"Quando si lascia Trieste, subito Muggia prenunzia e riassume il carattere essenzialmente veneziano della costa istriana: Muggia, piccola città battuta dal mare e dai secoli, col suo leoncino dal muso arguto e dal libro chiuso; col suo piccolo porto, nel quale Enrico Dandolo approdava alla testa dei crociati. Non questo è il primo ricordo della città, che assai tempo innanzi era già insigne, col nome di Mugla, per battaglie e riti fiorenti di leggenda, per gloria di pio culto cristiano, come del resto tutta la rimanente Istria e la Dalmazia; ma è il segno dei crociati con quello del Leone che, alla romanità ond’è segnata gran parte del mondo, aggiunge primo a questa sponda dell’Adriatico un’impronta unica di venezianità e quindi di italianità. Quando, dunque, Enrico Dandolo vi approdava «la città s’adergeva sul monte San Michele, ed il caseggiato presso il porto dicevasi Borgo Lauro; in quel tempo Muggia era soggetta al vescovo d’Aquileia, insignito del titolo di Patriarca; il quale, dominatore poco meno potente di Roma, vi teneva un palazzo — poi occupato dai Veneziani ed infine, dopo parecchi restauri, oggidì casa municipale — , nonché un forte castello più minaccioso ai sudditi che al nemico». Muggia vecchia dista tre quarti d’ora dalla sua città marina, e dell’antica gloria non ha che la disfatta corona delle sue mura, oggi ridotte a baluardo del piazzale e a sedile de’ pellegrini dell’interno; e la basilica, detta anche della Monticula, dedicata agli apostoli Pietro e Paolo, con le sue pietre scolpite che rivelano lo stile longobardo di Cividale. L'atrio, l’ambone su colonne, gli ornati dei cancelli, qualche frammento di pittura bizantina sono argomento di studio e di discussione agli intenditori. Più antica della basilica, l’ombra degli atavi Istriani celti ed illirici, dalle armi di bronzo e Torror sacro della leggenda della sacerdotessa forse druidica murata e arsa nelle vecchie mura, li tra le nebbie della preistoria, — contemporanea delle grotte spaventose, là nella montagna, di San Canziano, — gravano sulla solitudine pànica del luogo e dell’ora. Integrano poi la leggenda le sovrapposizioni bizantine, longobarde e franche; affrettano la formazione della storia e l’atteggiamento della chiesa romana erede dei diritti dello stato e la lotta necessaria delle città costiere contro l’invasione slava che cala come il nembo dalla montagna ad avvolgere la costa latina; e che già nel secolo IX si esprime con la dieta del Risano, finché tra conti di Gorizia e patriarchi d’Aquileia appare a Muggia unico protettore liberatore possibile, San Marco. La bella cattedrale dal campanile cuspidato, il palazzo pubblico col suo leone, il tipo e il parlare del popolo rendon testimonianza anche oggi alla sovranità della Dominante. — Così per tutta l'Istria per tutta la Dalmazia noi ci prepariamo a vedere ormai presente il segno del Leone.
Subito dopo Muggia, salutate nel golfo Giustinopoli, gemma dell’Istria, Egida,Giustinopoli, Capodistria: attraverso questi tre nomi dei quali il poeta ha prescelto quello più suggestivo di tradizione imperiale, la capitale dell’Istria, la cui origine è confusa negli involgimenti del mito argonautico, ha vissuto una sua storia complessa e magnifica, a cui la vita veneziana ha dato qualche secolo di conclusione. L’alba di Egida è nello scudo di Minerva; colchica e argonautica la vela che prima scoperse la sua bellezza marina. Romana, orientale, longobarda, franca, come Muggia, essa pure, la città trismegista, Egida-Giustinopoli-Capodistria si avvicina a Venezia nel X secolo; ed è nel 1096 che dinanzi al suo scoglio sfilano imponenti le navi che conducono in Terra Santa i primi crociati. Oggi, l’unico vestigio della sua esistenza come città romana è la porta detta la Muda. Tutto il resto o quasi nella città di San Nazario riflette e raffigura la città di San Marco. «Le vie, gli edifiziipubblici e privati costituiscono precisamente come un brano di Venezia che si fosse staccato dalla laguna e traversando l’Adriatico si fosse ancorato alla costa del golfo triestino: ivi come a Venezia si fusero in armoniosi prodotti le architetture bizantine, moresca, ogivale e del Rinascimento, l’impronta del leone di San Marco ripetuta a profusione non è ivi necessario suggello per riconoscere la venezianità del luogo...». Più veneziana di così?... Capodistria che ha dato cinque dogi alla Serenissima, se pure non è più assolutamente identica alla sua forma quattrocentesca quale la fissò, in un trionfo di linee e di colori, Benedetto Carpaccio, nella tavola insigne che rappresentaappunto l’entrata del podestà veneto nella città peninsulare, certo almeno dal principio del seicento ad oggi non ha subito mutazioni notevoli. L’ossatura urbana, per così dire, è sempre quella antichissima, essendo Capodistria una scogliosa penisoletta d’ogni parte chiusa. — E sebbene per tutta la sua cerchia si respiri l’aria stessa di Venezia, è sulla Piazza grande, dove il Palazzo della Ragione o del Podestà erge la sua altera grazia turrita e merlata, che lo splendore della Dominante ci affascina e ci ammalia. Sotto la merlatura ghibellina ricorrente in alto per tutta la sagoma dell’edificio, tra la varietà delle forme dei finestroni a tutto sesto ed ogivali, una serie di busti, di statue, di stemmi, d’iscrizioni viene a documentare sulla facciata maestosa, più che la storia, l’anima stessa ormai fatta definitivamente veneziana, della città argonautica, circondando, non senza una certa qual virtù di simbolo inconsapevole, testimone di romanità, una statua di Cibele, che per attrazione di luogo e di significato fu venerata poi come simulacro di Giustizia, e siede ancora sul fronte della merlatura, corrosa dal tempo. Di fronte alla gloria del Palagio e del Duomo, del quale diremo appresso, non è maraviglia che sembrino minori altri pur notevoli ed eleganti edificii: la loggia della Calza edificata nel quattrocento, il fondaco con le sue finestre semicircolari ed ogivali e le sue iscrizioni commemorative di savii provvedimenti veneziani; il Castel del Leone — intorno al quale la città pare aggrupparsi veduta dal mare — ridotto oggi ad ergastolo; la foresteria, e anche la venusta fontana che in piazza del Ponte sorge sotto un arco esattamente riprodotto da un ponte veneziano del seicento. E sorridono inoltre di tutta grazia, qua e là, le architetture delle vecchie case dagli stemmi scolpiti, dalle finestre trilobate, dalle merlature veneto-moresche, dalle travature, talora, sporgenti. Che se poi di troppi tesori la contemporanea avidità commerciale ha spogliato le sale e denudato le fronti alle case, bene è ricordare che i palazzi dei Tacco, dei Borisi, dei Del Bello vantano ancora gli antichi battitoi di bronzo alle loro porte, in figura di Veneri e di guerrieri, di putti e di fogliami, intatti.
Così, attraverso una varietà infinita di visioni e di sensazioni d’arte e di storia, si può dal rude carattere arcaico dello squero nel quartier dei pescatori — così arcaico anche nella vita che v’erano dei vecchi che non avevano mai visto altra chiesa, contenti di ascoltar la messa nella loro attigua cappella — risalire alla gioia e alla gloria del più fulgido Rinascimento nel Duomo, superbo della sua facciata, stranamente ricostituita con frammenti e accozzaglie di nobilissime scolture da restauratori spietati e non curanti, e pur bella di vigorosi dettagli e di effetto complessivo; del suo tesoro con la cappella simile a quella famosissima di Cividale, coll’ostensorio ripreso ai Turchi nella guerra del Sobieski, con il suo calice tedesco e con le sue croci italiane; dei quadri di Vittore e di Benedetto Carpaccio, di Liberale, del Luini.
Ma il vanto di Capodistria in fatto di pitture è certo tenuto dalla chiesa di Sant’Anna, dove la grande ancona del Cima da Conegliano folgora e splende dietro l’altare maggiore. In un grande trionfo di gloria s. Anna; la Maddalena, san Giovacchino e santa Caterina in piedi, ai lati; poi in mezza figura san Francesco e santa Chiara, san Girolamo e san Nazario fan corona alla Madonna con angeli eBambino; mentre in alto si libera la visione del Redentore con san Pietro e sant’Andrea.
Davanti a questa meraviglia quasi passerebbero inosservati — e non devono — i due dipinti della sagrestia attribuiti al Giambellino, quello del Palma Giovane e l’altro di Benedetto Carpaccio nella stessa chiesa; mentre la chiesa di San Niccolò ne ha uno a cui forse collaborarono Vittore e Benedetto. E non sono i dogi gli unici figli gloriosi della città, essenzialmente anche nel nome istriana, chè da Pier Paolo Vergerlo al Muzio Giustinopolitano e più giù nel settecento a Gian Rinaldo Carli, spesso la sua coltura umanistica ed erudita trascese il confine delle sue mura a diffondersi pel mondo.
Ed ora, come dire la grazia di Isola a piè del suo promontorio coronato di pampini, della dolce Isola fedele a Venezia, di Isola dalle strade porticate, dal bel campanile aguzzo, dalla ghirlanda di peschi e di mandorli fioriti lungo la marina?
È Isola che nel 1797 non voleva credere alle stipulazioni di Campoformio, e in una sollevazione di popolo uccise come un traditore il podestà Pizzamano, perchè non vi si ribellava. Due palazzi insigni — Manzuoli e Lovisato — d’architettura veneziana; la chiesa della Madonna d’Alieto; la casa del Comune segnata, anch’essa, del Leone, circondano la piazza del mercato, sul mare, dove si accentra la vita del paese; ma anche nelle stradicciole più umili e più deserte, una non so qual grazia di forma edi colore si diffonde. E c’è il fastoso palazzo Besenghi e una scuola di merletti nella casa d’un poeta... Su, in alto, affacciato alla sua ampia terrazza guardando il mare, il Duomo sta."
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