lunedì 16 ottobre 2023

L'ESPULSIONE DELLE IMPRESE ITALIANE DALLA DALMAZIA DOPO IL TRATTATO DI RAPALLO

Si è cominciato ad espellere, a partire dalla Dalmazia, subito dopo il ritiro delle truppe italiane nel novembre 1920, quanto era rimasto di persone, cose, merci, lavoro e danaro, italiani.

Così è avvenuto per la SUFID (Società per l'utilizzazione delle forze idrauliche della Dalmazia), la più grande impresa industriale italiana sulla costa orientale dell'Adriatico, che con ostentate vessazioni e repressioni venne costretta a cedere i suoi impianti e tutti gli altri interessi in Jugoslavia ad un gruppo francese: la Dalmatienne. Questo gruppo francese, capitanato dalle Società di fosfati tunisini, con un capitale di 130 milioni di franchi, ha potuto subito ottenere dal Governo jugoslavo, per la durata di cinquant'anni, la concessione per lo sfruttamento delle forze idriche dei fiumi Cherca e Cetina.

Il deliberato intervento di Belgrado in questo affare è chiaramente definito dal commento che il giornale specialistico "Revue économique de Belgrade" gli aveva dedicato:

"Il nostro pubblico ha appreso con molto giubilo la notizia che questa Società è passata in mani francesi ed è stata interamente sottratta alla ingerenza italiana. I nostri ambienti politici ed economici sono così rassicurati che questa impresa non potrà più servire agli scopi di propaganda italiana".

Nessuna ragione economica poteva spiegare il trapasso. Il nuovo gruppo francese, preso possesso dell'impresa italiana che provvedeva pure alla produzione del carburo e della cianamide, ne aveva subito ridotto l'attività perché minacciava concorrenza alla produzione similare delle sue altre imprese in Tunisia.

Ma l'esclusione del capitale italiano dalla Jugoslavia procedeva con metodo.

Una fabbrica tessile serba di Niš, di tale Ristić, che era in trattative con un gruppo italiano per una partecipazione finanziaria, è stata diffidata dall'autorità perché rinunciasse subito al suo piano.

Basterebbe del resto contare i continui ricorsi per risarcimenti di danni presentati da sudditi italiani in Jugoslavia per i provvedimenti arbitrari presi contro il loro esercizio di commerci, industrie, professioni e mestieri. Ve ne sono stati a Traù, Lissa, Pago, Lesina, Spalato, Veglia, Sebenico, nelle isole ed in terraferma.

L'autorità jugoslava aveva pure iniziato sistematicamente ad annullare - contro i diritti assicurati agli optanti italiani dai Trattati di Rapallo e Santa Margherita, dal Trattato di Commercio e navigazione e dalla Convenzione di Brioni - l'iscrizione alle riformate capitanerie di porto della Dalmazia delle imbarcazioni di loro proprietà, vietando così loro ogni lavoro dedicato alla pesca, che non era possibile praticare senza questa iscrizione. Gli italiani più tenaci, dovettero così fare iscrivere le loro barche sotto nomi di cittadini jugoslavi, con gravi spese e rischi di appropriazione indebita che falcidiavano così i loro scarsi profitti.

E fu così che nel giro di soli due anni, attraverso questa chirurgica politica repressiva, l'investimento del capitale italiano in Jugoslavia subì un crollo spaventoso: mentre alla fine del 1920 ammontava a circa un miliardo di dinari, dopo la cessione della SUFID ai francesi scese a 600 milioni, per giungere nel 1931 a meno di 400 milioni (circa 100 milioni di lire, al cambio dell'epoca).

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