giovedì 2 novembre 2023

Abdon Pamich

Nato a Fiume il 3 Ottobre 1933.

Pamich è stato uno degli atleti italiani più medagliati nella specialità dei 50 km di marcia ai Giochi olimpici, evento a cui prese parte per cinque volte; vinse la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Roma nel 1960 e la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Tokyo nel 1964. Di quella gara resta memorabile l'episodio che lo vide protagonista: a causa di un tè freddo, Pamich ebbe una crisi intestinale: "Per avere un minimo di intimità c'era prevista una stazione al km 35, troppo lontano... Ho provveduto coperto da alcuni addetti del servizio d'ordine...", rimontò e superò tutti gli avversari, andando a vincere.

Il 19 novembre 1961 sulla pista dello Stadio Olimpico di Roma ha stabilito il record mondiale dei 50000 m di marcia (125 giri di pista lunga 400 metri), con il tempo di 4h14'02"4. È stato inoltre il portabandiera del tricolore italiano durante la cerimonia d'apertura delle Olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972.

Profugo fiumano dopo la fine della seconda guerra mondiale (crebbe nel campo di raccolta di Novara), si è sempre impegnato per la conservazione della memoria storica della comunità giuliano-dalmata in Italia e in particolare a Roma, anche come membro della Società di Studi Fiumani. In questa veste, nel febbraio 2016 è stato testimonial della "Corsa del ricordo".

Nel maggio 2015, una targa a lui dedicata fu inserita nella Walk of Fame dello sport italiano a Roma, riservata agli ex-atleti italiani che si sono distinti in campo internazionale.

«La gara più dura? Sfuggire dall'Istria»

La sua marcia più difficile non è stata quella di Tokyo nel 1964, che lo ha fatto entrare nella storia dello sport. L'oro alle Olimpiadi vale un posto nella leggenda. La sua marcia più dura Abdon Pamich l'ha fatta a 13 anni in un giorno di settembre del 1947 per scappare dalla Jugoslavia di Tito e raggiungere il padre esule in Italia. 

Col fratello Giovanni ha marciato nella notte per ore, lungo i binari della ferrovia che da Fiume portava a Divaccia. Nel buio, con i riflettori che ogni tanto rompevano la notte e i soldati titini che sparavano anche al vuoto. Faceva un freddo cane sul Carso, loro indossavano una maglietta e calzoni corti, erano scappati dal mare. 

Arrivarono a Trieste mescolati a un gruppo di triestini e divennero ufficialmente due profughi con tanto di certificato che dava diritto a 300 grammi di pane e a tre etti di chiodi per famiglia, dietro presentazione della "ricevuta di esodo".

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