giovedì 30 novembre 2023

Dalmazia, la regione lontana (M. Cipriano)

Cittadini!

Oggi tutta Italia manifesta per l'annessione dell'intera Dalmazia alla Madre Patria.

Imbandierate le vostre case!

Accorrete alle ore 15 a piazza Venezia per partecipare al corteo che si recherà alle Terme di Diocleziano.

Intervenite stasera alle ore 21 al Comizio all'Augusteo.

29 dicembre 1918.

Era, questo, uno dei tanti manifesti che in varie città d'Italia -in questo caso a Roma- chiamavano a raccolta gli Italiani per reclamare l'annessione dell'intera Dalmazia, cioè da Zara fino a Cattaro: una regione che oggi ai più non dice nulla, ma a quell'epoca, all'indomani della Grande Guerra, nel 1918, e fin dalla vigilia, nel 1915, quando tutta l'Italia era attraversata dall'impeto irredentista e interventista, soprattutto giovanile ma non solo, costituiva un punto d'onore delle rivendicazioni nazionali lasciate insolute dal Risorgimento.

Proprio a ridosso della Grande Guerra ci fu una presa di coscienza a livello nazionale dell'italianità di una regione che era sempre rimasta ai margini del pensiero collettivo. Il bilancio di varie decine di migliaia di dalmati deportati dagli austriaci allo scoppio delle ostilità con l'Italia, aveva dato la misura del pericolo che essi rappresentavano e avevano sempre rappresentato per l'Austria. Un libro non basterebbe e enumerare le angherie e persecuzioni a cui furono fatti segno dai croati e dai serbi all'indomani della nostra Vittoria, come testimoniato dal libro dell'ufficiale della Regia Marina Giulio Menini (Passione adriatica- Ricordi di Dalmazia 1918- 1920), che narrò -peraltro limitandosi, in ottemperanza a ordini superiori- ciò di cui lui stesso era stato spettatore quando la sua nave ancorata a Spalato fu per molti mesi il punto di riferimento e, spesso, il rifugio degli italiani che giornalmente erano aggrediti dai croati e dai serbi, i quali deridevano impunemente sui loro giornali la nostra vittoria, spavaldi come si sentivano dell'appoggio dei nostri alleati -in primis la Francia-, interessati a escluderci dai Balcani e dall'Adriatico orientale. Non a caso il triestino Attilio Tamaro fin dal 1917 aveva scritto: "la Francia è gelosa di noi, e teme un'Italia grande e forte." Non basta certo un articolo, per quanto lungo, per parlare della Dalmazia, per spiegarla sotto il profilo storico e in particolare relativamente alle rivendicazioni italiane che svariati studiosi di parte, tra i molti in circolazione soprattutto nel nostro paese, ascrivono acidamente al Fascismo. In realtà il Fascismo comparve sulla scena piuttosto tardi, quando già le rivendicazioni italiane erano state ampiamente espresse e dibattute da autorevoli personaggi che vissero ben prima della comparsa dei fascisti. Si pensi a Vincenzo Gioberti che, nella sua celebre opera Del primato morale e civile degli Italiani, dichiarò con passione che la Dalmazia rientrava nei confini nazionali italiani, o a Cesare Balbo, altro grande intellettuale piemontese del Risorgimento, il quale affermò la medesima cosa. Anche Carlo Cattaneo, che pur apparteneva alla piccola cerchia dei federalisti, nelle sue lettere al generale francese Brenier, scritte nel 1848 durante le grandi insurrezioni italiane e la la guerra d'indipendenza, affermò che: "Alla repubblica di Venezia vedremo unirsi il Tirolo, l'Istria e la Dalmazia...." Ma ovviamente fa più comodo disfarsi della "questione dalmata" confinandola nei sogni di grandezza e nelle presunte smargiassate fasciste, le quali, in realtà, non fecero che riprendere un filo già precedentemente svolto, ottenendo peraltro ben scarsi risultati, se si guarda al piccolo governatorato di Dalmazia, che fu quel poco che il regime Fascista riusci a ottenere, nonostante i suoi altisonanti proclami, nel 1941, quando ormai la presenza dell'ingombrante alleato tedesco e la clamorosa incapacità di Mussolini di esaudire i voti dell'Irredentismo, si palesò in tutta la sua evidenza. Anzi, proprio riguardo alle terre irredente, il Fascismo si dimostrò perfettamente impotente, causa i tatticismi prudenziali del Duce e le sfortunate vicende belliche, a ottenere un qualsiasi risultato concreto anche relativamente a regioni per le quali avrebbe potuto ottenerlo usando meno della metà degli sforzi che usò per conquistare l'Etiopia. In particolare il minuscolo governatorato di Dalmazia appariva ridicolo confrontato con l'enorme territorio regalato stoltamente dall'Asse all'ustascia filonazista Pavelic che tutt'attorno lo schiacciava, e all'intera Serbia divenuta tedesca. Di conseguenza i detrattori antifascisti potranno fare a meno di accusare il Fascismo di mene irredentiste, quando invece esso va accusato piuttosto del contrario, cioè di non aver cavato esattamente un ragno dal buco in questo campo, tanto che occupò inutilmente la Corsica nel novembre 1942, in un momento negativo della guerra, mentre avrebbe dovuto occuparla almeno tre anni prima, quando la situazione psicologica degli abitanti era ben diversa. Senza dire della mancata occupazione dell'arcipelago di Malta, un territorio di soli 300 chilometri quadrati che era il primo da rioccupare, togliendolo all'Inghilterra, per evidenti motivi strategico- militari oltre che irredentisti. Ma è meglio non arenarsi nelle critiche al Fascismo, un terreno adusato e abusato ove tutti si sono sbizzarriti, portando avanti una saga pluridecennale d'improperi e maledizioni, e, da parte opposta, un coro di assoluzioni tout-court, da cui, per rispetto della Storia, è d'uopo estraniarsi.

E dunque: fra le terre irredente che il Risorgimento non riuscì a recuperare alla madrepatria, la Dalmazia occupa una posizione speciale, perché rispetto ad essa si dibattè, anche in seno al Risorgimento, oltre alla primaria questione del come riconquistarla, anche quella se fosse o meno italiana, e se dunque l'Italia avesse buona ragione nel pretenderla. Sembra impossibile che una siffatta questione si ponesse rispetto a un territorio la cui popolazione era stata fedelissima a Venezia e pianse amaramente la sua caduta, ma è proprio qui che si palesa un punto storico cruciale rispetto al quale, io, dando per parte mia risposta affermativa all'italianità della Dalmazia come la diedero in passato molti di coloro che se ne occuparono, mi propongo con questo articolo di accentrare l'attenzione su alcuni aspetti che, da soli, possano illuminare il problema, evitando di fare la solita lunghissima panoramica storica che in alcuni casi parte addirittura dalla preistoria, generando confusione e accumuli di notizie troppo lontane nel tempo e dunque superflue. Viceversa, focalizzando l'attenzione e l'analisi sugli aspetti recenti, si potrà più facilmente riflettere sull'italianità della Dalmazia, questa regione lontana e per ciò stesso, proprio a causa di questa sua "emarginazione geografica", condannata a una certificazione particolarmente severa e puntigliosa, come se l'italianità, questione prettamente spirituale, dipendesse dalla maggiore o minore distanza in chilometri, e un dalmata potesse essere considerato meno italiano degli altri. Purtroppo, però, è stata anzitutto questa ubicazione periferica, questa "lontananza", a giocare un ruolo negativo nella psicologia degli italiani che, divisi per secoli, erano di fatto rimpiccioliti nel loro provincialismo, e a cui la Dalmazia doveva far l'effetto di un imprecisato luogo più esotico che familiare, dove c'era si qualche italiano, ma tutto sommato italiana non era e non poteva essere perchè "troppo lontana". Chiusi nelle loro ristrettezze, nei loro municipalismi e microcosmi ammantati di falsa autosufficienza, vieppiù vessati e soffocati per 150 anni dagli spagnoli, fieri odiatori di Venezia, essi non erano inclini a vedere un'Italia allargata addirittura fino all'opposta sponda dell'Adriatico. Successivamente, con il subentrare degli austriaci agli spagnoli, e la caduta di Venezia nel 1797, la situazione peggiorò, e la barriera si fece ancora più coriacea, la Dalmazia essendo finita nelle grinfie dell'impero asburgico, sappiamo con quale dolore dei dalmati e quali indebite appropriazioni da parte dell'Austria. Con il breve intermezzo del Regno Italico di Napoleone (1806-1813) che non lasciò traccia e comunque ascrisse la Dalmazia all'Italia, quest'amena regione cadde sotto il dominio di Vienna che finalmente poteva gustare, oltre il piacere ineffabile di vedere il fiero Leone che più volte l'aveva contrastata e umiliata, atterrato ed esangue, anche quello di mettere finalmente le mani sui suoi ricchi e prosperi domini territoriali che giungevano fino alle bocche di Cattaro, cioè ai confini col Montenegro (cui oggi le Bocche di Cattaro appartengono), comprendendo più di 800 fra isole, isolette e scogli: un boccone così ghiotto che mai l'Austria avrebbe sognato di ottenere con forze proprie, ma le fu definitivamente regalato sopra un piatto d'argento dal Congresso di Vienna nel 1815. A nulla valsero gli appelli dei Veneti per scongiurare quest'annessione, che tra l'altro contravveniva ai dettami stessi del Congresso di Vienna, in base ai quali, dopo la meteora napoleonica, le situazioni territoriali dovevano ritornare allo statu quo ante. Ma chiaramente l'Austria poteva fare in quella sede il bello e il cattivo tempo, imponendo i suoi diktat. La questione se la Dalmazia fosse o non fosse italiana non si sarebbe perciò mai dibattuta in seno al Risorgimento se la sua emarginazione geografica, cioè la sua "lontananza", non avesse ingenerato nello stesso Mazzini l'erronea persuasione che, nonostante la sua lunga appartenenza alla Serenissima, quell'infelice regione non era veramente italiana e dunque l'Italia non aveva diritto di rivendicarla. Fu questo un errore non piccolo, aggravato dal pio convincimento che la nazionalità italiana dovesse "platonicamente" affermarsi d'amore e d'accordo con le altre nazionalità emergenti, tra cui quella slava, quantomai avida e conflittuale, la quale ben altre mire aveva in testa che la fratellanza con gli Italiani, cui fin dall'inizio studiava anzi di sottrarre le prospere e amene terre adriatiche, vagheggiandole come proprie. Nel suo saggio del 1866 "Missione italiana-Vita internazionale", Mazzini scrisse che l'Istria era italiana e la Dalmazia italo-slava, commettendo il fatale errore in cui in molti incorrevano basandosi sui censimenti austriaci, i quali, oltre a essere mendaci in quanto notevolmente approssimati per difetto a svantaggio degli italiani, omettevano di spiegare perché gli italiani diminuivano a vista d'occhio col passare degli anni, e più ancora tralasciavano di evidenziare l'incongruenza: infatti, se la Dalmazia era italo-slava, per forza dovevano esserlo anche l'Istria, Fiume, Trieste e Gorizia, ubicate sulla medesima direttrice geografica, e se invece l'Istria, Fiume, Trieste e Gorizia erano a maggioranza italiana, c'era qualcosa che non quadrava, e dunque la maggioranza slava della Dalmazia appariva sospetta. Che un uomo come Mazzini, così solerte e deciso nell'ascrivere alla Patria luoghi di cui si poteva parimenti contestare l'italianità in quanto etnicamente misti (come Saint Moritz, la Corsica, il Tirolo, etc.) scivolasse in questo errore, suona strano: ma era un fatto che egli, con il suo sistema del compasso puntato su Parma, richiedeva alle terre da rivendicarsi come italiane nei confini di terraferma una sorta di gravitazione centripeta, e la Dalmazia sfuggiva a questa gravitazione in ragione della sua eccentricità geografica. Da qui il suo escluderla dal novero delle terre italiane anzitutto per ragioni pratiche, insieme al favoleggiare di un sodalizio italo-slavo in funzione antiaustriaca, la cui idea occupò la mente del grande patriota genovese per un certo tempo, anche se si trattava di un progetto politico del tutto inattuabile, e che suona ancor più stonato e inverosimile in quanto smentito da fatti eclatanti che egli non poteva non conoscere: basti pensare alle atrocità commesse dagli slavi assieme agli austriaci durante il Risorgimento, ampiamente denunciate da innumerevoli patrioti (per esempio descritte nel "canto dei croati" del patriota veronese Cesare Betteloni), e ai disordini e incidenti, proprio negli ex territori di San Marco, tra popolazione civile e truppe croate (nonché slovene, serbe e perfino bosniache) mandate a bella posta dall'Austria a mantenere l'ordine, e inserite nei ranghi della polizia anche nel Lombardo-Veneto. Non a caso, gli slavi di cui l'Austria si serviva in funzione anti-italiana erano a tal punto consci della propria utilità a Vienna che, nel 1848, in pieno Risorgimento, l'assemblea nazionale di Zagabria arrivò a chiedere l'annessione dell'Istria e della Dalmazia al suo ininfluente regnucolo, ben sapendo che il solo chiederlo avrebbe portato l'Austria, impegnata in un'ardua lotta contro l'Italia, a favorirli ancor più in quelle terre a scapito dei malfidi italiani. Fu una mossa astuta, in vista di un eventuale domani, quando, trionfando le nazionalità, gli slavi avrebbero presentato all'opinione pubblica internazionale il fatto compiuto della loro maggioranza numerica in quelle terre, vantandole come proprie. Cosa che avvenne in particolare per la Dalmazia.

In tutto questo, l'atteggiamento di Mazzini appare quasi inconcepibile: ma egli giocoforza viveva in esilio, influenzato dall'assidua frequentazione coi fuoriusciti di varie nazionalità, soprattutto polacchi e tedeschi, e, sull'onda dell'enfasi idealistica indotta da questi, aveva fondato la Giovine Europa, che in realtà con la Giovine Italia c'entrava poco, ma che era sintomo di quanto egli idealizzasse i rapporti internazionali, proiettando su di essi la stessa concordanza e amicizia esistente nei rapporti interpersonali fra esuli, mentre la realtà era ben diversa, e i fatti lo dimostrano. Dimostrano che gli slavi, in sintonia con gli austriaci, attivamente cooperarono ad angariare e opprimere gli Italiani fin dai tempi del Risorgimento, compiendo atrocità, violenze e soperchierie di ogni genere con gusto e ferocia particolari, per quel senso acre e maligno d'invidia, rivalsa e rivalità che non poteva ragionevolmente ispirare nessun tipo di accordo con essi, tantomeno in funzione antiaustriaca. Se le violenze di codesti sopraffattori avvenivano nel Lombardo- Veneto, sotto gli occhi di tutti, figuriamoci cosa avveniva in Dalmazia, la regione lontana, ove gli occhi dei connazionali non erano direttamente presenti, al punto che anche Cavour rinunciò a rivendicarla per lo stesso motivo: al grande statista piemontese non era difficile prevedere cosa sarebbe successo in sede europea se avesse osato chiedere quella regione. Con l'acume che gli era proprio, egli affermò infatti che "l'annessione dell'Istria e del Tirolo sarebbe stata l'opera di un'altra generazione", tacendo di proposito sulla Dalmazia, giả data per persa.

Il governo di Torino, attenendosi a questa linea, evitò di reclamare la Dalmazia, e quando cercò di farlo, spinto dall'onda interventista-irredentista della Grande Guerra, non fu abbastanza risoluto, senza contare che, dal 1866 in poi, la negativa conclusione della 3a guerra d'indipendenza aveva prostrato lo spirito dei Dalmati ancor più di quello dei Triestini e degli Istriani. Mentre Trieste e l'Istria speravano ancora, la Dalmazia vide sempre più allontanarsi la possibilità reale di riunirsi all'Italia. Fu in questo frangente che si perpetuò quella sorta di arroccamento difensivo dei Dalmati, chiamato impropriamente autonomismo, eretto contro l'avanzata montante degli slavi che, favoriti dall'Austria, aumentavano continuamente di numero, cacciando gli italiani da ogni dove.

A chi sostiene che questi slavi erano sempre esistiti in Dalmazia, e si erano ridestati parallelamente al ridestarsi del Risorgimento italiano, scoperchiando tutto in un colpo le proprie origini biologiche, è d'uopo replicare citando gli accreditati studi di Giuseppe Praga (1893-1958), uno dei massimi storici della Dalmazia di tutti i tempi, secondo il quale, alla caduta di Venezia, la Dalmazia faceva 288.000 abitanti, fedeli sudditi di San Marco. Una parte di loro era di origini slave vicine o lontane, o d'altre etnie, e parlava in famiglia dialetti strani? Non ha importanza alcuna, dal momento che la Dalmazia Veneta era multietnica, ma con una lingua ufficiale che era il veneto da mar, e il fatto che un certo numero di slavi in privato parlasse un proprio dialetto non conta nulla, tanto più la Storia ci dice che proprio loro costituivano un'etnia particolarmente fedele e grata alla Serenissima.

Come poté dunque succedere che, nel giro di pochi decenni, questi 288.000 fidi sudditi di San Marco calassero drasticamente di numero fino a diventare una minoranza in tutta la Dalmazia? O, peggio, che si croatizzassero? Ci fu certamente chi, a un dato punto, si slavizzò per opportunismo e convenienza, dato il contesto fortemente ostile all'Italia creatosi in una regione divenuta austriaca, ma fu un'eccezione, perché era sempre accaduto il contrario: che fossero gli slavi a italianizzarsi, secondo quel normale processo storico a tutti noto che, fra due civiltà, attrae verso quella dominante o comunque preferibile. Il patriota irredentista Roberto Ghiglianovich (1863-1930) -poi fuggito in Italia e condannato a morte in contumacia dall'Austria per alto tradimento, è un tipico esempio di questo accorparsi degli slavi all'italianità: come ben attesta il suo cognome, la sua famiglia era di origini slave, e, rifugiatasi in Dalmazia per sfuggire ai Turchi, si era inserita pienamente nella Dalmazia Veneta, abbracciando la cultura italiana, anche se in famiglia sapevano parlare il serbo-croato. Lui stesso racconta che il padre gli aveva insegnato che l'italianità della Dalmazia non era una questione di lingua e di etnia, bensì di sentimento.

Purtroppo, il peccato originale che inficiò la questione dalmata nel Risorgimento non riguardò solo Mazzini e Cavour, ma, fatta eccezione per Garibaldi che progettò invano sbarchi liberatori sulle coste dalmate, riguardò anche altri patrioti, come Niccolò Tommaseo, dalmata lui stesso, i quali scivolarono nell'ambiguità dell'amicizia italo-slava e dell'unione delle due etnie in funzione anti-austriaca. In particolare il Tommaseo, influenzato dalla sua visione cristiana dell'esistenza, era portato a edulcorare i rapporti umani, minimizzando gli attriti se non nascondendoli addirittura, e dunque considerava gli sgomitanti dalmati-slavi del suo tempo per quello che non erano, né più né meno di quel che faceva Mazzini, con la differenza che il Tommaseo proveniva da quella regione e la conosceva, mentre Mazzini poteva facilmente non conoscerla e quindi illudersi che fosse sempre stata abitata da una gran maggioranza di slavi, i quali secondo lui andavano aiutati nella difesa della propria identità assieme agli italiani, in vista di una comune insorgenza contro gli austriaci, che, naturalmente, giammai si verificò.

Questa solenne cantonata, generata dal lato più romantico del Risorgimento, arrecò un danno enorme alla causa nazionale perché oscurò la realtà, non volendo accettare il fatto che si aveva a che fare con tracotanti immigrati slavi anti-italiani immessi dall'Austria, i quali non avevano niente a che vedere con gli slavi-venetizzati antecedenti, fedeli sudditi di Venezia. Farli affluire in Dalmazia -e non solo in Dalmazia- a ondate di migliaia alla volta, era un gioco da ragazzi in un periodo in cui per "traslocare" bastava un carrettino o una sporta: per le popolazioni croate, spesso poverissime, avvicinarsi all'Italia e passare le Alpi Dinariche guidate dai loro preti fanatici per raggiungere i fiorenti centri di Dalmazia e delle altre terre irredente ove sistemarsi sotto la protezione e col beneplacito dell'Austria, costituiva un miraggio. Ma sembra proprio che il Tommaseo non volesse a bella posta tener conto di questi amari fatti e della dicotomia fra le due categorie di slavi, di cui solo la seconda poteva ascriversi alla Dalmazia, mentre la prima era d'importazione recente, e dunque impiantatavi dal governo austriaco con lo scopo di controbilanciare ed estromettere via via gli ingombranti e infidi Italiani, riottosi a piegarsi al suo dominio. Ma testardamente il Tommaseo volle far passare per buona la tesi che tutti gli slavi antichi e recenti, dimoranti in Dalmazia e per il solo fatto che dimorassero in Dalmazia, si sentissero dalmati, mentre così non era, tant'è che quelli d'importazione austriaca non tardarono a manifestare i propri veri intendimenti, che consistevano nell'annettere la Dalmazia alla Croazia, e dunque, pretendendo assurdamente che questa fosse sempre stata croata, annullarla in quella sua specifica identità multietnica che il Tommaseo e altri con lui intendevano ingenuamente preservare nella fantomatica "autonomia" di un fantomatico federalismo italiano che il Risorgimento non ebbe mai l'intenzione di costituire.

L'occupazione violenta da parte dei croati, nel 1848, della città di Fiume che era a maggioranza italiana, smonta definitivamente l'altarino delle loro oneste intenzioni, come volevasi dimostrare. E infatti a rigor di logica, se i croati erano la maggioranza in Dalmazia, avrebbero dovuto reclamare solo quella: e invece essi volevano tutto, anche l'Istria, Fiume, Gorizia, Trieste e perfino Udine. E guarda caso proprio da allora nella città di Fiume essi cominciarono ad aumentare sorprendentemente di numero in tutti gli anni seguenti. E gli storici croati sostengono che erano li fin dall'VIII secolo dopo Cristo!

Come capisce anche un bambino, il governo austriaco non solo tollerava e favoriva tutto ciò, ma lo organizzava. Nei suoi piani la sostituzione etnica doveva avvenire in tutte le terre irredente italiane, e infatti dall'esame analitico del censimento fatto dal Regno d'Italia nel 1921 (cioè all'indomani della Grande Guerra, quando rientrammo in possesso di quei territori), la pulizia etnica traspare chiaramente proprio laddove troviamo centri abitati da pochissime decine di italiani, il che ha un senso solo in quanto dà l'idea della "decimazione" operata in danno dei medesimi. Per fare un esempio, il fatto che a Opacchiasella, una piccola contrada sita quasi sul mare a due passi da Gorizia e a un tiro di schioppo da Gradisca, Cervignano e Cormons, luoghi ad alta densità patriottica risorgimentale, vi fossero 7 italiani a fronte di 2117 slavi, indica che quelli erano i 7 italiani rimasti, chissà come, a seguito di una pulizia etnica prossima o remota: e, a meno di non voler credere scioccamente che quei 2117 slavi fossero lì dai tempi delle invasioni barbariche o dei Conti di Gorizia, come stoltamente asserito da qualcuno, va da sé che invece essi erano lì dai tempi dell'occupazione austriaca. Che poi l'eliminazione degli italiani sia avvenuta in un colpo solo poco prima, com'è probabile in quel caso (poichè nel 1848, durante la la guerra d'indipendenza, il generale austriaco Nugent passò l'Isonzo spazzando via i patrioti ribelli che pullulavano in quelle zone), o che sia avvenuta in tempi remoti o futuri con altri mille tipi di sopraffazioni, il risultato non cambia. E ancora: nel paesino di Matteria, che dista da Capodistria una trentina di chilometri verso l'interno, il censimento del 1921 registrava 23 italiani contro 5.058 slavi, mentre a Grisignana, un paesino distante da Capodistria gli stessi chilometri ugualmente verso l'interno, registrava 3.586 italiani contro 406 slavi. A Sanvincenti, ubicata al centro dell'Istria meridionale, 2566 italiani e 539 slavi. A Canfanaro, nell'Istria centrale, 3.638 italiani e 173 slavi: come mai, se, stando a quel che dicono gli storici di parte slava, gli slavi erano lì da mille anni?

C'è dunque una sola spiegazione a codeste discrepanze, e cioè che l'Austria adottò due strumenti per liquidare gli italiani: non solo quello che ben conosciamo dalla copiosa documentazione che possediamo sul Risorgimento, e cioè le cannonate, gli arresti, i processi, i giudizi statari, le esecuzioni capitali e le deportazioni, ma soprattutto quello che non conosciamo, molto più efficace del primo, cioè la sostituzione etnica. La differenza tra la Dalmazia e gli altri territori fu semplicemente che in Dalmazia la sostituzione si compi producendo un ribaltamento netto e globale dei rapporti etnici (a esclusione di Zara), mentre negli altri territori rimase incompiuta e infatti i rapporti etnici si presentavano a macchia di leopardo, come gli esempi sospetti di cui sopra dimostrano, ove paesini distanti solo pochi km l'uno dall'altro avevano proporzioni etniche molto differenti, o dove c'erano migliaia d'italiani laddove avrebbero dovuto esserci migliaia di slavi: e siccome non è possibile che l'Austria rimpinguasse il territorio di italiani, è chiaro che invece lo rimpinguava o cercava di rimpinguarlo di slavi per scrollarsi di dosso gli italiani.

Fin da principio, dunque, la conoscenza della storia di Dalmazia fu inquinata dall'errore e dal travisamento dei fatti, nonostante essa partecipasse al Risorgimento esattamente come le altre regioni, e vi penetrassero sia la Carboneria sia altre sette affini, in particolare collegate alla vicina Grecia, che pure lottava per la propria indipendenza. Fin da principio trapelò incertezza e timidezza nel pretenderla apertamente, tanto che in gran parte dei documenti ufficiali del Risorgimento si parla sempre di Trieste e dell'Istria, e non della Dalmazia, la quale, se in alcuni casi può darsi per sottintesa, in molti altri è trattata come non ci fosse. Di conseguenza, più d'un italiano cominciò a pensare che se ne poteva fare a meno, e che questo poter fare a meno della Dalmazia fosse giustificato dal fatto che in fondo era abitata da slavi più che da italiani, nonchè da genti non ben definite (per esempio i morlacchi e i cici), meticce e rimescolate, di varia origine, balcanica e non balcanica (albanesi, greci, bulgari, serbi, bosniaci, macedoni, ebrei, etc.). A nessuno venne spiegato in modo chiaro come stavano le cose, probabilmente perché non era facile capirlo, e dunque s'incorreva nell'errore di voler dare alla Dalmazia una veste etnica univoca, quando essa fu invece una regione di continui rimpinguamenti, instabile e dinamica sotto il profilo etnico, cosicchè non poteva esser quello il criterio da seguire per attribuirla o meno all'Italia. E tantomeno per attribuirla alla Croazia, che con la Dalmazia non c'entrava assolutamente nulla.

La sua posizione geografica particolare, dispiegata lungo gran parte del versante orientale dell'Adriatico, di fronte all'Italia continentale propriamente detta, e che era stata per secoli il baluardo Veneziano contro i Turchi, eterni nemici di Venezia che tante volte li aveva respinti, l'aveva resa un rifugio e altresì un posto ambito anche per i commerci, mentre il benessere delle sue cittadine marittime, unito alla fertilità delle campagne e all'amenità dei luoghi, aveva attirato un flusso costante di abitatori sempre nuovi (anche dall'Italia medesima), nessuno dei quali portava zizzania e contrapposizioni, automaticamente inserendosi nella pacifica convivenza sotto il Leone di San Marco, sotto l'egida della lingua latina, italiana, e del veneto da mar, che era la lingua ufficiale della Serenissima abitualmente parlata da tutti, tanto che rimase anche dopo l'occupazione austriaca, non solo, ma, essendo una lingua ampiamente compresa nel Mediterraneo, per forza di cose restò nella marineria austriaca (che, com'è noto, si appropriò di quella Veneziana) anche quando l'italiano di derivazione toscana, affermatosi in campo letterario, stava sempre più avanzando. Sotto questo aspetto, la Dalmazia è stata la regione più aperta e inclusiva d'Italia, una porta spalancata all'ingresso di varie genti limitrofe, che, unendosi via via alle preesistenti, assorbite nell'ambiente, mescolate insieme all'ombra dell'unificante civiltà Veneziana, erede di Bisanzio e di Roma, all'ombra delle sue leggi, della sua arte e della sua amministrazione, della sua fama e cultura altissime, effettivamente diedero forma a un coagulo armonico, creando quel carattere regionale specifico dalmata, con tratti suoi propri e orgoglioso di sé, che fece di questa regione una perfetta regione italiana che all'Italia non a caso dette illustri personaggi, a cominciare da quel messer Francesco Fortunio da Zara che fu autore della prima grammatica italiana (Regole grammaticali della volgar lingua) edita in due volumi nel 1516, in pieno periodo Veneziano. Nè si commetta l'errore, seguendo i vaneggiamenti degli odierni predicatori di secessioni e indipendentismi, di ritenere Venezia come un corpus separato dall'Italia (e dei cui possedimenti l'Italia non sarebbe erede, come qualche cicisbeo dei nostri giorni asserisce), il che sarebbe come dire che quando il pisano Galileo Galilei per la prima volta nella storia dell'umanità puntò al cielo il telescopio dal campanile di San Marco, ciò è da considerarsi gloria di Venezia e non già gloria italiana, o che il Canova scolpì la sua magnifica Venere Italica per Venezia e non già pensando alla madre Italia, o che il Palladio edificò le sua splendide ville senza pensare all'Italia, erede della maestà di Roma.

La grammatica di Fortunio prova infatti quanto la Dalmazia fosse italiana. Anche l'astronomo dalmata Ruggero Boscovich, nativo di Ragusa di Dalmazia, di padre bosniaco e madre italiana, è un esempio della dalmaticità (che confluisce inevitabilmente nell'italianità), non collegabile a connotati etnici, troppo fluidi e rimescolati, ma che trova il suo suggello in un sentimento di appartenenza superiore, psicologico e interiore, come sta perfettamente a dimostrare proprio il Boscovitch, che nel 1782 aderì alla Società italiana delle Scienze fondata dall'ingegnere della Serenissima Antonio Maria Lorgna in omaggio all'amore per la comune Patria Italia al di sopra di ogni differenza regionale. L'appropriazione del Boscovich da parte dei croati che l'hanno millantato come una gloria della Croazia, sta al contrario a dimostrare che con lo stesso spirito maldestro e arbitrario basato sulla mistificazione storica e la prepotenza, favorito dalle grandi potenze a cominciare dall'Austria, essi poterono appropriarsi della Dalmazia. A questo proposito è bene ripetere ciò che scrisse lo storico trentino di origine istriana Ernesto Sestan: "L'irredentismo italiano fu pacifico e legalitario. Gli animi potevano essere gonfi di passione, ma non armavano la mano, non trasmodavano in azioni di forza. Si combatteva con armi legali." Il che fu la sua forza, ma anche la sua debolezza, se è vero il detto che "chi pecora si fa lupo lo mangia." Al contrario si comportarono gli slavi, la cui tracotanza e violenza era direttamente proporzionale all'assurdità delle loro pretese territoriali. Del resto, basta dare un'occhiata alla carta geografica dell'attuale Croazia per accorgersi della sua perfetta disarmonia territoriale, e del fatto che Zagabria, capitale del vecchio regno di Croazia vassallo dell'Austria, è situata molto all'interno, e dunque era la capitale di uno stato confinante con l'Ungheria, che non aveva niente a che vedere con la Dalmazia. Ciò nonostante, i croati sono riusciti ad appropriarsene, né basta la sconfitta nella 2a guerra mondiale subita dall'Italia a rendere legale quest'appropriazione, perché essa, come abbiamo ripetuto, si manifestò molto prima di quella data, e il protestare la politica aggressiva dei fascisti che reagivano per difendere gli italiani, è solo un pretesto a cui le anime belle nostrane si compiacciono di credere. Non a caso, nel 1876, nel bel mezzo delle vessazioni anti-italiane, lo storico croato Franjo Racki, in un discorso pubblico, ebbe l'impudenza di croatizzare l'illustre e ben noto storico Veneziano Giovanni Lucio, vissuto nel '600, definendolo il padre della storiografia croata, quando Giovanni Lucio esaltò sempre Venezia e la Dalmazia Veneta, e addirittura collegava la propria discendenza genealogica a una famiglia dell'antica Roma: tutto questo a ennesima riprova che le mire annessionistiche slave, fin d'allora, non si fermavano nemmeno di fronte al ridicolo e alla farsa. Per fortuna, a noi non sono mancati, al contrario, studiosi seri che hanno trattato in modo serio il problema della Dalmazia, ma sono pochi coloro che li conoscono, soprattutto oggi. Non solo il suddetto Giuseppe Praga, storico e linguista di altissima fama, ma anche Ildebrando Tacconi (1888-1973), uno dei maggiori eruditi e storici della Dalmazia, oltre che grande patriota, dalmata lui stesso, nativo di Spalato, scrisse innumerevoli saggi difficilmente contestabili a livello scientifico su questo tema, raccolti poi dal figlio in un'opera omnia, nel 1994. Prima del Tacconi, il patriota e irredentista friulano Pacifico Valussi, nato nel 1813, aveva scritto nel 1871 un volumetto dal titolo "L'Adriatico in relazione agli interessi nazionali dell'Italia", ove finalmente smascherava la bella favola della fratellanza italo-slava cui lui pure in buona fede, come mazziniano, aveva creduto.

Gli Italiani del periodo Risorgimentale, dunque, non avevano affatto chiara la situazione della Dalmazia, pensavano che essa fosse più slava che italiana, e che gli slavi andassero aiutati a costruirsi una nazione, e lo stesso Valussi capì tardi che la fratellanza etnica era una trappola in cui in troppi erano caduti, in quanto gli slavi intendevano arraffare tutta la Dalmazia e cancellarne addirittura il nome annettendola artificialmente alla Croazia con cui non c'entrava assolutamente nulla. Un vero dalmata l'avrebbe mai fatto? Certamente no.

Fu questa difettosa conoscenza della realtà obiettiva a generare l'ignoranza rinunciataria degli Italiani la quale fece inevitabilmente capolino tra le maglie del processo di unificazione nazionale, contribuendo non poco a facilitare il gioco sporco dell'Austria, che in tutta comodità potè procedere, una volta subentrata alla Serenissima, a quella che senza mezzi termini va chiamata col suo nome: sostituzione etnica, da intendersi specificamente come "croatizzazione", non perché i croati abitassero la Dalmazia, ma perché erano particolarmente fedeli (dopo si è vista questa fedeltà...!) agli Asburgo. Si trattò dunque di un vero e proprio sopruso, perpetrato continuativamente nel tempo, a cui l'Italia già duramente impegnata nelle lotte per la sua unità e indipendenza non fu in grado di opporsi, di cui nemmeno s'accorse se non a cose fatte, quando si trovò davanti il fatto compiuto di censimenti che, a sud di Zara, davano una netta maggioranza slava. A questo proposito, vale la pena citare ciò che scrisse lo storico Alessandro Dudan quando fece notare, nelle pagine del suo opuscolo "la Dalmazia è terra d'Italia!" (edito nel 1919), che nel 1900 il censimento austriaco dava solo 1046 italiani a Spalato, mentre la sola società Dante Alighieri annoverava più di 3000 iscritti, ovviamente italiani: da cui naturalmente eran da escludere fanciulli e bambini e anche donne (una famiglia italiana aveva normalmente quattro o cinque figli, e i single erano praticamente inesistenti). Non solo. Ma le cifre ufficiali austriache, proprio perché registrano una diminuzione costante degli italiani in breve volgere di tempo, mancano di spiegare dove finirono questi italiani: si volatilizzarono nell'aria? Se ne andarono? Furono cacciati? Si slavizzarono volontariamente? Furono slavizzati a forza, magari a loro insaputa, da solerti parroci slavofili che ne croatizzavano il nome nei registri, ascrivendoli così all'etnia slava onde accrescerne il numero ufficiale?

Prendiamo un altro esempio: il paese di Comisa, nell'isola di Lissa, nella Dalmazia meridionale. Qui il censimento austriaco del 1880 dava 1197 italiani, di cui, dieci anni dopo, ne rimasero 52. Dove finirono gli altri 1145? La Dalmazia è tutta così: un mondo di "desaparecidos" italiani, la cui sparizione è inversamente proporzionale alla magica apparizione degli slavi, a cui una fortuna sfacciata arride lungo tutto il corso del XIX secolo, cioè guarda caso durante l'occupazione austriaca, tanto da farli proliferare come funghi in tutta la regione, e non solo li. La singolarità di Zara, la città più settentrionale di Dalmazia, dove la pulizia etnica degli italiani non si compì, ragion per cui essa potè definirsi l'isola felice degli italiani di Dalmazia, non può non far sorgere le seguenti domande: Zara si salvò perché in essa confluirono molti fuggitivi dal resto della regione, o perché era a due passi dall'Istria, molto più vicina all'Italia e quindi più protetta di quanto non fossero Spalato e Sebenico? Personalmente ritengo siano valide entrambe le ragioni.

Come abbiamo già accennato, la grande sostituzione fu attuata in tutte le terre irredente, anche a Gorizia e a Trieste, ma non conseguì gli stessi drastici risultati, e basta analizzare i censimenti del Regno d'Italia del 1921, come abbiamo accennato sopra, per rendersene conto. Viceversa si consumò in Dalmazia, laddove era maggiormente al di fuori della vista diretta dei connazionali i quali non si avvidero di ciò che avveniva in quella lunghissima striscia di territorio lunga più di 1000 km., né furono in grado di controllare le sue centinaia di isole e isolette, e dunque furono facilmente indotti a credere la Dalmazia fosse sempre stata abitata da una gran maggioranza di slavi (i fantomatici slavi delle campagne, verosimilmente poveri in canna e ignoranti, che non si sa in che modo avrebbero potuto prendere il sopravvento sui ricchi e colti italiani di città che erano saldamente al comando in tutti gli 84 comuni della Dalmazia), né ci si domandò come, quando e perché ciò sarebbe potuto avvenire, tanto più che lo scontro etnico si produsse invece tra cittadini dentro le città, come Spalato, Traù e Sebenico ben dimostrano, e quindi entro le città costiere in cui gli italiani avrebbero dovuto primeggiare, il che fa a pugni con l'asserzione comunemente accettata che gli italiani fossero concentrati nelle città e gli slavi nelle campagne. Senza dire che lo stesso Giulio Menini, citato all'inizio dell'articolo, raccontò nel suo libro che "i contadini italiani coi classici berretti rossi in testa lo salutarono gioiosamente durante tutto il tragitto in macchina da Spalato a Traù".

C'erano dunque dei contadini italiani? C'erano. E ovviamente speravano, dopo la Vittoria del 1918, che tutta la Dalmazia sarebbe stata annessa all'Italia, se no si sarebbero mostrati tutt'altro che gioiosi.

Dunque furbescamente l'Austria, attuando la rigidissima censura del Metternich basata sul rivolgimento dei fatti, era stata abile a mettere sul tavolo le sue carte, che furono prese per buone, né un'Italia uscita stanca dal Risorgimento e con tanti problemi da risolvere, si soffermò a riconsiderare lucidamente la questione di quella sua lontana regione, questione che si riaffacciò con rinnovata forza alla vigilia della Grande Guerra e immediatamente dopo la fine di questa, per iniziativa dei dalmati stessi i quali capirono che quello era l'ultimo treno che potevano prendere per unire la Dalmazia all'Italia. Ma questo treno, a parte la città di Zara e poco altro, sfuggi loro ancora una volta, determinando l'ennesimo esodo, ragion per cui quando Mussolini tornò in quelle terre nel 1941, gli italiani erano davvero pochi, e fu cosa facile accusarlo di aver occupato terre altrui e aver vessato gli slavi.

Ma entriamo ancora più addentro alla complessa e dolorosa questione che stiamo trattando, nella quale a tutt'oggi si mesta e rimesta, facendola riemergere a tratti come da un oscuro mare di onde tormentate, a riprova che essa non è stata risolta e ancora agita gli animi di chi le si rivolge. La storiografia ufficiale odierna, infatti, soprattutto per motivazioni politiche, si ostina a presentare una versione dei fatti acquietante e convenzionale, che, partendo dai fascisti brutti e cattivi, additati quale causa primigenia del nazionalismo slavo, che invece abbiamo dimostrato esistere fin dalla prima metà dell'ottocento con la precisa mira da appropriarsi di quelle terre, risale indietro nel tempo senza nulla chiarire, anzi perpetuando e rafforzando l'eterno equivoco della Dalmazia slava, il quale equivoco, come s'è detto, ha origini lontane. Nè gli storici attuali si pongono questa semplice domanda: come potè, nel volgere di poco tempo, una regione da secoli Veneta (e dunque italiana) trasformarsi in una regione croata, dove turbe di croati improvvisamente emersi come dal nulla, principiarono a berciare chiassosamente la loro pretesa territoriale insulsa, spaccando vetrine, saccheggiando case, edifici e negozi italiani, malmenando, insultando, sputando addosso agli italiani, e perfino uccidendoli, cacciandoli e imprigionandoli? Dire che ciò fu fatto per decreto ufficiale dell'Austria dal 1866, è troppo poco. E infatti in quel famoso documento ormai citato da tutti gli storici, l'imperatore Francesco Giuseppe ordina di togliere di mezzo "senza riguardo alcuno e con la massima energia" gli "italiani che ANCORA rimangono". Il che significa che il lavoro più grosso era stato fatto prima di quella data: diversamente, non sarebbe possibile che, pur con tutte le sue maligne arti, gli austriaci riuscissero così facilmente a dividere i Dalmati, non sarebbe stato possibile che nel giro di poco avvenisse tutto questo sconquasso in capo a una popolazione per secoli precedentemente coesa nella comune dalmaticità. Tutto ciò non convince, e lascia supporre che l'Austria non solo cominciò ad agire all'indomani della caduta della Serenissima, reprimendo coi cannoni, com'era suo costume, le rivolte che scoppiarono ovunque in una regione legatissima a Venezia, ma provvide fin d'allora a reiterati insediamenti di nuovi slavi, ragion per cui le turbe che si misero in azione per reclamare l'inesistente croaticità della Dalmazia, portandovi il subbuglio e la violenza, erano gente nuova, fatta entrare nel XIX secolo, e che dunque con la storia plurisecolare della Dalmazia non aveva niente a che vedere. Era gente proveniente dal Regno di Croazia e Slavonia, la cui sopraffazione e scapito degli Italiani potè molto meglio compiersi grazie alla conformazione geografica di quella regione, più facilmente vulnerabile e abbordabile, e ove più agevolmente vi si potevano usare le maniere forti e nasconderle.

Non a caso, facendo il parallelismo con Trieste che in cinque secoli di dominazione asburgica mai divenne austriaca, non si capisce come Spalato, invece, sarebbe diventata croata nel giro di pochi decenni, abitata da una maggioranza di gente esagitata che reclamava con veemenza l'unione a Zagabria, la quale Zagabria dista da Trieste poco più di 200 Km, mentre da Spalato ne dista 408; e meno ancora facendo il parallelo con Gorizia, che, pur ubicata a ridosso del Regno di Slavonia e Croazia, seguì la stessa sorte di Trieste e di fatto si dimostrò sempre italiana, nonostante gli sloveni fossero a un passo da lei e massicciamente inseriti dall'Austria nel tessuto cittadino, presentandosi addirittura al censimento del 1910 -probabilmente taroccato-, come il 75% della popolazione. Se davvero erano così tanti, certo non si sprecarono per farlo sapere e tantomeno per difendere l'Austria, il che fa capire che perfino gli slavi di nuovo conio non è detto si portassero come quelli di Dalmazia: in particolare, Gorizia si trovava in un crocevia di fuoco, molto influenzata da Udine, distante 50 km., centro di forte patriottismo italico, e a 30 km da Palmanova, altro centro nevralgico del Risorgimento nazionale, sede di un'eroica resistenza agli austriaci. Ma più ancora la situazione del Friuli orientale, in particolare delle valli del fiume Natisone situate all'estremo lembo nord-orientale del Friuli, serve a chiarire una volta per tutte che c'erano due specie di slavi: gli slavi-veneti, che in via spontanea e naturale passarono da Venezia all'Italia e dunque parteciparono attivamente al Risorgimento, e gli slavi-austriaci, i quali, non sentendosi veneti perché non erano nati ai tempi della Serenissima bensì vi erano stati trapiantati dall'Austria, entrarono in aperto conflitto con gli italiani, diventando i portatori di quell'arcigno livore ben noto al Risorgimento. Ebbene, nel Friuli orientale, la partecipazione inoppugnabile al Risorgimento delle popolazioni parlanti slavo delle quattro valli del Natisone costituisce la prova vivente di questa dicotomia fra le genti di origine slava, perché, laddove rimasero gli slavi-veneti, non si ebbe nessun emergere delle protervie anti-italiane che invece costellarono infelicemente la storia della Dalmazia divenuta austriaca al punto da soverchiare, infine, l'invisa etnia italiana. Pertanto, la spiegazione che di questo fenomeno dà certa storiografia ricorrente, secondo la quale, al comparire dei nazionalismi ottocenteschi, l'elemento slavo di Dalmazia concentrato nelle campagne e numericamente maggioritario si ridestò (ma le campagne dell'interno erano tutt'altro che estese e popolose, basta guardare la carta geografica, ove le montagne sono a due passi dal mare ed erano abitate dai morlacchi e dai cici che non erano slavi!), accendendosi improvvisamente della fiamma dell'appartenenza etnica e decidendo addirittura di togliere di mezzo gli italiani fino a farli scomparire, non sta in piedi. Non sta in piedi anche perché, pur ammettendo che questi slavi di campagna fossero una folla numericamente soverchia, non si vede come avrebbero potuto avere la meglio sui colti e benestanti italiani di città. Non sta in piedi perché non avvenne negli altri territori posti parimenti sul medesimo confine, laddove il Regno di Croazia e Slavonia, che non contava praticamente nulla ma a cui i bercianti slavi di Dalmazia del periodo austriaco si sentivano idealmente legati, avrebbe dovuto sottomettere etnicamente anzitutto l'Istria, Trieste, il Friuli orientale e le città di Fiume e di Zara, mentre invece in codesti luoghi l'italianità si conservò maggioritaria, scomparendo, al contrario, in misura inversamente proporzionale alla vicinanza col Regno di Croazia e Slavonia, il che è un'incongruenza logica. Tanto più che si levò da questo Regno, dalla sua capitale Zagabria, almeno fin dal 1837, l'appello nazionalista rivolto a tutti gli slavi del sud di unirsi nel comune panslavismo, e non già dalla Dalmazia, come sarebbe stato logico se quivi fosse sempre vissuta quella gran maggioranza di slavi-croati di cui si favoleggia. Nè quest'appello, di per sé solo, spiega l'ondata inarrestabile di odio anti-italiano che durò fino alla seconda guerra mondiale e oltre, e, sotto forme più velate ma non meno insidiose dura ancora oggi, e ha portato alla pressochè completa estromissione degli italiani da una delle loro regioni più belle e più affezionate, e alla trasformazione di quei bellissimi paesi e città italiane in gusci vuoti, senza più identità: un odio che non poteva assolutamente albergare negli slavi della Serenissima. Che fossero gli Italiani a estromettere gli slavi dai territori che erano appartenuti stabilmente a Venezia fin dal XV secolo, come abbiamo visto non era possibile, giacchè i veri Dalmati, a cominciare dal famoso Niccolò Tommasco nativo di Sebenico, ebbero sempre una visione della Dalmazia inclusiva di tutti i suoi abitanti, indipendentemente dalla loro origine etnica prossima e remota, tanto più che, in una regione così aperta, tale origine non era facile da individuare, essendo spesso data dalla commistione di varie etnie incrociatesi nel tempo, e, concordemente con questa visione, essi pensarono e agirono sempre avendo in mente l'unione dei Dalmati, giammai la loro divisione. A maggior ragione, dunque, non è credibile che, al contrario, gli slavi di Dalmazia che fossero davvero dalmati rabbiosamente s'attaccassero all'origine etnica reclamando l'esclusiva titolarità di quel territorio. Senza contare che molte altre etnie vivevano in Dalmazia, compresa perfino una minoranza di turchi. Ecco spiegato il perché uno stuolo di patrioti dalmati con cognomi chiaramente slavi o d'altra origine straniera prese parte al Risorgimento italiano, morì e si sacrificò per esso. Ecco spiegato il fatto irrefutabile che la Carboneria -e poi la Giovine Italia- penetrarono a fondo anche in Dalmazia, come dimostrano i numerosi processi con centinaia di condanne a morte che ivi si svolsero. C'è poi un'altra considerazione da opporre: la lotta per il possesso della Dalmazia a scapito degli italiani, ebbe come protagonisti principalmente i croati, cioè una parte minoritaria della famiglia degli slavi del Sud, croati il cui piccolo Regno, vassallo dell'Austria, era ubicato a nord-est, ai confini con l'Ungheria, in posizione distaccata dalla Dalmazia, i diretti confinanti della quale erano in realtà i bosniaci, cosicchè avrebbero dovuto esser questi gli eventuali "pretendenti" dell'amena regione che si stendeva lungo l'Adriatico, tenendo anche conto che il Regno di Bosnia, fino all'occupazione ottomana, era ben più importante di quello di Croazia. Ma, a riprova di quanto abbiamo detto, non avvenne nulla di tutto ciò e non furono i bosniaci a reclamare la Dalmazia, divisa anche geograficamente dal mondo balcanico dal baluardo delle Alpi Dinariche. Ciò nonostante, la Dalmazia finì per diventare la "terra promessa" dei croati, e sull'onda di questi, di tutti gli slavi del sud, quando, constatate le incertezze dell'Italia Risorgimentale e la debolezza dell'Italia della Grande Guerra di fronte alle potenze dell'Intesa, essi afferrarono famelicamente il portentoso affare rappresentato dallo sgraffignare la bella regione che in nessun modo avevano plasmato e sulla quale non potevano avanzare diritti: diritti che furono loro artificiosamente riconosciuti dalla Francia, dall'Inghilterra e dagli Stati Uniti, che dopo la prima guerra mondiale crearono a tavolino il Regno dei serbi dei croati e degli sloveni, nonostante questi, lungi dall'essere quell'affiatata famigliola che si voleva far credere, si odiassero ferocemente tra loro, come la Storia ha pienamente dimostrato. Essi però si trovarono pienamente d'accordo nell'arraffare la Dalmazia, e ciò fu bastante per arrecare all'Italia un danno enorme cui neanche il Fascismo riuscì a ovviare, e di cui scontiamo le conseguenze ancora oggi.

Per concludere: perché la Dalmazia è e resta- italiana nella memoria e nella Storia? Perché la grande forza attrattiva di Roma, di Bisanzio e di Venezia calamitò fortemente a sé genti di tutte le etnie, plasmandole in unum e facendo della Dalmazia una regione dell'Italia, periferica e lontana, ma pur sempre italiana.

Lungi dall'essere conformata com'è oggi, l'identità slava era quantomai rarefatta per non dire inesistente, e dunque si lasciò plasmare e assorbire dall'etnia dominante, superiore culturalmente ed economicamente, che la inglobava a sé, di cui aveva assunto anche la lingua: il che avvenne precisamente in Dalmazia nel corso dei secoli, fin da quando, nel '400, la Serenissima Repubblica di Venezia, dopo un periodo di alti e bassi, guerre e sortite varie, non conquistò definitivamente l'intera regione imprimendovi quell'impronta indelebile che a tutt'oggi, seppur morta perché svuotata della vita italiana, permane visivamente nei monumenti residui e nel paesaggio. In altre parole, in Dalmazia non esisteva affatto una coscienza identitaria slava e tantomeno croata, né essa potè saltar fuori inopinatamente da quella parte di dalmati di origine slava vissuti tranquillamente sotto la Serenissima: ne abbiamo spiegato i vari perché.

Ma il discorso sulla Dalmazia non termina qui, esso continua e deve continuare, ce lo impone il dovere di far luce sulla Storia, lo dobbiamo a tutti i dalmati che hanno sofferto, sono morti o furono costretti a fuggire ben prima che avvenisse ciò che nel giorno del ricordo si celebra come la tragedia delle foibe e dell'esodo. Molto prima di allora, proprio in Dalmazia con particolare intensità presero avvio l'usurpazione, l'inganno e la sopraffazione che poi, nel 1943-45, avrebbero conosciuto l'atroce epilogo finale che commemoriamo ogni 10 febbraio.

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