L’apertura del nuovo fronte con l’Italia fu vista dagli sloveni come un’aggressione al loro spazio etnico. La politica imperiale seppe sfruttare quell’apprensione trasformando il teatro di guerra anche in una contrapposizione nazionale, incanalando i dissapori accumulati tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.
Dopo la guerra del 1866 e le cessioni territoriali, gli sloveni, seguendo un’impostazione fortemente etnocentrica, individuarono nell’Isonzo una sorta di linea di demarcazione tra lo spazio etnico sloveno e quello italiano, sebbene la rivendicazione della Slavia veneta, rappresentasse un obiettivo mai accantonato. Simon Gregorčič, sacerdote e poeta, oltre un trentennio prima (1879), nella sua ode dedicata all’Isonzo (Soči), aveva profetizzato uno scontro vigoroso con un nemico straniero proprio lungo le sponde di quel fiume.
Lo «Slovenec», quotidiano cattolico e conservatore di Lubiana, a guerra iniziata rimarcava: «Agli italiani nemmeno un palmo della nostra terra».
Alla vigilia della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria, ad esempio, lo «Slovenec» intitolò il suo editoriale con un esplicito Giù le mani dalle nostre terre!, accusando la bramosia del Regno sabaudo anche verso regioni in cui non vi era stato mai alcun italiano e/o che mai erano appartenute a qualsivoglia realtà statuale italiana, a detta loro.
Lo «Slovenski narod», invece, nell’edizione straordinaria del 24 maggio 1915, dedicò ampio spazio all’Italia, che «con pretesto machiavellico abbandonò la sua alleata per unirsi ai suoi nemici».
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