“Mi hai gettato nella fossa profonda, in caverne tenebrose, in abissi. Tra i morti è il mio giaciglio.”
“Giustizia e diritto sono la base del tuo trono, grazia e fedeltà precedono il tuo volto.
Beato il popolo che ti acclama, e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto.”
(dal Salmo 87)
Ma non si moriva solo gettati nelle foibe, anzi questo non fu il sistema principale, infatti richiedeva tempo e spostamenti, era scomodo, dunque la maggioranza dei morti italiani, per quanto fosse rilevante il numero d'infoibati, non avvenne per quella causa.
I nostri connazionali venivano fatti sparire e massacrati in molte altre maniere più spicce e altrettanto sadiche e cruente: a causa delle sevizie, dei lavori forzati, nei campi di concentramento -terribile fu quello di Borovnica, a pochi chilometri da Lubiana, dove tutti i giorni si moriva per stenti, sfinimento, torture e malattie-, mediante impiccagione, strangolamenti, impalamenti, annegamenti, bastonature. Rarissima fu la semplice fucilazione.
L'ordine era infatti quello di terrorizzare, di sradicare col terrore l'italianità, annientando qualsiasi resistenza onde poter più facilmente e in minor tempo sostituirsi ai legittimi abitanti negli ex territori della Serenissima. Le mire degli slavi risalivano infatti molto indietro nel tempo, fin dai tempi del Risorgimento, com'è ampiamente dimostrato dai documenti e come ho ripetuto più volte: l'arraffamento dei territori italiani era una meta largamente annunciata, bastava aspettare l'occasione giusta per sanzionarlo ufficialmente al cospetto del mondo, occasione che venne con la sconfitta italiana nella 2a guerra mondiale.
Prima di quella data, a interrompere i sogni jugoslavi furono proprio il Risorgimento, l'Irredentismo e poi la Grande Guerra con la vittoria italiana e il crollo inopinato dell'Austria, all'ombra delle quale i vagheggiamenti slavi di arrivare fino a Udine, Trieste, Gorizia e Cividale avevano già trovato un significativo principio di accoglimento. Crollata l'Austria, non restava che aggrapparsi con ogni mezzo alle potenze vincitrici di Inghilterra, Francia e Stati Uniti, timorose di un allargamento dell'Italia nei Balcani: fu così, da un artificio diplomatico, che nacque il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, poi Regno di Jugoslavia, primo passo per poter accampare ufficialmente a livello internazionale le ben note pretese territoriali contro l'Italia. L'impresa di Fiume fu conseguenza di questo clima avvelenato che si era creato contro il nostro Paese alla Conferenza di pace di Parigi ove si fece carta straccia del referendum con cui Fiume, il 30 ottobre 1918, si era proclamata a larghissima maggioranza per l'annessione all'Italia. Fu risposto dal presidente americano Wilson che “l'Italia doveva fare un gesto di magnanimità e generosità verso gli slavi”, dal primo ministro francese Clemenceau che ”Fiume è la luna”, e dall'ambasciatore britannico in Italia Lord Robert Cecil che “Fiume non l'avrete mai”. Ci vorrebbe un libro solo per elencare le soperchierie e mascalzonaggini di quei giorni contro un ex alleato che aveva lasciato sui campi di battaglia 650.000 morti, al punto che l'ambasciata americana a Roma dovette esser messa sotto protezione dal governo per il moltiplicarsi di sempre più violente manifestazioni patriottiche in difesa dei nostri diritti in Adriatico.
Perciò, chiunque cerchi in qualsiasi modo, com'è avvenuto in questi giorni in una sede istituzionale di Roma che ha preferito lavarsene le mani, di ridimensionare il fenomeno, rimpicciolire i numeri e confutare tesi acclarate gabellando per vera la fola che le malefatte slave contro gli italiani avvennero come conseguenza dei crimini fascisti, dev'essere ritenuto responsabile di quel che dice di fronte a Dio e agli uomini. Coprire la realtà che a molti non aggrada coi crimini fascisti è una mistificazione della Storia, anche perchè, "last but non least", la furia dei titini colpì diversi rappresentanti del CLN, molti partigiani, e perfino comunisti che non volevano piegarsi alle pretese slave, e si avventò contro i propri stessi connazionali che non si allineavano a Tito.
Nella gloriosa isola di Cherso, lunga 65 km, larga fra i 2 e i 22 km, la più vicina all'Italia delle isole del Quarnero, donatasi a Venezia fin dal lontanissimo anno 999 d.C. e che a suo tempo si era ribellata agli austriaci nascondendo in mare il Leone di San Marco dopo averlo tolto dalla Torre dell'Orologio per preservarlo dai vandalismi degli invasori, tutti si proclamavano italiani e il Tricolore venne issato ancor prima che vi giungessero i nostri soldati a bordo del cacciatorpediniere Stocco (Francesco Stocco era stato un grande patriota calabrese del Risorgimento) il 10 novembre 1918, accolti nel tripudio generale.
Coraggiosamente, Cherso si ribellò poi all'avanzata dei titini che, il 20 aprile 1945, con mezzi da sbarco inglesi vi approdarono decisi a impossessarsene e fare piazza pulita dei suoi abitanti. Il maestro elementare Stefano Petris si mise a capo di qualche centinaio di volontari armati ingaggiando selvaggi combattimenti strada per strada, casa per casa, finestra per finestra, porta per porta, angolo per angolo: una ribellione la cui fine purtroppo era scontata, e di cui nulla ovviamente s'è saputo perchè non poteva certo essere pubblicizzata nel clima italiano del dopoguerra nè in seguito dai ben noti mistificatori della Storia.
Gli slavi sapevano di che stampo erano gli abitanti di Cherso, esperti agricoltori, allevatori e pescatori, e facevano gola le migliaia di capi di bestiame (bovini, ovini e suini) che possedevano, poi tutti trasportati in jugoslavia. Le case saccheggiate, i ribelli catturati, i leoni di San Marco scalpellati e oltraggiati, e il 97% degli abitanti fuggiti in Italia: fu questo il tragico bilancio.
Stefano Petris, più fortunato dei suoi compagni, fra botte, insulti e sputi, venne tradotto a Fiume per essere interrogato. Fu quindi condannato alla fucilazione, eseguita il 10 ottobre 1945. Alla vigilia della morte lasciò queste righe alla moglie Giannina, scritte sulle pagine bianche del libro “l'imitazione di Cristo”:
“Non piangere per me. Non mi sono mai sentito così forte come in questa notte di attesa che è l'ultima della mia vita. Tu sai che io muoio per l'Italia. Siamo migliaia e migliaia di istriani gettati nelle foibe, trucidati e massacrati, deportati in Croazia, e falciati giornalmente dall'odio, dalla fame, dalle malattie, sgozzati iniquamente. Aprano gli occhi gli italiani e puntino i loro sguardi verso questa martoriata terra istriana che è e sarà italiana.
Se il Tricolore d'Italia tornerà, come spero, a sventolare anche sulla mia Cherso, bacialo per me, assieme ai miei figli. Domani mi uccideranno: non uccideranno il mio spirito né la mia fede. Andrò alla morte serenamente e come il mio pensiero sarà rivolto a Dio che mi accoglierà e a voi che lascio, così il mio ultimo grido, fortissimo, più forte delle raffiche di mitra, sarà “Viva l'Italia!”.
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