lunedì 30 ottobre 2023

Quando Napoli accolse i profughi giuliano-dalmati nel Bosco di Capodimonte

Anche a Napoli si tiene alto il ricordo dei caduti delle foibe e degli esuli di Istria, Fiume e Dalmazia: il 10 febbraio la Giornata del Ricordo nel Bosco di Capodimonte, dove nel 1947 fu allestita una baraccopoli per accogliere i profughi italiani. Alcuni di loro rimasero poi nel capoluogo partenopeo, come la famiglia di Diego Lazzarich, oggi professore universitario a Napoli.

Il 10 febbraio 2016, con una targa davanti all’area del Casino della Regina, nei pressi della Porta di Miano, il Comune di Napoli ha ricomposto la memoria storica della vita dei profughi giuliano-dalmati che qui vissero. 

Nel Dopoguerra, a partire dal 1946, si verificò l’esodo dall’Istria, dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia, noto anche come esodo giuliano-dalmata, un evento storico che portò alla forzata emigrazione della maggioranza dei cittadini, di etnia italiana.

Dei 109 campi profughi che furono allestiti dal governo italiano, la Campania ne ospitò tre, tra i più grandi: uno ad Aversa, un secondo alla Canzanella a Fuorigrotta, e un terzo nel Bosco di Capodimonte che costituiva un luogo protetto da eventuali criminali e malintenzionati, avendo gli accessi sotto controllo. Grazie all’Associazione Profughi Giuliani, così, circa un migliaio di esuli, suddivisi in trenta famiglie, poi ridotti stabilmente a duecento persone circa, furono sistemati nel “Centro Raccolta Profughi” del bosco composto dai baraccamenti del primo, secondo e terzo campo, allestiti dai soldati alleati durante l’occupazione. Il 9 aprile 1947, infatti, il Soprintendente ai Monumenti, l’arch. Renato Chiurazzi, per liberare le aree preposte, firmava l’atto di consegna del materiale edile presente nel bosco, tra l’altro in pessimo stato di conservazione, al Comitato Profughi Giuliani che si sarebbe fatto carico di smaltirlo. Inizialmente vissero il loro soggiorno a Capodimonte, isolati, lontani dal quartiere circostante, dalle loro terre e spesso dai parenti che non avevano ottenuto il permesso di raggiungerli. Nel campo si festeggiavano i Santi patroni delle città perdute, come Fiume, Zara o Spalato. Alle manifestazioni partecipavano anche i profughi che non abitavano qui: si ricostituiva così il clima delle città d’origine, tutti parlavano nel proprio dialetto e cucinavano le pietanze tradizionali. Le baracche in legno e lamiera dei tre campi in origine risultavano ben sistemate: alcune di esse, destinate ad alloggi per gli ufficiali, erano dotate di un piccolo giardino antistante e all’interno anche tappezzate e arredate. Gli istriani erano anche agevolati per l’allacciamento gratuito alla rete idrica ed elettrica del Comune di Napoli e per le procedure nei concorsi pubblici. 

Con il passare del tempo si verificò l’integrazione con gli abitanti di Capodimonte. Gli esuli cominciarono a frequentare il quartiere, le scuole, i negozi, la gente, trovando affetto, disponibilità e solidarietà, tanto che molti di loro, anche dopo l’assegnazione degli alloggi in altri posti rimasero legati alla zona. Napoli è stata probabilmente l’unica città d’Italia a mettere a disposizione dei profughi il proprio principale parco pubblico per tanto tempo, fino al 1992 quando, con la morte dell’ultima profuga che ci abitava, fu smantellato dalle autorità il terzo campo ancora esistente, presso il Casino della Regina a Bellaria.

Ancora oggi, ad imperitura memoria, questa accoglienza viene celebrata nel Bosco di Capodimonte, dove il Comune di Napoli ha anche scoperto una targa per celebrarne il ricordo. Alcuni degli esuli accolti all'epoca si spostarono poi in altre città d'Italia, altri rimasero a Napoli e si fusero con il capoluogo partenopeo, diventando parte integrante. È il caso, tra i tanti, della famiglia di Diego Lazzarich, oggi storico e docente universitario nel capoluogo partenopeo: la sua famiglia scappò da Fiume riuscendo a portare con sé pochissime cose, arrivando poi nel campo profughi di Napoli dedicato agli esuli giuliano-dalmati.

 


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