
«Volontario nei reparti d'assalto della R. Marina affrontava con cuore gagliardo e con sereno ardimento i più ardui cimenti. In qualità di operatore assistente, partecipava ad una ardua missione di guerra contro una munita base navale nemica nella cui prossimità prestava con perizia e abnegazione la sua sperimentata opera di assistenza. Mar Mediterraneo, maggio 1941».
Grazie allo stato di servizio, Spartaco Schergat veniva prescelto con pochi altri per una impresa eccezionale: il forzamento della base navale inglese di Alessandria d'Egitto, che aveva luogo con pieno successo nella notte tra il 18 e il 19 dicembre 1941 agli ordini del capogruppo t.v. Luigi Durand de la Penne e condotto da un pugno di audaci alla manovra di tre SLC (siluri a lenta corsa) o, come si diceva in gergo, di tre «maiali». Troviamo Spartaco assegnato quale secondo operatore al semovente n. 223 col capitano del Genio Navale Antonio Marceglia di Pirano. Il piccolo gruppo di spericolati veniva portato sin nei pressi della base nemica dal sommergibile «Sciré», che lasciava liberi gli incursori di procedere coi propri mezzi. Superate con fortuna le ostruzioni, il piccolo gruppo si divideva e ognuno puntava verso il proprio obiettivo. La coppia Marceglia-Schergat eseguiva la manovra di attacco e di disimpegno senza intoppi e con assoluta regolarità. Collocata la carica esplo siva sotto la corazzata «Queen Elizabeth», i due riuscivano a prendere terra e a passare i cancelli del porto senza farsi notare. Mentre le prime luci del l'alba cominciavano a rischiarare il cielo, tre potenti esplosioni rompevano la calma dell'ora mattutina segnando il destino delle corazzate «Queen Elizabeth» e «Valiant» e della petroliera «Sagona» oltre a danneggiare un cacciatorpediniere. Veniva così restituito il colpo di Taranto e pareggiata la situazione con un'azione, che non trova paragone in nessun altro fatto clamoroso di tutta la guerra.
Merceglia e Schergat prendevano il treno per Rosetta, alle foci del Nilo, al fine di guadagnare il mare, dov'era in attesa un sommergibile, ma finivano per essere notati e catturati. Dopo molti e inutili interrogatori nel centro raccolta informazioni del Cairo, venivano internati nel campo di prigionia n. 321 dislocato in Palestina, da dove Spartaco veniva spostato in Sud Africa.
Nell'ottobre del 1944 ritornava in patria per riprendere servizio presso la base navale di Taranto col grado di sergente. I reduci di Alessandria e i superstiti della X MAS venivano decorati, nel marzo del 1945, alla presenza dell'ammiraglio inglese Morgan, già comandante della «Valiant», che cavalle rescamente volle riconoscere il valore dell'ex nemico appuntando la medaglia d'oro sul petto di Durand de la Penne. Il massimo riconoscimento toccava anche a Spartaco Schergat con la seguente motivazione:
«Eroico combattente, fedele collaboratore del suo ufficiale, dopo averne condivisi i rischi di un tenace, pericoloso addestramento, lo seguiva nelle più ardite imprese e, animato dalla stessa ardente volontà di successo, partecipava con lui ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei, che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superate difficoltà ed ostacoli d'ogni genere, valido e fedele aiuto all'ufficiale, offesa a morte con fredda bravura la nave attaccata, seguiva in prigionia la sorte del suo capo, rifiutandosi costantemente di fornire al nemico qualsiasi indicazione: superbo esempio di ardimento nell'azione e di eccezio qualità morali. Alessandria, 18-19 dicembre 1941».
Ottenuto il congedo nel novembre del 1945, Spartaco ritrovava la città natale in condizioni differenti rispetto a quando l'aveva lasciata cinque anni prima. Non menò alcun vanto, non disse una parola neanche in seno agli amici più fidati, fedele alla consegna del massimo riserbo sulle missioni e sui mezzi impiegati. Si sposava il 25 dicembre 1945 con Elda Giovannini. Due figli, Marina e Romano, nascevano a Capodistria, ma la terza, Anita, vedeva la luce ad esodo avvenuto, a Trieste, nel 1954. Qui egli si è fermato dopo aver continuato a rischiare la vita nelle operazioni di bonifica delle acque minate a Genova e in altri porti. Nominato secondo capo di comple mento con anzianità 1969, fregiato del titolo di cavaliere ufficiale della Repubblica Italiana, Spartaco Schergat presta attualmente la sua opera presso l'Università degli Studi di Trieste.
Trieste, gennaio 1977.
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