Chi visita oggi Spalato, divenuta seconda città dell’odierna Croazia, non trova quasi più traccia di italiani. Eppure la storia parla…
Città bellissima e maestosa, è costruita all’interno delle grandi mura del palazzo di Diocleziano che tuttora ne cingono il quadro urbano. Creato come un accampamento militare, aveva quattro porte e due vie principali a croce (il Decumano e il Cardo cha ancora oggi si chiamano così) con un lato affacciato sul mare.
Il palazzo di Diocleziano, rimasto disabitato alla morte dell’imperatore (313 d.C.), fu occupato tre secoli più tardi dagli abitanti della vicina città romana di Salona (oggi ne rimane un’importante area archeologica) in fuga dalle incursioni degli Slavi e degli Avari, costituendo il nucleo della moderna città di Spalato, nome che deriva appunto dalla contrazione di Salona e palatium, “palazzo di Salona”.
Spalato donò alla storia italiana figure nobilissime come Antonio Bajamonti, riconosciuto anche dai croati come il “mirabile podestà”, o quella di Francesco Rismondo, bersagliere volontario e medaglia d’oro della Grande Guerra, scomparso in un’aura di leggenda sul monte San Michele il 10 agosto 1915 e battezzato da Gabriele D’Annunzio “l’Assunto di Dalmazia”.
Nel ’900 Spalato fu teatro di forti scontri nazionali, di episodi tragici quali l’eccidio di Tommaso Gulli, comandante della nave Puglia e del suo motorista Aldo Rossi nel luglio 1920, e della violenta soluzione finale antiitaliana dei partigiani titini nella seconda guerra mondiale.
L’8 settembre ’43 aveva dissolto non solo l’esercito ma anche tutto l’apparato statale italiano del “Governatorato di Dalmazia". I partigiani di Tito s’impossessarono della città di Spalato dal 10 al 27 settembre 1943, giorno di arrivo dei tedeschi. In quei pochi giorni persero la vita diverse centinaia d’italiani, dei 2.500 circa che la abitavano, ammazzati senza pietà dai partigiani di Tito.
Come da copione mirarono prima di tutto a istituzioni e divise italiane: furono così trucidati 10 carabinieri, 11 guardie di finanza, 41 poliziotti e circa 250 civili i cui corpi finirono in varie fosse comuni, tre in particolare nei pressi del cimitero di San Lorenzo e della Baia dei Castelli.
Quando a Spalato arrivarono i tedeschi e si eclissarono i titini, una giovane patriota italiana si recò dal Comando di Piazza chiedendo il permesso di disseppellire le vittime dei partigiani.
Si chiamava Maria Pasquinelli. Quattro anni più tardi compirà un gesto estremo a Pola, il 10 febbraio 1947, uccidendo il generale inglese De Winton incaricato di consegnare la città agli jugoslavi, per affermare la sua ribellione “ai Quattro Grandi che alla Conferenza di Parigi hanno deciso di strappare dal grembo materno le terre più sacre all’Italia”.
Maria Pasquinelli era maestra d’italiano e faceva anche da segretaria al provveditore agli Studi di Spalato, il professor Giovanni Soglian, un dalmata dell’isola di Lesina: eroico nella difesa della sua italianità andò cosciente e senza paura verso il suo martirio.
Maria ne riconobbe il cadavere tra i tanti putrefatti di quelle fosse comuni. Era stato torturato e fucilato. Aveva una stella marchiata a fuoco sul petto.
Giovanni Soglian da tempo aveva compreso il precipitare degli eventi. In una sua lettera del 30 agosto aveva chiesto al Governo di Roma disposizioni per salvare dai partigiani gli insegnanti italiani della provincia, assicurando comunque il normale svolgimento della sessione degli esami autunnali.
Così scrisse: “Mi sia lecito premettere che nessuno più di me, che per l’italianità della Dalmazia ho lottato e duramente sofferto in un quarto di secolo ormai, desidera e spera che nonostante tutto questa terra rimanga congiunta alla Madre Patria. E mi sia consentito anche dichiarare che a tal fine sono pronto ad affrontare qualunque sacrificio, come da due anni affronto a Spalato ogni rischio personale. Questo desiderio e questa speranza però non debbono impedirmi e non mi impediscono di giudicare le cose con quel senso della realtà che nelle condizioni attuali nella provincia di Spalato è necessaria e doverosa per evitare errori e decisioni comunque contrari agli interessi nazionali”.
E come aveva promesso, il professor Soglian affrontò il sacrificio estremo. La sera del 9 settembre i partigiani erano confluiti sulla Riva ed avevano ammainato il vessillo italiano sostituendolo con una bandiera rossa.
Il 10 settembre, al mattino, il provveditore Soglian fece bruciare gli archivi, dispose per la consegna alla Banca d’Italia dei mandati di pagamento degli stipendi e invitò i docenti a tenersi pronti per la partenza. Molti prepararono frettolosamente i bagagli e si avviarono al porto ma nessuno partì.
L’indomani i partigiani depredarono la Banca d’Italia dei 15 milioni di Lire che c’erano in cassa; bruciarono la Questura ed il Comune, razziarono tutto quanto trovavano nei negozi e nelle case degli italiani, anche i bagagli depositati al porto di quelli che tentavano di partire.
Molti soldati italiani vennero spogliati per la strada di armi e divise tra insulti e sberleffi. In pochi giorni, dei circa 18.000 militari italiani non v’era più traccia: molti avevano ceduto le armi ai partigiani rifugiandosi sul
monte Mariano; il colonnello Venerandi con i suoi carabinieri si era unito ai titini, l’ammiraglio Bobbiese, col figlio ed alcuni ufficiali, aveva abbandonato la città con la nave “Illiria” praticamente vuota.
Gli insegnanti si rifugiarono nella sede della Lega Culturale Italiana ma vennero raggiunti, perquisiti e derubati dai partigiani.
Allora Soglian pregò il parroco della chiesa di Santo Spirito, don Merlo, di offrire protezione in chiesa ai suoi professori e di chiedere al Vescovo di favorire la partenza delle donne e dei bambini.
Tutto il personale della scuola riparò quindi nella chiesa di Santo Spirito e Soglian rimase con loro. Gli dissero di nascondersi altrove perché lui era un simbolo italiano e lo avrebbero preso. Rispose: “Ho fatto molto bene ai Croati, ne avrò salvati almeno trecento. Se volessero essere giusti dovrebbero darmi una benemerenza. Se poi saranno ingiusti mi metterò nelle mani di Dio”.
Il 22 settembre, come raccontò uno dei suoi collaboratori salvatosi proprio grazie a lui, “i partigiani gridanti il suo nome, vociavano per le strade; egli sentendoli, indossò la sua giacca e dopo aver salutato tutti, si mise il cappello e seguì i suoi carnefici”.
Il giorno seguente la Pasquinelli riuscì a far portare del cibo al carcere, ma la risposta fu: “Ora al professore non serve più nulla”. Giovanni Soglian era già in quell’enorme fossa, fuori dal cimitero.
E assieme a lui altri italiani marchiati a fuoco con la stella a cinque punte. C’era anche il suo amico Eros Luginbuhl, ex preside del Ginnasio Gian Rinaldo Carli di Pisino e poi del Ginnasio di Spalato.
A lui la stella l’avevano marchiata sulla fronte.
(dal volume di R. Menia “Dalle Foibe all’Esodo”, 2020).
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