giovedì 30 novembre 2023

Gli arditi entrarono a Pola

Sembra la fotografia da un altro mondo e in effetti lo è: sono gli Arditi che entrano vittoriosi nella città di Pola, il 5 novembre 1918, sfilando davanti all'Arena, fatta costruire sotto l'imperatore Augusto nel I sec.d.c. e poi ampliata dall'imperatore Vespasiano. Chiamata in dialetto istro-veneto “rena”, deriva il suo nome dal latino “arena,” per la sabbia che ricopriva la platea degli anfiteatri Romani.

Il marciare dei militari italiani davanti al leggendario monumento dei Padri conserva tuttora il suo alto valore storico, simbolico e affettivo. Sono uomini che hanno combattuto valorosamente per difendere i sacrosanti confini d'Italia e riscattare i conculcati diritti di un popolo sottomesso da stranieri. Anche se oggi si tende stupidamente a minimizzare e addirittura a giustificare l'occupazione austriaca, edulcorando l'impero asburgico e facendo apparire gli irredentisti italiani come quattro gatti, la realtà era ben diversa. 

Particolarmente devota alla Serenissima cui giurò fedeltà fin dal 1334, la città di Pola dette a Venezia due Dogi: Pietro Tradonico e Pietro Polani. Militarizzata dagli austriaci (su 70.000 abitanti nel 1913, 16.000 erano militari), l'Austria impiegò ingenti somme per organizzarvi e mantenervi il suo costoso Arsenale marittimo, quale base principale della Marina Asburgica, secondo le parole di Francesco Giuseppe: “Pola dev'essere il baluardo della potenza navale dell'Austria”. 

Ma la mattina del 5 novembre 1918, 21 unità italiane della Regia Marina al comando dell'ammiraglio Umberto Cagni entrarono fieramente nel porto, in mezzo alle navi di una flotta sconfitta, innalzando il Tricolore sui mezzi navali requisiti al nemico, che questi, pochi giorni prima, con gesto offensivo e chiari intenti destabilizzanti, aveva trasferito agli slavi. Costoro, facendosi forza dei loro agguerriti comitati, avevano già proclamato il regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni avanzando le solite assurde pretese territoriali che comprendevano tutta l'Istria, la Dalmazia, Trieste, Gorizia e oltre, decisi a perorarle davanti al presidente americano Wilson e ai nostri alleati, già preoccupati di un nostro eccessivo allargamento territoriale. Era un atteggiamento vergognoso, ignobile, che peraltro a Pola sortì ben scarsi effetti, stante i sentimenti della stragrande maggioranza della popolazione. In breve le bandiere jugoslave sparirono, mentre i nostri piantavano il Tricolore sull'anfiteatro Romano e tagliavano le catene che chiudevano il passaggio sotto l'Arco dei Sergi, altro storico monumento Romano della città assieme al Tempio di Augusto.

Era per noi e per Pola il coronamento di un sogno, una grande rivincita e una vendetta per Nazario Sauro, l'eroe istriano impiccato dagli austriaci proprio a Pola. Con orgoglio perciò la torpediniera italiana “4 T.N.”, incaricata di entrare per prima nel porto a imporre la resa agli austriaci, recava ben in vista, incisa sul fumaiolo di prora, questa targa: “In memoria del capitano Nazario Sauro, imbarcato su questa silurante dal 9 gennaio al 29 luglio 1916. Fatto prigioniero il 31 luglio, subì eroicamente il martirio a Pola il 19 agosto 1916.” La caserma di Marina intitolata all'imperatore Francesco Giuseppe venne ben presto con gran soddisfazione reintitolata a Nazario Sauro.

121 anni di dominazione austriaca non avevano fatto diventare austriaca la città, e tantomeno slava, nonostante i recenti rimpinguamenti di croati, come dimostrano i due censimenti, del 1900 e del 1910. 

Domenico Stanich (che nascondeva in casa una stamperia clandestina e sarà il primo sindaco di Pola italiana), Giovanni Grion, Antonio De Berti, Giuseppe Vidali, Giovanni Magnarin, Carlo De Carli, quest'ultimo fondatore di “Pola italiana”, associazione patriottica d'ispirazione mazziniana, sono solo alcuni degli innumerevoli attivisti irredentisti che solo a Pola rischiosamente si batterono per la riunione dell'Istria all'Italia, sopportando ammonimenti, carcere, perquisizioni, esilio, campi di concentramento: quei tristi campi dove, quando i prigionieri erano troppi avviliti, cantavano “Va' pensiero”.

E a proposito di Giovanni Grion, mi preme raccontare un episodio poco conosciuto: irredentista da sempre, per vocazione familiare, come quasi tutti gli Istriani che sognavano l'Istria italiana, morì come volontario durante la Grande Guerra sull'altopiano di Asiago. Nel 1919 il Fascio di combattimento di Pola (formazione embrionale del futuro partito Fascista), dedicò a lui il Gruppo sportivo e calcistico della città, che si chiamò da allora “Grion Pola”, e adottò come divisa una maglia nera con una stella bianca. Se il colore nero si rifaceva al nero degli arditi che indossavano una cravatta nera, istituita dal loro colonnello fondatore Giuseppe Bassi in ricordo del suo illustre avo Pier Fortunato Calvi, impiccato dagli austriaci durante il Risorgimento, il quale appunto indossava una cravatta nera durante l'insurrezione del Cadore a simbolo e ricordo della Carboneria, laddove il nero era il simbolo della fede incrollabile, l'origine della stella bianca è alquanto anomala, perchè deriva dalla bandiera americana: nei primi mesi del 1919, infatti, a causa delle solite questioni con gli slavi che avanzavano pretese e accuse di tutti i generi contro di noi ai comandi Alleati, sbarcò a Pola un contingente di militari americani. Probabilmente per effetto della propaganda anti italiana che imperversava in quel periodo, questi cominciarono a comportarsi in modo arrogante e provocatorio, entrando con prepotenza nei locali, molestando le ragazze davanti ai ragazzi italiani, appiccicando per dileggio banconote italiane sui muri. Inseguiti dagli arditi inferociti fino a bordo delle navi, uno d'essi riuscì audacemente a saltare a bordo e afferrare una bandiera americana, da cui con rabbia strappò una stella che si appiccicò sul petto: un vero gesto ardito che rese ai provocatori pan per focaccia.

Dopo 650.000 morti e una Vittoria che era tornata utile anche agli alleati, ci trovavamo a combattere contro prepotenze di tutti i generi, che culmineranno con il brusco abbandono, da parte del Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, della conferenza di pace di Parigi nel 1919, di fronte all'inaccettabile comportamento di Francia, Inghilterra e Stati Uniti. 

Le fragili basi di quella conferenza, costruite sulle smodate ambizioni e appetiti dei tre Stati di cui sopra, porteranno, come si sa, a una guerra ancora peggiore. Per noi le cose andarono ahimè come sappiamo: il sogno dell'Istria italiana durò 28 anni. A questo proposito giova ripetersi, perché nel ricordo vi è una sorta di immortalità: le genti adriatiche pagarono un alto prezzo, un prezzo ingiusto. La città di Pola, dopo le violenze e prepotenze naziste dall'8 settembre in poi, in cui agli italiani fu lasciata solo l'amministrazione civile, subì 40 giorni di occupazione slava dal 2 maggio al 12 giugno 1945. Quindi gli slavi furon costretti temporaneamente a sloggiare per far posto agli inglesi fino al 15 settembre 1947 quando, in virtù del Trattato di pace, definito “vergognoso” dallo stesso CLN di Pola che ebbe molti partigiani massacrati nelle sue file perchè si rifiutavano di avallare le decisioni comuniste, la città fu consegnata definitivamente agli slavi che occuparono via via tutte le case lasciate vuote dagli italiani, appropriandosi di tutti i loro beni. 

Era la fine di un sogno, iniziato con il Risorgimento all'insegna di una “fede incrollabile”: quella fede che costruì, tra immense difficoltà e sacrifici, l'Italia, e oggi parrebbe morta, ma a cui pochi anni orsono si appellò Denis Zigante, a lungo Presidente dell'Unione degli esuli istriani: “Gli esuli non si aspettano che l'Istria ritorni italiana domani. Ma il sogno che un giorno i confini possano essere modificati con il consenso di tutti, ce lo dovete lasciare.”.

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