domenica 22 ottobre 2023

PROBLEMI ITALIANI: GLI ITALIANI DELLA VENEZIA GIULIA (LUIGI BARZINI, 1915)


Il Luogotenente Hohenlohe, inaugurando l’esposizione Adria a Vienna nel maggio (1913) ebbe a dire che Trieste non appartiene a nessuna nazionalità. Questa affermazione basta ad illuminare i suoi intendimenti di governo. Negare la nazionalità italiana a Trieste è come negare la luce del sole. Il viaggiatore che arriva da certe regioni del regno d’Italia deturpate d’esotismo, vivendo a Trieste e nelle paesane città dell’Istria prova l’impressione di trovarsi a contatto di una nazionalità più pura, più schietta, più viva di quella che ha lasciato. L’italianità vi si compenetra tutta di un calore rovente di cosa percossa.

Se la statistica, la cui sincerità ufficiale non vogliamo mettere in dubbio, indica nelle sue cifre generali l’aumento della marea slava su quelle terre, la fisionomia e l’anima delle città sono finora immutate. La marea invade a preferenza i campi, mentre gl’italiani si mantengono compatti nei grossi centri. Nell’interno dell’Istria varie città sono già come delle grandi fortezze investite dall’invasione, ma verso il mare, ininterrottamente lungo le rive, dove si accumulano i tesori meravigliosi dell’arte, della cultura e della storia italiana, l’italianità è incontaminata, piena, generosa, ardente e fieramente combatte per la sua vita millenaria.

Dietro gli slavi invadenti gravita il peso di tutta l’immane massa slava dell’Impero con le sue organizzazioni sociali e finanziarie, con la sua sete di conquista. Dietro agl’italiani non c’è nessuno e non c’è niente. Essi sono soli col loro diritto. Ma non avrebbero nulla a temere per la esistenza nazionale se contro di loro non operasse tutta la formidabile macchina dei poteri politici, se verso di loro non si svolgesse l’ostilità di tutti gli organi dello Stato, se una artificiosa slavizzazione non avvenisse per volontà di Governo, se agli avversari non fossero prestate tutte le armi della autorità, se ogni manifestazione d’italianità non fosse perseguitata come un crimine quasi che l’essere italiano fosse la più pericolosa forma di rivolta, se non si verificasse a danno degl’italiani una patente e continua violazione di diritti da parte di chi dovrebbe tutelare ogni diritto, se non si rinnovassero contro l’italianità sistemi di oppressione che noi credevamo non fossero più del nostro tempo.

Che cosa si vuole? La stampa austriaca dei partiti dominanti lo dice senza ambagi e senza veli: far sparire l’elemento italiano in quelle regioni, come nella Dalmazia fu fatto sparire dalla «saggia politica» dei governanti. La stampa slovena lo ripete a gran voce. A Trieste stessa l’Edinost, organo sloveno, ha stampato: «Noi non desisteremo finché non avremo sotto i nostri piedi, ridotta in polvere, l’italianità di Trieste. Non cesseremo finché non comanderemo noi a Trieste, noi sloveni, slavi.» Il programma non è soltanto attuato ma è confessato e proclamato. Si è giunti alla fase brutale ed epica della lotta. L’italianità, che ha tutti contro, non vuol cedere, non vuol morire; sotto al possente ginocchio dell’impero essa trova forze incommensurabili di resistenza nella profondità della sua coscienza nazionale, nell’orgoglio del suo passato, nella speranza della salvezza. Da quindici secoli essa costituisce un baluardo della latinità, la difesa avanzata della civiltà romana, e non può venire distrutta senza che l’equilibrio delle razze si rompa e il flusso slavo passi dai confini etnici a portare il suo impeto sui confini politici del mondo latino.

Non è questa una lotta naturale di nazionalità. Si comprende che gli slavi premano e che gl’italiani resistano, ma abbandonato alle sue forme sincere tale conflitto non avrebbe mai rappresentato un pericolo per l'italianità. Sono dodici secoli che gl’italiani e gli slavi si trovano a contatto senza che l’italianità sia mai stata minacciata, fino al giorno in cui il Governo austriaco pensò di adoperare gli slavi come un’arma per abbattere l’italianità.

Strano ritorno della storia! Un duca Giovanni, che governava l'Istria e Trieste in nome di Carlo Magno, non potendo domare i comuni latini, pensò anche lui di adoperare gli slavi, e incominciò a gettare sui territori comunali le prime tribù slovene, selvaggie e devastatrici. Ma gli slavi finirono per fermarsi ammirati e domati avanti alla civiltà italiana come avanti ad una fiamma, e vi si scaldarono. Simili al leone di Androclo, dopo il primo ruggito e il primo balzo, si avvicinarono sottomessi a chi doveva essere la loro preda. I piratae de Carsis divennero i coltivatori dei campi. In seguito, durante due secoli, Venezia ha chiamato slavi dalla Dalmazia, dalla Bosnia, dal Montenegro, per ripopolare l’interno dell’Istria, devastato dalle pestilenze e dalla malaria. Queste popolazioni gravitarono come satelliti intorno all’italianità che trasformava, fondeva e assorbiva tutti gli elementi slavi che i bisogni crescenti dei commerci chiamavano nelle città. Italianizzarsi fu l’ambizione degli slavi più autorevoli. La forza assimilatrice della cultura italiana irradiava lontano. La lotta attuale sarebbe sembrata inverosimile. Fu nel 1866 che essa ebbe inizio.

Il primo tentativo di snazionalizzare gli italiani risale ai 1848. Fu quando il sentimento della nazionalità cominciò a destarsi in Europa come allo squillo di una tromba apocalittica. L’italianità fu tra le prime a sorgere. L’Austria allora le lanciò addosso l’elemento tedesco, e Trieste fu invasa da funzionari, impiegati, agenti concessionari, fornitori tedeschi in sostituzione degl’italiani ai quali fu tolta ogni autorità. Un giornale di allora, rivolgendosi agli stranieri calati e importati a Trieste, scriveva queste parole, che oggi la censura non tollererebbe: «Viva a tutti ! Pensate solo che questa terra è italiana, italiano il lieto mare che la confina, italiano l’animo nostro. Serbate in cuore il tesoro dei vostri affetti nativi che noi rispettiamo ed ammiriamo, ma voi frattanto rispettate il nostro amore d’Italia, perché saremo sempre italiani. » I tedeschi però, che hanno un fondo sentimentale e speculativo, ammirarono troppo la civiltà del paese, finirono per amarlo e per lasciarsi assorbire. Divennero italiani. L’esperimento fallì. Occorreva una razza più rude, meno sensibile, primitiva, fanatica, che opponesse alla persuasione e alla seduzione della cultura italiana l’impassibilità marmorea di chi non capisce.

In un’epoca in cui il sentimento della nazionalità tedesca era appena in formazione e quello della nazionalità slava era imprevedibile, il Governo austriaco vide nello spirito di nazionalità italiano l’elemento di maggiore preoccupazione e combattè in esso il principio della nazionalità, non accorgendosi di favorire così il panslavismo, ben altrimenti pericoloso. L’anti-italianismo è rimasto una tradizione più o meno costante di governo, anche quando il principio della nazionalità si è affermato indomabile su tutto l’Impero. Il solco era tracciato. L’italiana doveva restare la cenerentola delle razze. Contro di essa persistono i livori e i rancori lasciati da tutto il rivolgimento politico dal quale l’Italia è sorta. E sebbene per gl’interessi della Monarchia sia ora più utile non combatterla, si seguita a combatterla con crescente e definitiva violenza per debolezza, perchè le nazionalità padroneggiami lo vogliono, perchè lo vogliono vecchie passioni, antipatie ed odi ereditari.

La persecuzione per mezzo degli elementi slavi cominciò appena l’Austria perdè Venezia. In quell’anno il Luogotenente Kellersferg scrisse che i più grandi interessi dello Stato consigliavano di favorire «nel modo più energico» gli elementi non italiani. La formula di governo per le provincie italiane era trovata.

Cominciò allora con la collaborazione del clero slavo, ferocemente avverso al pensiero italiano, la sobillazione delle masse slovene e croate, credule, ignoranti, bigotte — per le quali la prigionia del Papa sulla paglia è ancora un articolo di fede — contro gl’italiani. La sollevazione anti-italiana assunse subito una forma violenta, come tutte le sollevazioni di contadini, e nel 1867 delle bande slave armate, scesero per la prima volta in centri italiani della Dalmazia ed a Trieste, ferendo e uccidendo. Fu la dichiarazione di guerra. Non crediamo inutile risalire a queste origini, per mostrare quanto la persecuzione dell’italianità risponda fin dall’inizio ad un programma inesorabile.

Per comprendere la situazione attuale dobbiamo dare uno sguardo al passato. Non ci soffermiamo a dire con quali frodi, tre anni dopo, alle elezioni dietali del 1870, fu sconfitta l’italianità in Dalmazia, non raccontiamo i famosi scandali elettorali di Sini, il massimo distretto dalmata, dove la votazione fu prolungata per otto giorni perché non si riusciva a raggiungere la maggioranza croata, dove le liste erano piene di morti, dove due compagnie di cacciatori tirolesi furono chiamate a scacciare con le baionette gli elettori italiani che, trattenuti dall’ostruzionismo, si ostinavano anche dopo otto giorni a voler votare, dove il presidente governativo della commissione elettorale fu sospeso telegraficamente perché manteneva l’ordine ed evitava la frode, dove due impiegati governativi furono traslocati perché avvisarono il commissario di polizia che si perpetravano irregolarità, dove lo spoglio e il computo dei voti si faceva nella abitazione del capo croato. Sono cose ormai antiche. Le varie elezioni che hanno dato la Dalmazia ai croati sono un crimine dì lesa civiltà. È però certo che da allora la lotta contro l’italianità non è stata in tutti i tempi combattuta con eguale asprezza.

Per qualche periodo è sembrato che un senso maggiore di equità o di stanchezza subentrasse ai primi furori, di fronte alla vitalità dell’elemento nazionale italiano. Ai luogotenenti implacabili come lo Jovanovich, sono succeduti uomini meno partigiani. Si sono avuti anche dei governatori italiani come il Pino, il Depretis, il Rinaldini, propensi talvolta ad una politica di tolleranza. Il conflitto con gli slavi continuava, ma senza troppe e brutali violazioni. Sì riconosceva anche alla nazionalità italiana qualche diritto a mantenere il suo posto, a vivere la sua vita sulla sua terra. Per vari anni il barone Rinaldini ha ritenuto che non fosse rigorosamente indispensabile essere italofobo per essere luogotenente di provincie italiane. Tuttavia negli ultimi tempi del suo governo egli sembrò ricredersi. E col suo successore Goess la persecuzione riprese — una quindicina di anni fa. Ma è sotto alla luogotenenza del principe Hohenlohe che, come se fosse sorta una imperiosa e nuova urgenza di slavizzare ad ogni costo quelle terre, tenacemente, ardentemente, disperatamente italiane, ogni indugio è rotto, e la violenza contro l’italianità è portata su tutti i campi, apertamente, senza tregua, senza pudori, col programma mostruoso, chiaramente espresso a Vienna di «far sparire l’elemento italiano» da regioni limpidamente italiane, creando una situazione nella quale pare di veder rivivere tutta una storia di lontane oppressioni.

Osserviamo prima di tutto quei fatti che ci feriscono direttamente, perché rivolti contro agl’italiani sudditi di Italia, e l’occuparsi dei quali costituisce per noi non soltanto un diritto, ma un dovere.

I decreti luogotenenziali, che impongono al Comune di Trieste il licenziamento di tutti i regnicoli impiegati delle industrie municipalizzate, hanno sollevato un giustificato rumore nel campo internazionale perché costituivano un atto, diciamo così, solenne. Ma il loro oggetto, cioè il licenziamento ingiusto di sudditi italiani da ogni sorta di aziende sulle quali possa gravare in qualche modo la volontà del Governo, è un fatto dei più comuni, che si compie in silenzio, nell'ombra, perché la sua enormità non è sempre portata al giudizio del mondo dalla proclamazione d’un editto. Ai cantieri navali di San Marco e di San Rocco, d’industria privata sovvenzionata, tutti gli operai e gl’impiegati regnicoli sono stati licenziati. E non si tratta di una misura contro gli stranieri in genere, visto che capi-squadra e ingegneri germanici sono rimasti. Alla fine del 1911, anche al cantiere navale di Monfalcone, egualmente privato e sovvenzionato, fu imposto il licenziamento dei regnicoli rispettandovi tuttavia gli operai inglesi, germanici e di altre nazionalità. Gl’ingegneri italiani vi furono sostituiti con ingegneri venuti dalla Germania, La compagnia di navigazione «Istria e Trieste» ha dovuto licenziare nel 1912 i suoi impiegati regnicoli, e la stessa lettera di licenziamento rivelava l’imposizione. Calcolando le famiglie di queste migliaia di nostri concittadini messi alla porta, quante persone private di onesta risorsa per questo delitto: essere italiani!

Non passa giorno poi senza che due, tre, quattro sudditi italiani siano espulsi sotto ogni pretesto, ed anche senza alcun pretesto. Abbiamo una lista di varie centinaia di recenti espulsioni d’italiani, con le relative motivazioni, che costituisce un documento stupefacente. Qualsiasi contatto con la polizia è un motivo d’espulsione. Un vetturino italiano riceve una contravvenzione per eccesso di velocità? Espulso. Un italiano urta per caso un ufficiale che lo schiaffeggia e sguaina la sciabola? Espulso. Un italiano ha una discussione in un caffè per ragioni che nulla hanno a che fare con la politica? Espulso. Un regnicolo è stato espulso perché aveva rimproverato acerbamente un giovane che si rifiutava di sposare sua figlia dopo di averla sedotta. Un suddito italiano, sensale di terreni e di stabili, è stato espulso perché favoriva la vendita d’immobili d’oltre confine. Una vecchia friulana regnicola di settanta anni, che dalla giovinezza era occupata come lavandaia presso una signora, è stata espulsa per «misura d’ordine pubblico». Una compagnia italiana d’operette è stata espulsa perché a Pola un fischio del lubbione ha accolto, durante una rappresentazione di Sangue viennese. la comparsa del soldato austriaco. Ma avremmo di che riempire dei volumi di citazioni, molte delle quali avrebbero un sapore comico se nella loro essenza non avessero il più doloroso dei significati.

Avviene che dei sudditi italiani siano provocati da sloveni, ordinariamente con la frase «andate a Tripoli»; se rispondono sono indicati alle guardie, arrestati, e, sotto l’accusa di perturbatori, espulsi — talvolta lo sono anche se non rispondono: basta che uno sloveno si dichiari insultato. Quando la giustizia proscioglie ed assolve da false accuse dei sudditi italiani e ne proclama l’innocenza, la polizia li reclama, li misura, li fotografa e li espelle come se niente fosse successo. Essa ha poteri speciali che le permettono di infliggere un po’ di prigione e di sfrattare senza giudizio per «motivi di speciale considerazione». Due marinai italiani accusati di furto da uno sloveno, riconosciuti innocenti, sono stati espulsi. Il padrone di un trabaccolo, accusato di spionaggio, assolto, è espulso. Un italiano è stato espulso percheé il sindaco del suo paese ne domandava la presenza per una questione di famiglia. Che più?

I processi per spionaggio, per lesa maestà, per provocazione, contro nostri concittadini, fondati su futili motivi, sono innumerevoli. Nel luglio (1913) nove regnicoli erano in prigione per spionaggio. L’assoluzione, come abbiamo visto, non salva dall’espulsione. La polizia ha trovato un nuovo delitto: quello di avere avuto un processo. Esso le offre un vasto campo di attività anti-italiana. Si è stabilito un ufficio apposito per la ricerca di tutti i mandati d’arresto spiccati nel passato, anche il più remoto, contro sudditi italiani, e in base ad essi la polizia espelle anche quando è luminosamente provato che al mandato seguì un proscioglimento d’accusa o una assoluzione. Metodicamente la polizia ricerca presso le prefetture del regno i precedenti o semplicemente le note caratteristiche di tutti i regnicoli sui quali non trova niente da dire, e in ragione delle risposte, espelle. Così un bravo e rispettabile cittadino, da trent’anni impiegato presso una grande ditta commerciale, si è visto sfrattare per un piccolo furto boschivo commesso durante la sua adolescenza. Una condanna di analogo carattere è stata il pretesto di sfratto per un barbiere che da quindici anni lavorava a Trieste. Due ottimi e alacri operai impiegati in una ditta d’istallazioni elettriche sono stati espulsi perché una questura aveva rintracciato di loro questa nota: «Dediti all’ozio e alle avventure galanti». Degli onesti cittadini sono stati sfrattati perchè il loro nome è stato ritrovato in vecchi elenchi di società sportive sciolte dall’autorità parecchi anni fa. Altri debbono l’espulsione al non aver chiuso bene una sera la porta del negozio, perchè ciò è causa di contravvezione.

Una quantità di operai sono espulsi per vagabondaggio appena arrivano, prima che riescano a riceve il «libretto di lavoro» senza il quale non potrebbero essere ammessi, per prescrizione dell’autorità, al lavoro al quale sono chiamati. L’enumerazione sarebbe troppo lunga, considerando che ogni mese da ottanta a cento regnicoli sono così sfrattati, e che in certi periodi la media delle espulsioni di cittadini italiani arriva a cinquanta alla settimana. La media annuale si mantiene sul migliaio, non calcolando le famiglie degli espulsi. Sono cifre terribilmente eloquenti.

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