Ma SE riteniamo che parlare della Dalmazia italiana ai giorni nostri sia anacronistico, inutile, pretestuoso, provocatorio e quant'altro, un argomento indelicato di cui non vale la pena discutere, allora vuol dire che le nostre genti del confine orientale di ogni tempo si sono sacrificate per nulla, a cominciare dai Veneziani che per quelle terre tante guerre sostennero contro l'Austria, l'Ungheria e i Turchi, nonché contro i pirati uscocchi e narentani foraggiati da Vienna che le flagellavano con devastanti scorrerie. Vuol dire che Nazario Sauro stesso, che non parlava mai di istriani e dalmati separatamente, bensì di giuliano-dalmati, si sacrificò per nulla e vani furono i suoi ideali e di tutti quelli che come lui lottarono, soffrirono e caddero anche per la Dalmazia italiana. Quando l'artista irredentista triestino Carlo Sbisà creò, nel 1934-'35, per il Museo del Risorgimento di Trieste, i suoi celebri affreschi delle principali città redente allegoricamente rappresentate da figure femminili, rappresentò anche Spalato che, non essendo stata redenta, venne raffigurata come una donna triste e cupa con un velo nero sulla testa.
SE riteniamo che la Dalmazia non era Veneziana ma slava, abitata da una maggioranza di slavi piantati lì da mille anni o addirittura dai tempi delle invasioni barbariche, allora significa che le nostre cognizioni storiche sono quantomai ingarbugliate, confuse e inficiate dalle stesse false “verità” che gli slavi hanno messo a più riprese artatamente in campo, spalleggiati dagli austriaci prima e dalle grandi potenze poi, e infine accettate da un'Italia leggera e vanesia, ansiosa di semplificare e obliare: in tal modo molto più facilmente gli usurpatori hanno raggiunto lo scopo finale di appropriarsi non solo di quelle floride terre nostre, fatte prosperare con la pesca, l'agricoltura, l'artigianato, la navigazione, i commerci, l'arte e la cultura, ma anche dei personaggi che vi dettero lustro, a cominciare dall'astronomo raguseo Ruggero Boscovich, croatizzato a forza pur lui, lui che, docente di matematica all'università di Pavia, fece parte dell'Accademia italiana delle Scienze fondata nel 1782 dall'ingegnere della Serenissima Antonio Maria Lorgna proprio per proclamare in faccia al mondo l'unitarietà dell'Italia, e fondò a Milano l'osservatorio astronomico di Brera a cui dedicò i più ambiziosi progetti e amorevoli cure: appropriazioni che sono avvenute e avvengono senza che i nostri serafici maitre à penser che affollano conferenze, simposi e comparsate in tv dicano “a”, e tantomeno i nostri politici.
SE riteniamo che ricordare e celebrare la Dalmazia italiana sia un'offesa contro gli slavi di oggi, contro la pace e l'europa, allora vuol dire che ci siamo assuefatti e piegati a riconoscere come legittimi proprietari storici i discendenti di fantomatici avi che nulla vi lasciarono, nulla vi costruirono, nulla vi crearono, neanche la toponomastica.
SE riteniamo che i discorsi sulla Dalmazia debbano rigorosamente svolgersi entro la cornice del politicamente corretto e delle sue dubbie ricostruzioni storiche, affidandoci a chi va in giro a raccontare che nel confine orientale non vi fu il Risorgimento ma vi fu un non meglio precisato autonomismo un po' filo-austriaco e un po' filo-italiano, capeggiato, per esempio, a Spalato dal podestà Antonio Bajamonti (già perseguitato e incarcerato dagli austriaci) e a Fiume dal podestà Michele Maylender, allora vuol dire che abbiamo capito poco di quel tragico momento storico, quando a tutto ci si aggrappava pur di far sopravvivere l'italianità attorno alla quale il cappio strangolatore della sopraffazione etnica si stringeva anno dopo anno senza scampo. Uno storico dei nostri tempi, eccezione che conferma la regola nel triste panorama attuale, nel commemorare a Padova pochi anni orsono la nobile figura di Antonio Bajamonti che fu podestà di Spalato dal 1860 al 1880 e aveva studiato in quella città, ha finalmente accennato all'immissione premeditata di croati nella città di Spalato onde alterarne la consistenza etnica a danno degli italiani e quindi scalzarli definitivamente, cosa che ovviamente non avveniva solo lì e cominciò anche prima del 1860. Ma purtroppo ciò che è pur storicamente evidente è stato rigettato in primis proprio dai diretti interessati, come fosse stato rimosso, tanto che oramai tutti hanno deciso che gli slavi erano lì da 1000 anni almeno e costituivano la maggioranza della popolazione, evidentemente perchè questo fa meno male della verità e aiuta a sopportar meglio il disastro della perdita di un simile territorio da cui punge un acuto senso di colpa: ma così facendo, ammettendo in sostanza che la Dalmazia era slava, il parlare che si fa su di essa è invano.
SE poi riteniamo che sia giusto accodarci al ben noto gregge che non sa far altro che suonare la grancassa contro il Fascismo, accusato d'esser la causa dei disastri del confine orientale, significa che, oltre a non aver capito niente, dimostriamo di non conoscere neanche le cose più elementari sull'argomento.
SE riteniamo che meglio sia dimenticare, sopraffatti anche noi da un cerchio che sempre più perfidamente si stringe contro le Patrie memorie onde non lasciarvi altro che macerie d'ignoranza, non saremo più degni di nominare Francesco Rismondo di Spalato, figlio di un ricco armatore, che entrato clandestinamente nel Regno d'Italia assieme alla moglie sotto falso nome un mese prima della dichiarazione di guerra, s'arruolò volontario nel Regio Esercito: catturato dagli austriaci durante un'azione bellica, non si sa che fine abbia fatto, forse riconosciuto come irredento e condannato alla forca assieme ad altri come lui. Il suo corpo non fu mai trovato, e per questo d'Annunzio lo chiamò “l'assunto di Dalmazia”.
SE insomma ci lasceremo travolgere da tutto ciò che ho detto sopra, non saremo più degni di nominare un solo connazionale del confine orientale che per esso si sacrificò, come il quattordicenne dalmata Stefano Zucovich che ripetutamente sfidò le batterie austriache per difendere Venezia nel 1848, assieme a non si sa quanti suoi corregionali, tra fame, colera, tifo e bombardamenti austriaci: i documenti ci forniscono liste lunghe ma giocoforza incomplete, è una schiera che si perde nel mare della Storia, una schiera di prodi del confine orientale che lasciarono tutto per Venezia e per l'Italia, molti di essi riparando in Piemonte, là trovando la porta aperta, la speranza del compimento di tutte le speranze. Il dalmata Giovanni Lassovich, rifugiato a Genova, mentre il fratello Antonio andava ramingo tra Corfù e la Grecia e infine l'avrebbe raggiunto, scriveva il 15 ottobre 1849 al Ministro Piemontese della guerra e della Marina: “Vostra Eccellenza sa che siamo perseguitati per la santa causa italiana, costretti a fuggire, e senza più nulla.”
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