Il padre era un panettiere originario di Noventa di Piave (Venezia), soldato nell’esercito austriaco.
Quattro anni dopo la sua nascita la madre si sposò con Francesco Ferencich, capofacchino presso il porto di Trieste, dal quale ebbe altri quattro figli.
Il patrigno iscrisse Guglielmo nel censimento di famiglia del 1865 e alle scuole elementari con il suo cognome; i rapporti tra i due, testimoniati da questa chiara volontà di legittimarlo, furono molto buoni. Le modeste condizioni di famiglia non impedirono a Oberdan di continuare gli studi presso la Civica Scuola reale superiore di Trieste. All’inizio fu un allievo poco diligente, soprattutto dal punto di vista del comportamento. In seguito, dopo aver ripetuto la prima classe, la sua condotta e il suo profitto migliorarono, al punto da conseguire brillantemente, nel luglio 1877, la maturità tecnica.
Frequentatore, nonostante l’età e le origini, dei salotti letterari e politici triestini, durante l’adolescenza fu molto influenzato dagli scritti di Giuseppe Mazzini e di Francesco Domenico Guerrazzi e frequentò, fra gli altri, Adolfo Liebman, l‘insegnante di matematica e militante del partito liberale Vitale Laudi, l’irredentista e istruttore di ginnastica Gregorio Draghicchio, il giornalista Riccardo Zampieri e il cantante lirico Domenico Giovanni Battista Delfino, detto Menotti.
Nell’autunno del 1877 si trasferì a Vienna dove, grazie a una borsa di studio del Comune di Trieste, frequentò il corso di ingegneria presso il Politecnico, che seguì regolarmente fino al luglio 1878. Durante il soggiorno viennese si rafforzarono le sue convinzioni patriottiche e in quel periodo, in nome di un comune sentire, partecipò ad alcune riunioni organizzate da studenti italiani e polacchi.
Il 26 marzo 1878 fu sottoposto alla visita di leva e arruolato nel 22° reggimento di fanteria Weber riservato ai giovani delle province meridionali dell’Impero, in particolare triestini, istriani e dalmati. Non ottenne alcun beneficio, nemmeno quello di poter prestare servizio a spese dello Stato. La chiamata alle armi, inizialmente prevista per 1° ottobre 1880, fu anticipata al 5 luglio 1878 in virtù dell’occupazione austriaca di Bosnia ed Erzegovina decisa dal Congresso di Berlino. Tornato subito a Trieste e trascorsa una decina di giorni in caserma, nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1878 disertò assieme a due giovani istriani originari di Pirano, Rocco Tamburlini e Nicolò Predonzani. I tre, raggiunto il molo Audace, s’imbarcarono su un veliero diretto in Italia. Dopo un viaggio di quattro giorni, reso difficile dalla mancanza di vento, il 21 luglio approdarono a Senigallia. Ad Ancona, la meta inizialmente prevista, Oberdan fu accolto da Domenico Barilari, direttore di uno dei più importanti fogli repubblicani, Il Lucifero. Per ragioni di sussistenza prese subito contatto con l’avvocato triestino Aurelio Salmona, stenografo presso il Senato e animatore del comitato triestino-istriano per le Alpi Giulie. In questa fase chiese di arruolarsi nell’esercito regolare italiano, preferibilmente in un corpo di artiglieria, ma senza successo. Per interessamento di Salmona dopo appena quattro settimane riuscì a trasferirsi a Roma. Qui riprese gli studi dimostrando una certa continuità. Nel novembre 1878 s’iscrisse al secondo corso della facoltà fisico-matematica, superando poi gli esami con buoni voti. Nel novembre dell’anno successivo passò alla Scuola d’applicazione per gli ingegneri e nell’ottobre 1880 s’iscrisse alla seconda classe, sostenendo però appena un esame e interrompendo formalmente gli studi a partire dalla metà del 1881.
In generale, la sua permanenza in Italia fu caratterizzata da gravi ristrettezze economiche. Solo per i primi mesi riuscì a contare sul sostegno delle associazioni irredentiste. Pertanto fu costretto a dare lezioni private e a lavorare come traduttore nelle redazioni dei giornali. Qualche sporadico aiuto giunse anche dalla sua famiglia e godette di alcuni sussidi governativi grazie a Onorato Occioni, rettore dell’Università, e a Luigi Cremona, direttore della Scuola d’applicazione. Solo in seguito riuscì a ottenere un incarico temporaneo e remunerato presso l’istituto di fisica e, a varie riprese, un impiego presso la Compagnia reale delle ferrovie sarde procuratogli dall’ingegnere triestino Beniamino Besso.
Non è chiaro se Oberdan fosse repubblicano al suo arrivo in Italia, ma durante il soggiorno romano fu molto influenzato dalla presenza di Salmona, tramite il quale entrò in relazione con gli ambienti dell’emigrazione politica e con figure come Matteo Renato Imbriani e il generale Giuseppe Avezzana, presidente dell’Associazione pro Italia irredenta. Del resto, quella fu la fase in cui l’irredentismo iniziò a incarnare la spinta sovversiva della tradizione repubblicana. Il 27 ottobre 1878 toccò a Oberdan portare il saluto delle terre irredente a Villa Glori, in occasione della commemorazione delle imprese garibaldine. Qualche giorno dopo, il 3 novembre, tenne un altro importante discorso a Mentana. Fin dalla sua nascita, nell’aprile 1879, partecipò alle riunioni della sezione romana dell’Associazione per le Alpi Giulie, ritagliandosi un ruolo sempre più centrale nei sodalizi irredentisti e divenendone a sua volta un punto di riferimento. La sua frenetica attività fu sottoposta alla vigilanza sia delle autorità italiane sia dell’ambasciata austro-ungarica.
In questa fase, firmandosi Nemo, mantenne i contatti epistolari con la famiglia e con gli amici rimasti a Trieste, in particolare con Menotti Delfino e Marco Stefani, per lo più manifestando insofferenza verso l’inazione contro l’Austria-Ungheria.
Nel marzo 1882, sempre a Roma, fu tra i promotori del Circolo democratico universitario, finalizzato alla diffusione della propaganda irredentista fra i giovani. Alla notizia della morte di Garibaldi, che aveva incontrato nella capitale nel luglio 1879 assieme a un gruppo di giovani emigrati triestini e istriani, Oberdan entrò a far parte del comitato che doveva predisporre la partecipazione delle associazioni irredentiste alle onoranze funebri. Al corteo organizzato a Roma in concomitanza con i funerali di Garibaldi – che preoccupò non poco le autorità italiane – sfilò davanti alla sede dell’ambasciata austriaca con la bandiera di Trieste listata a lutto, fatto che non passò inosservato.
Già in precedenza aveva sostenuto la necessità che le associazioni legate all’emigrazione si emancipassero dalla tutela politica ed economica del governo, ormai avviato verso un’alleanza con l’Austria-Ungheria. Ma dopo la scomparsa di Garibaldi gli fu sempre più evidente l’impossibilità di contribuire a un’azione concreta in favore di Trento e Trieste senza un gesto esemplare. E ciò nonostante la fiducia che riponeva in Felice Cavallotti e soprattutto in Imbriani, il principale propagandista dell’irredentismo. Fu in quelle settimane che progettò un’azione eclatante a Trieste, in occasione dell’inaugurazione dell’Esposizione industriale allestita per il cinquecentenario della dedizione della città agli Asburgo. I preparativi furono discussi in una riunione a Napoli proprio con Imbriani e d’intesa con Salmona.
Alla fine di luglio 1882 Oberdan partì per Trieste dove si trattenne almeno fino al 3 agosto. Scelse opportunamente quei giorni di grande affluenza di forestieri e, per non essere riconosciuto ed evitare l’arresto, non fece visita nemmeno alla famiglia. Per precostituirsi un alibi, fece spedire una lettera da Roma datata 2 agosto ai suoi genitori. Proprio quel giorno, infatti, avvenne un attentato all’altezza di via S. Spiridione contro un corteo di veterani e reduci che si stavano recando a rendere omaggio all’arciduca Carlo Ludovico, fratello dell’imperatore. Lo scoppio di una bomba, lanciata dalla finestra di un edificio, provocò la morte di due giovani e il ferimento di una quindicina di persone. Nei giorni successivi Oberdan confidò a Salomone Morpurgo e a Giuseppe Picciola di essere stato lui a commettere materialmente l’attentato, di aver gettato in mare un’altra bomba e di essersi allontanato poi dalla città perché impossibilitato a creare un danno maggiore, circostanza che non riuscì comunque a essere chiarita nemmeno in sede processuale. Dell’episodio fu accusato, infatti, il triestino Leopoldo Contento, che morì in carcere dopo qualche mese, e le indagini portarono al coinvolgimento di una trentina di persone legate agli ambienti dell’irredentismo, tra le quali Raimondo Battera, poi assolto dalle imputazioni più gravi, e il garibaldino triestino Giusto Muratti, che aveva procurato a Oberdan i mezzi per ripassare il confine, raggiungere Udine e poi, dopo una tappa a Genova, ritornare a Roma. Secondo altre versioni, non confermate, la bomba sarebbe stata lanciata da Adelia Delfino, sorella di Menotti.
L’incidente del 2 agosto suscitò molto allarme nelle autorità austriache e rafforzò in Oberdan la convinzione che bisognasse colpire direttamente l’imperatore Francesco Giuseppe durante la sua visita a Trieste prevista intorno alla metà del mese di settembre. I dettagli di questo nuovo attentato, disapprovato però dai vertici del movimento repubblicano, furono messi a punto a Roma in un paio di riunioni con Albino Zenatti, Salomone Morpurgo e Salmona, che procurò il necessario, comprese due ‘bombe all’Orsini’. Inizialmente era previsto che Oberdan partisse da solo, ma poi si fece accompagnare dal farmacista istriano Donato Ragosa. L’intenzione era di raggiungere Trieste il giorno prima della famiglia imperiale, attesa per la mattina del 17 settembre.
In quel frangente Oberdan stese probabilmente il suo testamento politico, sottoscritto anche da Ragosa – la cui firma fu poi cancellata per non comprometterlo – e affidato al repubblicano Felice Albani, il quale a sua volta lo consegnò ad Antonio Fratti che il triestino aveva conosciuto durante il soggiorno romano.
Partiti da Roma il 14 settembre, il giorno dopo Oberdan e Ragosa giunsero a Udine, dove incontrarono l’avvocato Giuseppe Fabris-Basilisco, un emigrato politico che godeva della fiducia di Salmona, ma che in realtà era un confidente austriaco. Un altro infiltrato negli ambienti irredentisti, Francesco de Gyra, ex garibaldino di origine ungherese, fornì negli stessi giorni preziose informazioni sui movimenti dei due giovani, che ripartirono da Udine nel pomeriggio del 15 settembre, guidati da un vetturino, Giuseppe Sabbadini. Dopo aver pernottato a Buttrio, l’indomani proseguirono per Manzano, attraversarono il confine a piedi e quindi, passando per Versa, Romans e Sagrado, raggiunsero Ronchi verso le 10 del mattino. Qui i due si divisero: Oberdan prese alloggio presso una locanda, mentre Ragosa proseguì per Trieste con un altro cocchiere. Sabbadini venne però fermato sulla via del ritorno verso Udine e, interrogato sulle generalità delle due persone con le quali era stato visto, condusse il capoposto della gendarmeria di Gradisca, Virgilio Tommasini, a Ronchi. Oberdan, sorpreso nella sua stanza nel primo pomeriggio, riuscì a sparare contro il gendarme ferendolo a una mano, ma fu presto immobilizzato, disarmato e arrestato assieme al vetturino. Oltre a una rivoltella gli furono sequestrate le due bombe, del tutto simili a quella scoppiata il 2 agosto e considerate poi la prova principale delle sue intenzioni. Leggermente ferito durante la breve colluttazione che aveva portato al fermo, nel primo interrogatorio dichiarò di chiamarsi Giovanni Rossi. A tarda sera fu tradotto a piedi presso le carceri giudiziali di Monfalcone e il giorno dopo trasferito in treno a Trieste. Nelle stesse ore subì una contestazione organizzata da alcuni abitanti di Monfalcone.
Ragosa, ritornato in Italia vista l’impossibilità di condurre in porto qualsiasi azione in Istria e a Trieste, fu processato e assolto dalla Corte d’assise di Udine nel 1883. La risposta austriaca fu, qualche settimana più tardi, la condanna a morte di Sabbadini, pena poi commutata in 12 anni di carcere duro e comunque sproporzionata rispetto alle sue responsabilità.
Interrogato dal giudice istruttore il 19 settembre 1882, Oberdan, di fronte a prove inoppugnabili, fu costretto a confessare la sua vera identità. L’istruttoria civile contro di lui doveva essere affidata al Tribunale di Gorizia, competente per territorio, e non a quello di Trieste. Gli furono notificate le accuse di alto tradimento e di tentato omicidio. Il successivo interrogatorio si svolse il 27 settembre e proseguì poi il 29 e il 30, concludendosi con il confronto con Sabbadini e con il rifiuto di rispondere ad altre domande. Il 7 ottobre iniziò l’istruttoria militare, che tuttavia non aggiunse alcun elemento rilevante agli atti e alle testimonianze già raccolte.
Negli interrogatori Oberdan confermò che le bombe gli erano state consegnate in territorio austriaco da un membro sconosciuto del comitato della gioventù di Trieste libera, organizzazione di cui lui stesso faceva parte, poiché era stato sorteggiato per farle esplodere a Trieste «per dare un saluto al graziosissimo sovrano» (Salata, 1924B, p. 432): una versione ovviamente falsa, ma coerente rispetto alla scelta di non coinvolgere altre persone e, allo stesso tempo, di allarmare le autorità. In generale, durante tutta la fase processuale Oberdan mantenne un comportamento volutamente provocatorio e autolesionista, alla chiara ricerca di un martirio che potesse essere d’esempio per gli stessi ambienti dell’irredentismo, scuotesse l’opinione pubblica e, indirettamente, incrinasse i rapporti diplomatici tra l’Italia e l’Austria-Ungheria.
L’udienza di fronte al Consiglio di guerra si tenne il 20 ottobre. Il dibattimento si limitò a una semplice lettura delle deposizioni rese durante il procedimento istruttorio e confermate in quella sede dallo stesso imputato.
Nella relazione dell’ufficiale auditore Francesco Fongarolli furono elencate come attenuanti il fatto che Oberdan fosse incensurato, che avesse agito su mandato di altre persone, che al momento della diserzione, avvenuta in tempo di pace, fosse una semplice recluta e che l’alto tradimento fosse rimasto allo stadio di iniziale tentativo. Furono invece considerate aggravanti il concorso di alto tradimento per aver messo in pericolo la persona dell’imperatore e per aver operato contro l’unità dello Stato, il concorso di alto tradimento con il reato di diserzione, la messa in pericolo della vita e dell’incolumità di altre persone attraverso l’uso di bombe, l’accurata preparazione dell’alto tradimento.
Fu quindi proposta la pena di morte «mediante capestro» e la rifusione all’erario militare della taglia di 24 fiorini. La revisione d’ufficio del processo militare non modificò la pena. Il 31 ottobre la Corte suprema di Vienna esaminò gli incartamenti processuali e il 4 novembre confermò la condanna a morte.
Nel dispositivo della sentenza furono inserite due aggravanti: le false generalità fornite al momento dell’arresto e soprattutto l’attività politica e l’appartenenza ad associazioni irredentiste durante l’esilio in Italia, precedenti che per la Corte rappresentavano già un crimine di alto tradimento, come pure l’accettazione a prendere parte all’attentato, a prescindere dal fatto che il reato non fosse stato compiuto. Infine, fu attribuita grande importanza alla confessione dell’imputato, che era stata chiara e puntuale.
Il giorno della sentenza il Consiglio dei ministri, presieduto dall’imperatore, respinse la domanda di grazia che, nonostante la contrarietà di Oberdan, la madre, dopo averlo visitato in carcere, aveva presentato il 17 ottobre.
L’esecuzione della sentenza, prevista tra l’11 e il 18 novembre, fu sospesa il giorno 14 per consentire un approfondimento sulle eventuali responsabilità di Oberdan nell’attentato del 2 agosto. Da Trieste si insistette per ottenere questa dilazione e per poter accertare un coinvolgimento in un episodio che, di per sé, era molto più grave rispetto a quello per il quale era stato processato. Dall’11 al 24 novembre venne sottoposto a diversi interrogatori e confronti, ma non si riuscì a dimostrare la sua presenza nel luogo dove era scoppiata la bomba, ma solo la sua permanenza a Trieste, come egli stesso aveva confessato, dal 31 luglio al 3 agosto. A differenza di quanto aveva confidato in privato, respinse ogni accusa.
Il solo a manifestare una netta contrarietà alla sentenza di morte fu il luogotenente di Trieste, che la giudicò un errore politico per l’Austria-Ungheria. Ma a indebolire la posizione di Oberdan contribuirono la politica triplicista appena inaugurata dal governo italiano nonché i sospetti e le cautele di Agostino Depretis nei confronti dell’Estrema Sinistra. A nulla servirono la campagna dei circoli e dei fogli repubblicani, in particolare a Roma, e le agitazioni studentesche a Pisa, a Venezia e soprattutto a Bologna, poi giudicate controproducenti. Victor Hugo si appellò all’imperatore affinché concedesse la grazia e alla vigilia dell’esecuzione si levò la protesta anche di Giosue Carducci.
Fu giustiziato tramite impiccagione nel cortile della Caserma grande di Trieste la mattina del 20 dicembre 1882.
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