mercoledì 27 dicembre 2023

Il calvario di Montona

Nella parte centrale dell’Istria, in cima ad un colle da cui si domina la valle del fiume Quieto, sorge Montona (la romana Castrum Montonae), il paese che dette i natali ad Andrea Antico, inventore, nel 1517, della stampa in legno delle note musicali.

A proposito di legno, Montona fu preziosa per Venezia, cui si donò nel 1278, ed alla quale per cinque secoli fornì la quercia del grande “bosco di San Marco” con cui venivano costruite le galee della flotta veneziana.

Montona ha conservato quasi completamente la sua cinta muraria fortificata ed il leone di San Marco che accoglie chi la visita è un leone di guerra, col libro chiuso. Nei territori di confine o di guerra, infatti, il leone veneziano, che siamo abituati a vedere recante il “Pax tibi Marce, evangelista meus”, chiudeva il libro e prendeva la spada.

Sono una decina, a Montona, i leoni scolpiti sul marmo, tutti rivolti a est, a far da guardia alla vecchia torre merlata, al Duomo di Andrea Palladio, alla Loggia (la Losa) aperta su tre lati che domina la valle. 

Montona, orgogliosa della sua italianità, la difese con le unghie e con i denti, anche a prezzo di sacrifici enormi di cui sono testimonianza gli eccidi che fu costretta a subire.

È rimasta traccia, presso gli archivi della Stato Maggiore dell’Esercito, della fine eroica di Umberto Visintin di Portole e di Egidio Linardon (appena sedicenne) di Montona. Era il 1° luglio 1944: i due prigionieri − si legge nei documenti conservati a Roma − “subirono stoicamente inenarrabili torture per tutto il giorno; alla sera condotti presso un cimitero, dopo aver rifiutato di abiurare la propria fede, gridando forte il nome d’Italia, caddero sotto le pugnalate”. Accanto a loro furono uccisi, sempre a pugnalate, altri sei italiani, tutti buttati in una fossa comune all’esterno del cimitero di Sovischine di Montona.

Di quell’eccidio raccontò un sopravvissuto, Armando Jannucci: “Ci legarono per i polsi e ai piedi, traversammo il bosco sino a Villa Simetti. Verso le 19 ci tolsero i legacci ai piedi, ci fecero alzare e ci legarono per il braccio due a due... ci fecero montare la collina, in cima c’era uno spiazzo... fecero inginocchiare una ventina di uomini con le armi puntate verso di noi... ne presero due a caso e li fecero avanzare, slegarono loro le scarpe, li spogliarono, li misero faccia al vuoto e il capo ordinò: ‘Spartaco fai il tuo lavoro’. Questo dette due pugnalate nelle spalle dietro la nuca, uno spintone e giù”. 

Quando fu il suo turno, Jannucci si buttò nel vuoto: gli spararono dietro, mancando sempre il bersaglio, cercarono di inseguirlo ma riuscì a nascondersi e si salvò la vita.

Spartaco Zorzetti, l’autore della strage, italiano di Rovigno al servizio degli jugoslavi, verrà in seguito insignito dell’ordine “al valore” da Josip Broz Tito per i suoi servigi alla causa.

Meno di un anno dopo Montona fu testimone di altre stragi, ancor peggiori. Erano i primi giorni di maggio del 1945. Gli italiani di Montona avevano organizzato l’ultima, vana, resistenza agli jugoslavi. Pagarono con le torture e con la vita. 

Così raccontò la signora Pia Lius di Montona, nel suo diario: “Dopo la Messa, ieri (5 maggio) è stato il processo popolare di Italo Tato (Tato è il soprannome di famiglia, si chiamava Belletti ndr). Mi dissero che era legato col fil di ferro, tutto livido dalle percosse e condotto in giro per la piazza (...) da lì è passato quel povero Italo nella notte alle due, per il suo supplizio, spogliato completamente lì presso al cimitero di Montona, ove supplicava che gli chiamassero un sacerdote”. Fu finito a coltellate e poi a fucilate. All’ultima persona con cui era riuscito a parlare, Italo Belletti lasciò detto: “se ci sarà un plebiscito per l’Italia vota anche per me”. Ma quel plebiscito non ci fu mai.

Il 10 maggio un gruppo di venti prigionieri fu fatto uscire dal paese scortato dai partigiani titini. Tra questi vi erano l’ultimo podestà di Montona, Mario Pisani, il segretario comunale Vittorio Cassano, un carabiniere, alcuni militi della Milizia di Difesa Territoriale e altri giovani italiani. Dissero loro che avrebbero raggiunto Pisino a piedi, ma non vi arrivarono mai. Furono inghiottiti da una cava di bauxite, buttati già morti o moribondi dopo essere stati presi a mitragliate dai titini. 

Racconta Silvia Peri, che li vide passare di fronte a casa: “Ricordo che erano scalzi, rotti, uno aveva addirittura gli occhi fuori dalle orbite. La loro destinazione era Cava Cise, una cava di bauxite profonda tre metri. Li hanno buttati dentro ma non erano tutti morti, si lamentavano... la gente che passava alla curva per andare a Pisino sentiva lamenti ma pensava che fossero bestie malate, e allora non ci andava vicino. Poi però sentirono una puzza tremenda...”.

Di quel segreto non si doveva parlare e fu così che nella Jugoslavia comunista, per cinquant’anni e più, Cava Cise divenne solo una discarica. 

Finché l’amore degli esuli della Famiglia Montonese, con il permesso delle nuove autorità croate, ridiede dignità a quel luogo e soprattutto fece di Cava Cise un piccolo sacrario, ove oggi sorge un memoriale con una Croce ed i nomi dei caduti incisi sulle pietre.

Questa e tante altre storie le ho sentite narrare dalla viva voce di Luigi Papo, nativo proprio di Montona, una delle più belle figure dell’esilio istriano, combattente, storico, scrittore. Prigioniero dei titini ed internato nel campo di concentramento di Prestrane, fece una sorta di voto: se fosse uscito vivo da lì avrebbe dedicato la sua vita a raccontare le storie della sua Istria, dei suoi caduti, della sua italianità.

Adempiendo a quel voto, oltre a numerosissimi scritti e pubblicazioni, Papo ci ha lasciato il suo monumentale “Albo d’Oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto mondiale” in cui ha raccolto i dati sui caduti civili e militari della e nella Venezia Giulia prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale: 17.000 nomi, ricchi di note e storie personali. Da esule si era stabilito a Roma ed aveva aggiunto al cognome Papo il suffisso toponimico “de Montona”.

“Dovrebbe fare così ogni nostra famiglia − mi diceva − per trasmettere il nome e la memoria italiana del suo paese”.

In casa aveva ricostruito in una stanza, con meticolosa precisione, un plastico della sua cara Montona. Di sera vi si sedeva di fronte, al buio, ed accendeva le mille lucine delle finestre del suo borgo antico.

Così tornava, con la mente, con il cuore ed i sogni a Montona. La sua Montona. Italiana.

(dal libro di Roberto Menia, "10 Febbraio. Dalle Foibe all'Esodo, 2020)

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