Carlo Dompieri nacque in Trieste il 29 luglio 1842 di padre trentino. È tramandato che la famiglia fosse originaria di Francia, del ceppo Dompierre, cui appartennero guerrieri illustri. Un ramo si stabilì nel secolo XVII a Terlago nei pressi di Trento, ma causa distruzione di archivi, avvenuta nell'epoca napoleonica, non si può con sicurezza risalire che al nonno Giovanni, accasatosi colla veronese Rosa Quarella e morto nel 1816. Il padre Luigi, nato in Trento nel 1792, si trasferì da ragazzo a Trieste, nel 1804, e s'accasò tardi, con Clementina Scandella di progenie lombarda.
Nell'anno 1876 egli entrò a far parte del Consiglio municipale di Trieste. Dal 1886 al 1897 fu vicepodestà e dal 1897 al 1900 podestà di Trieste.
Nell'agone forense s'era provato presto col difendere nel 1871 Edgardo Rascovich dall'accusa di alto tradimento.
Difese lo stampatore dell'Indipendente, arringò in altri processi politici e non tardò a diventare patrono autorevole e ricercato. Alcuni anni tenne studio insieme con Antonio de Tommasini, figlio di Muzio e famoso avvocato, ma dissentiva dallo stesso per ragioni politiche, tant'è che finì col separarsi, incurante del grave scapito personale, perché il Tommasini, di sentimenti austriaci, tentava, sia pur timidamente, d'infrenarlo. Correva allora il tragico anno 1882, in cui aspettandosi la visita di Francesco Giuseppe fu lanciata una bomba in Corso; l'anno di Guglielmo Oberdan.
Nel 1892 fu relatore nella Dieta provinciale della richiesta di un'università italiana per Trieste. La richiesta era naturalmente rivolta al Governo austriaco, per persuadere il quale così argomentava:
«Ragioni storiche che attraverso il medioevo risalgono ai tempi antichi hanno assicurato alla cultura latina il primato sul mare Mediterraneo; se pertanto l'Impero austriaco intende conservarsi potere e importanza sul mare, deve esso far tesoro dell'elemento italiano sparso sulle rive dell'Adriatico da lui possedute, promuoverne la conservazione e la vita, e non già assecondare gli sforzi inconsulti di coloro che s'industriano a svellere e distruggere in questi lidi quei germi preziosi di latinità che la natura e la storia con lunga elaborazione di secoli vi hanno collocato».
(Anno 1897) Il contrasto fra Italiani e Slavi si faceva sempre più angoscioso anche sull'estremo lembo dell'Adriatico. Poco dopo la sua elezione, degli operai romagnoli furono aggrediti a Servola presso Trieste e preferirono lasciar la città.
Ma egli era intervenuto con energia in lor difesa, onde sentite grazie ebbe dal municipio di Cesenatico; e in Consiglio protestò sdegnosamente fra scroscianti applausi contro l'autorità governativa «che dimostravasi da per tutto non pari al suo dovere di proteggere l'elemento italiano avente pieno diritto di vivere sotto l'egida delle leggi dello Stato».
A fine anno, dopo la caduta del ministero Badeni, il luogotenente Rinaldini fu sostituito dal conte Goess, pare per accontentare gli Slavi.
Nel 1898 La Lega nazionale si riunì a congresso in Monfalcone e il podestà Dompieri intervenne e ne esaltò l'opera patriottica in un ardente discorso.
(Anno 1899) L'anno iniziò con una disperata doglianza per le sopraffazioni slave e la connivenza del Governo.
Nella seduta del 3 gennaio la Dieta provinciale. dopo roventi discorsi protetti dall'immunità votò un gagliardo atto d'accusa e per avvalorarlo si riunirono in Trieste il 15 gennaio i rappresentanti dei comuni dell'Istria e del Friuli. Il podestàDompieri ricordò in tale circostanza il numerus tergestinus, la legione confinaria cui venne fatto d'impedire per lungo tempo che calassero sull'Istria i popoli che s'agitavan di là dall'alpe Giulia, e indi lanciò contro gli Slavi la frase veemente che s'era udita al tempo di Carlo Magno, l'anno 804, nel Placito del Risano: «Et nos eos ejciamus foras!».
Il Governo proibì l'epigrafe ch'egli aveva dettata per la sala municipale in memoria della solenne adunata e che diceva:
IL XV DI GENNAIO DEL MDCCCIC
I DEPUTATI E I PODESTÀ
DELL'ISTRIA DI TRIESTE E DEL FRIULI ORIENTALE
QUI ADUNATI
AFFERMARONO
CONTRO LE NOVISSIME PRETENSIONI DI ALTRE GENTI
L'INDELEBILE MILLENARIO CARATTERE ITALIANO
DELLA REGIONE POSTA FRA LE ALPI GIULIE E IL MARE
(Anno 1900) Nonostante tutto il podestà Dompieri riuscì ancora a portare a compimento un'opera immensamente utile per la città. l'ampliamento dell'acquedotto d'Aurisina.
Di fronte a vastissimi disegni neppur oggi posti in atto egli badò a cosa pratica a provvedere Trieste almeno dell'acqua necessaria per uso domestico. Con una spesa di 4.600.000 corone da pagarsi senza interessi dopo un decennio l'acquedotto fu messo in condizioni di fornire ventimila metri cubi giornalieri. Meritano attenzione l'esattezza del contratto e del conseguente onere addossato al Comune, inoltre la rapidità con cui tutto fu portato a compimento.
Nel 1901 egli era infervorato del problema amministrativo, era intimamente convinto che ivi si celasse il pericolo maggiore, che perciò la difesa più urgente del carattere italiano della città consistesse nella gestione irreprensibile e parsimoniosa del pubblico danaro. Si legge nelle sue note come il ricordo di ciò ch'era toccato ai Comuni di Dalmazia accrescesse i sui timori. Avversava ormai tutto che di men puro fosse nell'irredentismo massonico e politicamente andava accostandosi al pensiero del Crispi che la Triplice alleanza rappresentasse una necessità per l'Italia, epperò Trieste non dovesse porre intralci. Nel plebiscito raccolto in primavera aveva creduto di scorgere il segno certo e duraturo della volontà popolare. Prevalse la sua tempra di lottatore e preferì resistere agli avversari, anziché loro asservirsi accettando l'offerta o darsi vinto col lasciar la contesa.
Si ebbe così subito dopo il 1900 un'ancor più grave dissensione nella compagine nazionale della città che culminò nelle successive elezioni comunali del 1903; dissensione che fu causa d'ire violente.
In Consiglio municipale egli non mise piede che per la morte di re Umberto, la quale giova ricordare fu sentita in tutta Trieste con un impeto di passione senza pari. Era suo proposito di dirne la necrologia, ma fu dissuaso dal Podestà.
Comprese di nulla poter fare isolato e solo. Rifiutò con lettera aperta di partecipare ad un'inchiesta sulla gestione dell'officina comunale del gas. Tardò tuttavia a dimettersi fino all'ottobre del 1902.
Mediante i manifesti elettorali del 2 marzo e del 9 aprile 1903 Carlo Dompieri propose agli elettori triestini la pura questione amministrativa della cosa pubblica. «La gestione del Comune dev'essere informata a verità e sincerità », diceva chiedendo nel tempo istesso che gli amministratori fossero «meglio compenetrati dei doveri incombenti a chi rappresenta l'intera cittadinanza»; e soggiungeva: «Il denaro pubblico è denaro del popolo: non è lecito agli amministratori di disporne a loro capriccio o per mire politiche particolari». Si professava contrario alla gestione municipale dei pubblici ser,vizi e infine dichiarava «di amare il popolo, di voler promuoverne il bene, ma non già col lusingarne le passioni, bensì col rafforzare in tutti l'idea del dovere».
Voleva logicamente che anche gl'impiegati dello Stato entrassero nel civico consesso contro l'usanza che fino allora li aveva sbanditi. A questa regola era infatti venuto meno il fondamento, dacché era stata riveduta e cambiata la tattica politica. È noto che per vari lustri, sino al 1897, non s'eran mandati più da parte liberale italiana deputati al parlamento di Vienna, come per non riconoscerlo. Tale tattica negativa, che invano egli aveva acutamente confutata negli anni precedenti, fu dovuta modificare sul finir del secolo, dopo la prova manifesta dei danni che apportava. Si elessero da quel momento in poi deputati italiani e conseguentemente si sollecitarono i cittadini a entrare al servizio dello Stato austriaco per non cadere altrimenti in completa balia degli Slavi.
Quindi la sua richiesta elettorale che questi impiegati entrassero in Consiglio appare perspicace e giusta.
Egli condusse la lotta amministrativa a visiera alzata, facendo assegnamento solo su se stesso e sulla causa che appassionatamente sosteneva, tant'è che proclamò di ripudiare ogni voto non dato per intimo convincimento. Aveva impostato tale lotta, come s'è visto, su terreno puramente amministrativo, ma non gli venne fatto di contenervela.
Dopo le citate elezioni comunali del 1903 egli si ritrasse in famiglia, dedicandosi agli studi preferiti e alla professione d'avvocato. Meditò sul passato, sulle vicende e gli errori della vita pubblica, sui propri e sugli altrui. Riconobbe senz' ambage d'aver perduto quel favore popolare che tre anni prima l'aveva spontaneamente alzato sugli scudi.
Il diario che ha lasciato è tutto steso di suo pugno, con calligrafia nitida ed elegante, senz'aiuto di lenti che non adoperò mai, né da lontano, né da presso, e fu continuato fino all'ottantesimo anno di vita. È formato di cotidiane anno, tazioni e le notizie familiari sono interpolate nei grandi fatti della storia, ch'egli ritrae compostamente, con parsimonia di giudizi. Ha significato per Trieste, di cui rispecchia un caratteristico mezzo secolo di storia.
L'anima squisitamente italiana del cronista balza agli occhi in ogni episodio: l'Italia è la meta costante de' suoi viaggi, la terra d'educazione e di studio dei figlioli. Egli peregrina lungo la penisola e annota tutto che alla storia della patria si appartiene, in particolare quanto può significare volontà e speranza. La morte di Vittorio Emanuele II e di Giuseppe Garibaldi suonano nel diario come rintocchi funebri, ma le visite che i patriotti italiani ogni tanto rendono, tra sospetti di polizia, alla «curva Trieste», le loro parole che il cronista con attenzione registra, infondono coraggio. La politica coloniale è del pari sin dai primi passi seguita dal suo acuto ingegno e il fatto d'armi di Dogali appare registrato in una sola riga di spartana fierezza:
«Rimasero morti o feriti tutti gl'ltaliani che vi erano impegnati». Ogni pagina del diario è un ricordo della grande vigilia, vigilia di Trieste e di tutta la patria!»
Molto egli sofferse per la nequizia della gente, in tempi e luoghi di passioni politiche ardentissime: fu assalito spietatamente e si sarebbe voluto colpirlo fin nell'onore. Ma tutto dimenticò nelle ore tremende della guerra e dopo la redenzione.
La memoria sua tenace sembrava risalire a tempi favolosi, allorché raccontava l'apparizione della squadra sarda entro il golfo di Trieste e la cavalcata del messo imperiale recante la costituzione del Quarantotto. Sotto i suoi occhi eran pas sati il 1849, il '59, il '66, il '70, il 1918: a lui triestino stava innanzi sul declinar della vita un quadro davvero ammaliante!
E quell'estrema annotazione del diario rimane lì a far rivivere il vegliardo nella sua antica fede nella visione del gran sogno compiuto: ormai i cippi confitti lungo il limite italico hanno consacrata l'opera immane; egli pure scambiando uomini e date, tiene fermo lo sguardo sul patto definitivo «che restituisce alla patria il confine delle alpi Giulie» e a questo punto sembra che la stanca mano che la stanca mano chiuda il quaderno ingiallito...
Seguono pagine vuote, non poté più scrivere, la mente gli si era annebbiata. Lottò tuttavia a lungo in piedi contro il male, finché non chinò il capo la mattina del 3 ottobre 1925.
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