I mesi di giugno e luglio del 1920 furono, in tutta Italia, particolarmente torbidi.
Durante la crisi ministeriale che doveva ricondurre Giolitti al potere, le folle rosse, sobillate dai loro capi responsabili, approfittarono dello smarrimento di Nitti, per mettere allo sbaraglio la Nazione.
Aggressioni contro i Carabinieri, contro le Guardie regie, contro chiese e case di sacerdoti nei principali centri della Toscana; sanguinosi scioperi del comunismo bianco nel Cremonese; sistematici boicottaggi ferroviari ed aggressioni pressoché quotidiane contro processioni religiose (a Lucca, il 13 giugno, fu perfino calpestata la Croce); tumulti e conflitti in occasione di inaugurazioni dei monumenti ai Caduti; il 22 giugno saccheggi e conflitti a Milano, dove, fra l’altro, il Brigadiere Giuseppe Ugolini viene ucciso a colpi di pugnale, mutilato delle mani e orribilmente sfregiato e quasi ridotto a brandelli; il 23 giugno incendio doloso alla polveriera di Cecina; conflitti a Napoli e barbare scene di sangue nel Saluzzese; il 24 ancora violenza a Milano e a Cremona; il 25 lo scoppio di una bomba al Cova, con morti e feriti, scioperi e barricate nel Bellunese con interruzione delle linee telefoniche e telegrafiche, rottura della ferrovia e delle condutture idriche ed elettriche; il 26 un violentissimo moto anarchico a Piombino, con devastazioni, saccheggi, assalto alla caserma dei Carabinieri. Nello stesso giorno ebbe anche inizio la terribile rivolta anarchica di Ancona, delle Marche e della Romagna, rivolta che costò danni immensi, 24 morti ed innumerevoli feriti; quindi, nei giorni seguenti, le rivolte di Terni e Brindisi, i disordini agrari del Barese, per accennare ai fatti più gravi.
Questo era, allora, il clima che si respirava in Italia e la medesima tensione, inasprita dai contrasti di carattere etnico, si percepiva anche a Trieste, a Gorizia, a Pola e nei centri della Dalmazia sotto controllo italiano.
E fu appunto, nel mezzo di tale preoccupante situazione che piombò nel capoluogo giuliano l’annuncio dei fatti di Spalato, che qui riepiloghiamo molto succintamente.
A presidio della popolazione italiana della città dalmata, era ancorata nel porto la nave “Puglia”. Contro i marinai e gli ufficiali dell’equipaggio si erano già ripetuti più volte atti di violenza da parte di croati e serbi comunisti.
L’11 luglio giungeva a Spalato un agitatore panslavista, il quale aizzava le masse turbolente contro l’elemento italiano. Verso sera, un gruppo di facinorosi, dopo aver rotto le insegne del Caffè Nani, nel quale si ritrovavano per tradizione i dalmati italiani, assaliva insultandoli alcuni ufficiali della “Puglia”, che si recavano come di consueto al gabinetto di lettura della città. Accorreva in difesa dei propri ufficiali su di un motoscafo il Comandante Tommaso Gulli facendosi accompagnare da un “mas”. Giunto alla riva, la folla minacciosa lo accoglieva a furia di bombe, mentre la gendarmeria, appostatosi in ordine di combattimento sulla banchina, apriva il fuoco contro il “mas”. Il motorista Aldo Rossi rimaneva ucciso, il Comandante Gulli venne gravemente ferito, e dopo essere stato operato d’urgenza da un medico del posto, morì sotto i ferri quella stessa notte.
Fu così che, giunta la grave notizia a Trieste, la città reagì tanto inevitabilmente quanto immediatamente.
Il 13 luglio, nonostante i divieti di assembramento emanati a partire ancora dal giorno prima dalle autorità, il Fascio triestino lanciò un vibrato manifesto invitando alla chiusura dei negozi e luoghi di ritrovo in segno di lutto e convocando per le ore 18.00 la cittadinanza in piazza dell’Unità.
In breve tempo la città si pavesò di bandiere abbrunate, le saracinesche di caffè, bar e negozi furono abbassate e moltitudini di persone affluirono al grande comizio in piazza, che già alle 17.30 era gremita.
Poco dopo, il Consiglio direttivo del Fascio, con alla testa Francesco Giunta, usciva dalla Sala Dante (in via del Teatro) e prendeva posto, con la bandiera, sulla fontana prospiciente il Municipio. Parlò per primo il Capitano Dagnino, quindi, salutato da insistenti ovazioni, l’Avvocato Giunta che rifece la storia della guerra e dell’armistizio, affermando il “dovere inderogabile di reagire di fronte alle provocazioni jugoslave”.
Mentre l’Avvocato Giunta parlava e l’immensa folla lo seguiva attentissima, un giovanissimo cuoco del Bonavia, Giovanni Nini, si era avvicinato ai portici del Municipio che formicolavano di gente accorsa dai quartieri di cittavecchia. Gli erano appresso in quel momento alcuni uomini dall’aspetto di braccianti che, alle parole dell’oratore, sghignazzavano in atto di aperta sfida. Un ufficiale, che era vicino, intimò loro di tacere; ma uno di essi, per tutta risposta, estraeva un coltello e si lanciava contro di lui. L’ufficiale sguainò la sciabola, facendo alcuni passi indietro: e in quello stesso istante il Nini s’intromise tra i due. L’individuo del coltello vibrò allora due colpi contro il giovane, trapassandogli il cuore.
Fu la scintilla.
Dato il grido d’allarme, Giunta balzò dal podio occasionale, insieme ad altri dirigenti del Fascio, fra la massa degli squadristi e si lanciarono tutti verso piazza della Borsa. Sparsasi in un baleno la notizia, la folla non più contenuta, si riversò, come furioso torrente, al seguito dei giovani, gridando: “Al Balkan! Al Balkan!”. Tre colonne si formarono; una precipitò per via Roma, un’altra per via San Spiridione; la terza colonna, attraversato celermente il Corso, piegò per via Dante. Poco dopo, sboccando da più parti, la massa, seguita dalla immensa fiumana di popolo bloccava da tutti i lati l’imponente mole del Balkan e lo assediava, al comando di Giunta.
Erano le 19.30: il Balkan appariva, all’esterno, ermeticamente chiuso e deserto. Chiuso il solito cancello di ferro battuto all’ingresso principale di piazza Oberdan; parimenti sprangati gli ingressi dalla parte di via Galatti e di via Geppa; abbassate le saracinesche del pianoterra e tutte le finestre assicurate dalle imposte chiuse, mentre un cordone di sicurezza stava davanti agli ingressi.
D’un tratto, mentre il cerchio degli assedianti si stringeva, una finestra al secondo piano si dischiuse cautamente e qualcuno si affacciò impugnando una rivoltella: subito appresso altre finestre si aprirono, sempre al secondo piano, e si iniziò contro la folla una nutritissima scarica di revolverate. Nello stesso tempo, dal tetto del caseggiato, cominciò una pioggia di bombe a mano che costrinse i tumultuosi a sgomberare la piazza appostandosi nelle vie vicine.
Ma non perciò ebbe termine l’offensiva slava: e allora la truppa di presidio nella Caserma Oberdan dovette intervenire puntando contro il covo del Balkan alcune mitragliatrici, mentre scelti nuclei di squadristi salivano sui tetti del palazzo delle Poste e degli edifici circostanti iniziando, a colpi di rivoltella, di moschetto e di bombe a mano, una serrata offensiva contro i rivoltosi.
Questa mossa strategica ebbe ragione degli avversari: difatti, dopo circa venti minuti di fuoco, gli assediati del “Narodni dom” cedettero. Allora coloro che circondavano l’edificio dalla parte di terra, irruppero contro gli ingressi, né scardinarono i cancelli e le saracinesche, lo invasero e, lasciato che alcuni passeggeri si mettessero in salvo, consegnarono agli agenti e ai soldati il gruppo di rivoltosi che si era asserragliato in una delle stanze più interne.
Piazza Oberdan, la grande via Carducci, tutte le vie adiacenti mareggiavano di folla urlante ed imprecante. Frattanto, dietro ordine di Giunta che cercava di contenere il tumulto, per evitare inutili sacrifici di vite umane, un gruppo di squadristi, guidati da Carlo Lupetina, era riuscito a requisire, nei dintorni, alcune latte di combustibile. Constatato che nessun essere vivente era più nell’interno dell’edificio, richiamati gli squadristi che avevano invaso il tetto, la prima squadra, che era agli ordini diretti di Giunta, coadiuvato dal Lupetina, diede mano alle latte di benzina ed il fuoco divampò.
Alimentate dall’enorme cumulo di munizioni nascoste nella casa slava e che scoppiavano con immenso fragore, le fiamme avvolsero ben presto, nella loro furia divoratrice, il vasto covo nemico.
Che cos’era il Balkan e che cosa rappresentava quel fortilizio ostile all’Italia e a tutto ciò che di italiano veniva considerato, nel cuore di Trieste?
Il “Narodni dom”, la casa slava di piazza Oberdan, accoglieva quattro importanti circoli sloveni, due dei quali, pur essendo stati fondati a scopo ricreativo, non riuscivano a mascherare la propria attività anche nel campo politico. Queste quattro società, che occupavano tutti i locali situati al primo piano dell’edificio, erano: il “Pevsko društvo”, la “Glasbena matica”, la “Slavjanska čitalnica” e l’ “Akademično Jeralno”.
Il “Pevsko društvo Trst”, che contava oltre un centinaio di soci, era stato fondato per promuovere tra la componente slava della città l’arte del canto. Infatti, durante la settimana, si tenevano lezioni di canto, mentre nelle domeniche e in altre festività i cori si producevano dinanzi al pubblico convenuto nel teatro del “Narodni dom”. Presidente di questo sodalizio era un redattore del giornale sloveno “Edinost”, tale Makso Čotić.
La “Glasbena matica”, di cui era presidente l’avvocato Edvard Slavik, si occupava di intrattenimenti teatrali e aveva all’epoca un capitale di 70.000 lire. Anche questi soci, però, non erano del tutto estranei alle altre due società, prettamente di carattere politico, cioè la citata “Slavjanska čitalnica”, gabinetto di lettura slavo, presidente l’avvocato Henrik Okretič, e l’ “Akademično jeralno društvo Balkan”, che avevano sede nei locali della “Čitalnica”.
Il secondo piano dell’edificio era occupato dalla banca slovena “Tržaška posojilnica in hranilnica”.
L’opera di propaganda della “Čitalnica” per il congiungimento di tutti gli slavi con il Regno dei Serbi, Sloveni e Croati era stata sempre intensa grazie ad autorevoli appoggi dei circoli di Belgrado. Fondata nel 1904, quando era stato costruito il “Narodni dom”, durante il periodo asburgico e maggiormente allo scoppio della guerra austro-serba, la “Čitalnica” era stata il covo dell’irredentismo slavo. Inoltre, questa società politica che teneva costanti relazioni con la Jugoslavia, tendeva anche al movimento culturale di tutti gli slavi della Venezia Giulia.
Nel giugno 1918, dopo la disastrosa offensiva degli eserciti austriaci sul Piave, la “Čitalnica” ebbe affidata da alcuni organi monarchici a Vienna, una missione che mirava ad evitare una catastrofe politica nell’Impero, e difatti essa lanciò agli slavi della Venezia Giulia un appello per la formazione di uno Stato sudslavo sotto lo scettro degli Asburgo.
Anche dopo guerra la “Čitalnica” aveva continuato le sue funzioni di alimentatrice della propaganda slava nelle terre adriatiche. Si tenevano frequenti sedute e conferenze, mentre diverse volte la sala veniva ceduta alla sezione femminile della società “Cirillo e Metodio”, ed ogni venerdì sera si riuniva pure l’ “Akademično jeralno društvo Balkan”.
Il Balkan disponeva di un apparecchio radiotelegrafico segreto, di un filo di congiunzione diretta coi posti jugoslavi di confine, di un archivio di propaganda, continuamente rifornito da Belgrado e da Parigi, di depositi di rivoltelle, moschetti, mitragliatrici e bombe a mano dislocati ed occultati in varie parti dell’edificio, di un impianto perfezionato di ciclostili per tutte quelle pubblicazioni clandestine che non fosse stato prudente affidare alla stamperia dell’Edinost, e di tre cifrari convenzionali.
Lo stabile albergava personalità di passaggio: giornalisti jugoslavi, giornalisti d’altre nazioni in contatto con i circoli nazionalisti jugoslavi, diplomatici in incognito, gli agenti segreti di alcuni paesi balcanici ed occidentali, e strani uomini di affari che di tanto in tanto capitavano, da est e da ovest, a Trieste...
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