giovedì 19 ottobre 2023

LAGOSTA, L'ISOLETTA IN MEZZO AL MARE

 


Non so quanti conoscono questo nome, dolce e amaro insieme: semplicemente il nome di una delle innumerevoli isolette di quella regione lontana, lontana e perduta, praticamente sconosciuta, che a tutt'oggi chiamiamo Dalmazia. 

Se "Fiume è la luna" come commentò sprezzantemente il ministro degli esteri francese Clemenceau di fronte alle legittime richieste dell'Italia, figuriamoci la Dalmazia: infatti alla fine della guerra vittoriosa ci furono proditoriamente negate sia l'una che l'altra.

Ancora meno saranno coloro che sanno che quest'isoletta della Dalmazia meridionale, grande 46 km quadrati (quattro volte l'isola di Capri), fu l'unica (sic!), escludendo le isole del Quarnero (di cui ricevemmo solo Cherso e Lussino), ripeto l'unica isoletta dalmatica (coi suoi vari isolotti e scogli di contorno ove a malapena si può impiantare un faro) a esserci concessa alla Conferenza di pace di Parigi, che, iniziata il 18 gennaio 1919 nel Palazzo di Versailles e terminata un anno dopo, doveva fissare i nuovi termini geopolitici fra gli Stati vincitori della prima guerra mondiale e stabilire i rispettivi compensi, territoriali e non. La Conferenza si concluse con cinque trattati il più importante dei quali fu il trattato di Versailles, ma per l'Italia vi fu in coda un ulteriore trattato, il trattato di Rapallo, firmato con il Regno di Serbi dei Croati e degli Sloveni (poi regno di Jugoslavia) il 12 novembre 1920 dall'accomodante Giovanni Giolitti presidente del Consiglio e l'ancor più compiacente ministro degli esteri Carlo Sforza dopo mesi di laboriose trattative, contrasti interni, dimissioni di precedenti ministri e presidenti del Consiglio, nonchè violenti disordini e proteste della popolazione soprattutto a Milano, Napoli, Firenze, Bologna e Roma, a causa di che il governo fu costretto addirittura a mettere sotto protezione le ambasciate di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna: un popolo italiano agli antipodi di questo, naturalmente. 

Il dalmata Ercolano Salvi, irredentista di Spalato, assieme ad altri dalmati, si spese e si sgolò a perorare ovunque la causa della Dalmazia italiana, ma le perorazioni di serbi, croati e sloveni, molto più chiassosamente patrocinate assieme ai loro atti di violenza e ostracismo contro gli italiani rimasti in loco, anzichè muovere a sdegno pareva paradossalmente servissero a dar loro più ragione, e adunque trovarono ben maggior accoglimento e appoggio nei media stranieri, e non perchè costoro sapessero alcunchè della Dalmazia e della sua storia, bensì per mere ragioni di opportunismo politico e di maldisponenza nei nostri confronti. 

Dopo aver tanto spiegato e argomentato -famosa la conferenza indetta solennemente al Palazzo Ducale di Venezia nel gennaio 1919, all'indomani dell'inizio della Conferenza di Parigi-, Ercolano Salvi dal dispiacere morì d'infarto pochi giorni dopo la firma del trattato di Rapallo, con cui la sorte di Spalato e di tutta a Dalmazia tranne Zara era irrimediabilmente segnata: una sorte ingrata cui seguì un esodo di almeno 20.000 italiani verso il Regno d'Italia e verso Zara, mentre quelli che rimasero si trovarono ingrippati in un regime vessatorio da "leggi razziali", consistente in una serie di restrizioni e impedimenti inconcepibili come quello di non poter esercitare determinate professioni. 

"Dileguata ogni speranza, di angoscia perì." si legge nell'epigrafe dedicata a Ercolano Salvi in via Partenope a Napoli: perchè Napoli? Perchè Napoli fu la città donde si dipartì la fiamma di sostegno al riscatto delle terre irredente, fiamma importantissima innalzata con fermissima dedizione da Matteo Renato Imbriani, il quale era un napoletano di origine avellinese educato alla piemontese in quanto aveva seguito a suo tempo il padre Paolo Emilio nell'esilio in Piemonte, aveva preso parte alla 2a e 3a guerra d'indipendenza, seguito Garibaldi, e fu sempre il punto di riferimento degli irredentisti del confine orientale, anche perchè aveva sposato una goriziana, Irene Skodnik, figlia di quel Francesco Scodnik di cui ho parlato in altro articolo, che nel 1848 gettò alle ortiche la divisa austriaca, partecipò alle 5 giornate di Milano ed educò i figli al culto della Patria Italia.

Dunque, dopo la guerra vittoriosa, l'Italia si ritrovò nell'assurda condizione di dover trattare da pari con uno Stato artificiale nato dal nulla, i 2/3 del quale era abitato da gente (sloveni e croati) che aveva combattuto a fianco degli austriaci contro di noi e conseguentemente aveva perso sonoramente la guerra. Carlo Sforza si vantò d'essere amico dei serbi, ma si fa presto a proclamarsi amici di tutti quando a tutto si rinuncia, e l'isola di Lagosta per l'appunto fu, con la città di Zara, le due briciole che si ricevette della Dalmazia, la quale, anche a volerla considerare italo-slava, non si vede perchè doveva esser regalata tutta intera agli slavi dopo che avevamo vinto una guerra mondiale. E infatti, nel patto di Londra, che fu un patto segreto come allora spesso si usava nella diplomazia, i nostri, sotto pressioni e promesse d'altri cospicui compensi, avevano già rinunciato alla Dalmazia meridionale in favore della Serbia e addirittura a Fiume in favore di una presunta austria o croazia sopravvissute alla guerra, ma non rinunciarono al resto della Dalmazia che, come si sa, è piuttosto lunga e ricca di isole e isolette. Per inciso, Lagosta fa parte dell'arcipelago delle Curzolane, che comprende l'isola di Curzola con il suo arcipelago, la quale Curzola è grande 6 volte l'isola di Lagosta, ragion per cui avremmo dovuto ricevere l'intero arcipelago delle Curzolane e non già un'isoletta in mezzo al mare separata dal resto. Ma tant'è. La logica non fu certo il piatto forte della Conferenza di Parigi, soprattutto per l'agitarsi di quel principio dell'autodeterminazione dei popoli, facile a dirsi e difficile a farsi, che il saccente Wilson sbattè in faccia all'Italia per sottrarle la Dalmazia, a quella data incontestabilmente abitata da una gran maggioranza di slavi, lievitati enormemente di numero nei decenni precedenti a causa della politica austriaca in loro favore. 

Peraltro, chi ritiene che gli slavi siano sempre stati la maggioranza in Dalmazia -anzi la stragrande maggioranza-, dovrebbe, oltre che aver presente la carta geografica della stessa, rispondere a tutta una serie di domande: per esempio come mai nel corso della dominazione austriaca gli italiani cominciarono a diminuire drasticamente di numero col passare degli anni e dei decenni, mentre gli altri aumentavano e si moltiplicavano sia come singoli che come associazioni, il che è indice piuttosto chiaro di una "sostituzione etnica" in corso, che quando è superdiretta e organizzata dal potere di uno Stato va sicuramente a buon fine. Senza contare che non c'era di mezzo un mare da attraversare con barconi di fortuna, ma era sufficiente oltrepassare i confini meridionali del regno di croazia, che dal 1868 era divenuto una circoscrizione amministrativa dell'impero asburgico: dando una semplice occhiata alla carta geografica, ci si rende conto di quanto facile fosse per i croati penetrare dal regno di Croazia in Dalmazia anche a piedi, una penetrazione che fu arrestata soltanto dalle analoghe pretese che i serbi avanzavano nella parte meridionale della regione.

Ci si dovrebbe inoltre chiedere come mai, senza parlar dell'arte, dell'architettura e della lingua dalmatica che i dalmati parlavano prima del "veneto da mar" e dell'italiano che si faceva pian piano strada, i toponimi della Dalmazia fossero quasi tutti incontestabilmente italiani, solo in epoca tarda slavizzati, il che pare alquanto strano se a gran maggioranza gli slavi e in particolare i croati avevano sempre abitato quei luoghi addirittura fin dai tempi delle dominazioni barbariche: così, per esempio, il nome "Curzola", toponimo italiano, è quello originale, successivamente e tardivamente croatizzato in Korcula. La penisola di Sabbioncello, situata nella Dalmazia meridionale davanti alle isole Curzolane con la sua caratteristica forma allungata per 70 km, era chiamata così fin dal 1300 e solo successivamente fu slavizzata in "Peljesac". Così la città di Signo, situata nell'entroterra dalmata a est di Spalato, alle pendici delle Alpi Dinariche. E via continuando. 

E ancora c'è da chiedersi come mai proprio durante la dominazione austriaca e non durante quella Veneziana che immediatamente la precedette, gli slavi cominciarono ad avanzare con la ben nota tracotanza e animosità le pretese territoriali sull'intera Dalmazia: se erano sempre stati la maggioranza numerica della popolazione, non sta in piedi che prima d'allora non si fossero mai fatti sentire ma anzi fossero stati fedelissimi a Venezia anzichè al fantomatico regno di Croazia esistito in epoca alto-medioevale; com'è altrettanto illogico che, di colpo, ex abrupto, senza un filo conduttore, senza alcun precedente nè tantomeno alcun capo carismatico che in loco li guidasse, manifestassero rabbiose pretese territoriali sull'intera regione, il che è invece indice di un piano di usurpazione in combutta con l'Austria a danno degli italiani, piano originato a Zagabria e a Vienna, non già in Dalmazia dove sarebbe stato logico sorgesse. I "pionieri" del panslavismo e del nazionalismo croato reclamante la Dalmazia non erano dalmati, e avrebbero dovuto esserlo se la Dalmazia fosse stata una "terra irredenta croata": ma ciò costituisce per l'appunto un falso storico.

Tornando alla malaugurata conferenza di pace di Parigi, in cui il presidente americano Wilson, pur senza conoscer nulla delle complesse questioni che s'arrogava di decidere, s'atteggiò a sovrano e mattatore, l'Italia, con il suo presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e il suo ministro degli esteri Sidney Sonnino si trovò inclusa fra i "quattro grandi" assieme a Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, ma, di fatto, non potè decider nulla, e l'abbandono della conferenza da parte di un Emanuele Orlando infuriato e piangente e di un altrettanto adirato Sonnino servì soltanto a rincrudire l'ostilità e il fastidio nei nostri confronti. Le terre a cui avevamo diritto, agli occhi degli ex alleati parevano troppe e troppo importanti dal punto di vista geopolitico, cosicchè il principio di autodeterminazione veniva applicato o meno a seconda delle convenienze, tanto che l'Alsazia e la Lorena attribuite alla Francia erano territori a larghissima maggioranza tedesca e vi si parlava da sempre una forma dialettale della lingua tedesca.

Contò ben poco il fatto che noi vantassimo un diritto pieno e incontestabile non solo per aver vinto sul campo di battaglia l'Austria-Ungheria, ma per come l'avevamo vinta, essendo tra l'altro entrati nel conflitto in un momento assai critico per le potenze dell'Intesa, dunque svantaggioso per le nostre armi: a ciò si aggiunga che dopo l'uscita di scena della Russia, l'Austria aveva concentrato contro di noi tutte le sue forze svincolate dal fronte orientale. A quel tavolo di pace, perciò, senza falsa modestia il nostro Paese esibiva un doppio titolo di onore che lo autorizzava a pretendere sia l'applicazione di ciò che era stato pattuito e sottoscritto precedentemente con il "patto di Londra", sia a integrare quel patto con ulteriori concessioni, in particolare dallo smembrato impero coloniale tedesco e ottomano, lasciate in sospeso subordinandole alla vittoria piena delle nostre armi. E la Vittoria piena per l'appunto c'era, alla quale gli alleati in verità non avevano mai creduto e che di fatto non riconobbero mai del tutto: essi vinsero una Germania che meno di due decenni dopo sarebbe risorta più trionfante di prima come Terzo Reich, mentre l'Impero asburgico non risorse nemmeno come eco dell'eco. Peggio: la vittoria italiana si era dimostrata ancor più sorprendente in quanto ottenuta dopo che gli austro-tedeschi avevano sfondato il fronte a Caporetto determinando la drammatica ritirata dei nostri fino al Piave. Era dunque una vittoria con la V maiuscola, che invano i francesi instizziti -e non solo loro- cercavano di rigirare e minimizzare. E poichè a tutt'oggi siamo ancora alle prese dentro casa nostra con storici e narratori che si chiedono perchè entrammo in guerra e impartiscono lezioni di alta strategia militare a tavolino, non c'è pericolo che a casa degli altri prendano nella dovuta considerazione la nostra partecipazione a quel conflitto che infatti nella storiografia inglese è pressochè ignorata.

Giunti dunque al momento dell'incasso sia del patto di Londra sia di altre concessioni da decidersi con spirito equo, leale e collaborativo, l'Italia si vide in malo modo negare non solo una parte importante di ciò che era stato pattuito, e tantomeno si trovò di fronte a uno spirito equo, leale e collaborativo al punto che ebbe la strada sbarrata a tutti i compensi coloniali e perfino alla libertà di commercio con l'Abissinia. E del resto, con vari pretesti, prim'ancora della conclusione della guerra, gli alleati avevano fatto capire che il patto di Londra valeva quel che valeva, e altri patti erano stati conclusi all'insaputa dell'Italia per creare uno stato jugoslavo incombente sul nostro confine orientale, confine orientale per il quale i nostri avevano così eroicamente combattuto. Di conseguenza, i parlatori a vanvera di oggi e di ieri che considerano la "vittoria mutilata" un mito inventato dall'immaginifico D'Annunzio e poi agitato artatamente dal Fascismo, evidentemente non hanno letto i 16 articoli del patto di Londra dove, in cambio di un impegno totale dell'Italia a fianco dell'Intesa e di un'entrata in guerra da attuarsi nel tempo brevissimo di un mese dalla firma del patto, impegno per il quale il Paese avrebbe dovuto dar fondo a tutte le sue risorse (come in effetti avvenne), si enumeravano i giusti compensi da riconoscere all'Italia, per la quale il Trentino Alto Adige e la Venezia Giulia certo non potevano bastare: è chiaro infatti che il nostro Paese non poteva assumersi un impegno così enormemente gravoso senza ricevere null'altro, in particolare la Dalmazia e Fiume. 

Ma, cominciata la conferenza, non ci volle l'acume del navigato Sonnino per capir subito d'aver a che fare con personaggi di dubbia levatura non dirò diplomatica ma vieppiù morale, e che pur s'atteggiavano a salvatori dell'umanità e difensori dei popoli. Guarda caso, i popoli che più di tutti anelavano difendere erano gli sloveni e i croati che avevano combattuto dalla parte dell'Austria contendendoci palmo a palmo l'Isonzo, e i serbi il cui esercito in ritirata, unitamente a decine di migliaia di profughi civili, i nostri avevano tratto fortunosamente in salvo in Puglia con una rocambolesca, grandiosa e a dir poco generosa operazione navale e anfibia nella quale non un solo serbo perse la vita, mentre a noi costò qualche morto, oltre al tempo e alle enormi energie spese e mai ripagate, e proprio su pressione e dietro insistenti richieste degli alleati in cambio di nulla, il che è la cosa più sciocca che si possa fare in campo internazionale: il nulla in cambio.

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