"Ricacciate all'austriaco nella strozza la bassa calunnia, rovesciate nel fango i falsi suoi doni e quelle franchigie e libertà che sono degne della cappa di un buffone, non dei figli d'Italia. Ditegli che pel suo bacio di Giuda non abbandoneremo mai allo stupro l'unità della patria. Lo stendardo tedesco non allignerà giammai coi suoi fiori di morte, il giallo ed il nero, al di qua del Brennero, al di qua delle Alpi Giulie.
Goriziani e territoriani!
Così solo, strenuamente combattendo, non sarà da tradita fede contaminato il saluto che oggi mandiamo al padre nostro (il Re d'Italia n.d.r.), e come pugnale avvelenato si conficcherà nel cuore dell'Asburgo il grido:
Viva Giuseppe Garibaldi! Viva l'Italia una!"
Quando si parla di Risorgimento e Irredentismo, la città di Gorizia, oggi ridotta ad essere la 4a provincia più piccola d'Italia dopo Trieste, Prato e Monza, finisce puntualmente per restare dimenticata ai margini della Storia Patria, come fosse una specie di appendice di scarsa importanza. Parlando di Risorgimento, Irredentismo e anche di Grande Guerra, si accenna a Trieste, all'Istria e perfino alla Dalmazia, ma la povera Gorizia vien lasciata indietro in una specie di dimenticatoio, il che è imputabile più che altro all'ignoranza dei fatti che la riguardano relativi al Risorgimento, all'Irredentismo e anche alla Grande Guerra, nonchè alla sua storia in generale. E dire che il Sacrario più importante e più bello d'Italia, ove son sepolti 100.000 nostri caduti della Guerra '15-'18, si trova lì a due passi, nel comune di Fogliano-Redipuglia, uno dei 25 comuni che le sono rimasti dopo la disastrosa amputazione seguita alla 2a guerra mondiale.
Infatti, mentre l'esiguità territoriale delle provincie di Prato e Monza è dovuta al fatto che sono recenti, ricavate all'interno di altre, quella di Gorizia è dovuta unicamente alle disgrazie della 2a guerra mondiale che la privarono del suo meraviglioso entroterra costituito dall'alta e media valle dell'Isonzo e del Vipacco, dalla selva di Tarnova, dall'altipiano della Bainsizza, oggi facenti parte della Slovenia. Come non bastasse, la stessa città fu divisa a metà, e nei suoi sobborghi è sorta quella specie di bruttura che è la Nova Gorica slovena, assieme alla gigantesca scritta dedicata a Tito sul monte Sabotino, poi modificata, sparita e ricomparsa, che deturpa il paesaggio fisico prima che psichico, ma, contenti loro, se lo tengano pure assieme alle centinaia di migliaia delle sue vittime che si ritrovano sotto i piedi.
Ora è chiaro che, nell'epoca oscura in cui viviamo, i mestatori della Storia o chi per essi sono tutti in fibrillazione e si mettono in allarme se solo si osa scardinare gli assiomi del politicamente corretto, e dunque sarà capitato a chiunque di sentir dire che Gorizia ha un nome sloveno (in realtà la questione è controversa), che gli sloveni sono lì da 1000 anni (dimenticando che in un così lungo lasso di tempo o si assimila o si è assimilati, "tertium non datur"), che la città non appartenne mai all'Italia, fu prediletta dall'imperatrice Maria Teresa, devota degli Asburgo, e pertanto gli italiani, più che a casa loro, sono ivi vissuti non dico come ospiti e tantomeno come occupati, bensì in un beato condominio austro-sloveno trilingue, insomma in una "bomboniera cosmopolita in miniatura" che se pure non può paragonarsi a quella di Trieste che faceva 200.000 abitanti, "ipso facto" non autorizza a dire che Gorizia e i suoi territori erano italiani: chi dunque non è stato investito dalle declamazioni eccitate che Trieste e Gorizia erano città cosmopolite? Da qui, dire che la Grande Guerra fu guerra di conquista del Regno d'Italia, tacendo sul Risorgimento e l'Irredentismo dell'una e dell'altra (argomenti per addetti ai lavori che vengono saltati a piè pari), è un tutt'uno. L'ultima che ho udito a tal proposito è che a Gorizia il Risorgimento non ci fu. E, del resto, se non ci fu a Trieste, perchè avrebbe dovuto esserci a Gorizia?
Dunque Gorizia, al di là delle teorie sulle origini del suo nome che ha un'importanza relativa, è ed è sempre stata una città FRIULANA, in stretto contatto con le altre città del Friuli (in primis Udine) che fu sotto Venezia fin dal XV° secolo, e con il Veneto, ma, per una serie di contingenze storiche, si trovò infine sotto il tallone austriaco dopo la morte senza eredi, nel 1500, dell'ultimo conte di Gorizia Leonardo, sposato a Paola Gonzaga, detta Paolina, che gli premorì. Rimasto solo senza la guida illuminata della moglie, cresciuta ed educata alla raffinata corte del palazzo Ducale di Mantova, e della quale era innamorato nonostante la mancanza di eredi, Leonardo cadde negli imbrogli del suo perfido e ambizioso capitano del castello, Virgil Von Graben che, mentre faceva mostra di voler cedere la Contea ai Veneziani, in realtà cospirava con il duca Massimiliano d'Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, nemico giurato della città lagunare e divorato dalla smania d'impadronirsi di quei territori: così, sul letto di morte il Von Graben fece firmare al Conte, ormai impotente a reagire e di cui probabilmente s'era affrettata l'agonia, un atto di successione che agli austriaci apriva le porte. E dove ci sono gli austriaci ci sono gli imbrogli, checchè una benevola storiografia ne dica, una storiografia che omette di considerare che Gorizia con il suo bel territorio, staccati dall'alveo naturale del Friuli, andavano incontro al triste destino di diventare un pesce fuor d'acqua dall'identità triste, incerta e scolorita, o, per dir meglio, condannata all'assorbimento da tedeschi e sloveni. Ed è precisamente ciò che sarebbe dovuto in tanti secoli logicamente accadere giacchè si finisce sempre per cedere al più forte, eppure non accadde. E perchè non accadde? Non accadde perchè Gorizia si sentì sempre friulana, si sentì sempre sorella di Udine, di Palmanova e di Cividale, non di Graz, di Lubiana o di Lienz, e dunque la forza della sua identità che si voleva conculcare, resistette, ebbe il sopravvento e vinse.
Non ci sono stati grandi clamori patriottici a Gorizia, nè tampoco sangue e massacri: taciturna, appartata, composta, di essa si sa così poco che pare addirittura assente dal panorama Risorgimentale, ma la sua assenza è un'apparenza, il suo silenzio un inganno, il suo quietismo un tarlo erodente di cui dovettero accorgersi "obtorto collo" gli austriaci che, dopo averla decantata fedele e prediletta pur di fronte a manifestazioni contrarie, si videro un gigantesco Tricolore issato sul monte Podgora la mattina del 2 giugno 1878. Sconcertate e colte di sorpresa, le autorità, pur in possesso di liste di sospetti e sorvegliati, non riuscivano a capacitarsi, anche perchè i colpevoli non si trovavano: si pensò a "gente venuta da fuori", era questa la scusa che sovente le autorità accampavano per coprire gli ammanchi delle indagini. E' vero che i modesti disordini studenteschi accaduti in città nel 1848, trent'anni prima, erano stati aizzati da un forestiero, Antonio Antonaz, il quale trovavasi temporaneamente a Gorizia per motivi di studio: proveniente da Portole d'Istria (un minuscolo borghetto dell'Istria interna) costui era un acceso filoitaliano, già sospetto alla polizia coi suoi due fratelli Isidoro e Giovanni: un tipo pericoloso e abile a menar pel naso le autorità, poi finito sotto processo a Trieste nel 1862 per reati politici a mezzo stampa in qualità di redattore del giornale il Tempo (che fu sospeso e poi soppresso) assieme al suo collaboratore, il sacerdote Don Paolo Tedeschi, accusati entrambi di alto tradimento, perturbazione della pubblica quiete, sedizione e offese alla religione, mentre il fratello Isidoro, fuggito in Italia come volontario garibaldino nella 3a guerra d'indipendenza (1866), era stato condannato in contumacia per alto tradimento nel 1867, e quindi si era stabilito definitivamente a Venezia. Ma era anche vero che Gorizia, per conto suo, ben prima del 1878 aveva messo in atto dimostrazioni di italianità e tradito l'esistenza di un combattivo Comitato segreto d'azione i cui membri risultavano armati di pugnali numerati, fabbricati a Brescia e timbrati a Udine, su cui era inciso il motto "Gorizia libera", mentre la rigida censura e l'asfissiante sorveglianza poliziesca impediva a qualsiasi giornale "italianeggiante" di decollare: fu così che il "Giornale di Gorizia " e l'"Eco dell'Isonzo" che avanzavano istanze nazionali, furono subito soppressi, così come fu impedita la collocazione di un busto di Dante Alighieri nella sala del Consiglio Comunale, voluta dal medesimo, e subito sciolto per aver osato proporla.
Del resto, la lettura soltanto di alcuni rapporti confidenziali di Polizia, che si serviva di agenti segreti, spie e informatori prezzolati, è sufficiente a sbriciolare il luogo comune che vuole Gorizia quasi assente dal panorama delle rivendicazioni nazionali o quantomeno tiepida, o, peggio, adagiata in un fantomatico cosmopolitismo con tedeschi e sloveni. Al contrario, la città era sorvegliata peggio di Trieste, turbata e disturbata da perquisizioni domiciliari e inquisizioni a ogni soffiata dello zelante agente segreto "Martin", e considerando che all'epoca non era che una piccola cittadina con meno di 20.000 abitanti, ciò basta a significare quanto fossero fondati i timori e i sospetti dietro la facciata linda e pinta.
Ecco uno dei numerosi rapporti dell'onnipresente agente segreto "Martin" che fece scattare la segnalazione, in questo caso al Commissariato di Cormons (un paesino a 20 km da Gorizia), di un pericoloso patriota: "Giuseppe Faidiga, caffettiere (leggi "barista") da Gorizia, di anni 20, alto, magro, pallido, biondo, è transitato lì alla volta di Brescia per andare a prendere il pugnale. Al suo ritorno fermarlo subito." Chiaramente questi pugnali erano il segno distintivo dell'appartenenza al Comitato d'azione per la riunione di Gorizia all'Italia, e l'andare a ritirarli di persona costituiva un ulteriore segno di coraggio e determinazione. L'agente "Martin" riuscì a scoprire che uno di questi pugnali, con numero progressivo 74, era in possesso perfino di Carlo Doliac, figlio dell'ex podestà (sindaco) di Gorizia. Egli arrivò a trovare il numero progressivo n.142, dunque era chiaro che ce n'erano molti di più.
Ma chi erano gli autori dell'audace gesto dell'innalzamento del Tricolore sul Podgora? Erano Carlo Seppenhofer, Giorgio Bombig e Adolfo Venuti, un "trio" dietro al quale stava acquattata una novella schiera di silenziosi fiancheggiatori dalla vita insospettabile, tutti di Gorizia e dintorni. I giornali riportarono la clamorosa notizia ma vennero immediatamente sequestrati, ciò nonostante essa passò di bocca in bocca, e già il fatto che le indagazioni cozzassero contro un muro di gomma doveva far sorgere serie preoccupazioni sulla città "fedele e prediletta".
Ma la verità era che la città si sentiva, com'è naturale, friulana e italiana come Udine e come Pordenone, come Cividale e come Cervignano dove, nel 1861, alla proclamazione del Regno d'Italia erano state inscenate manifestazioni con seguito di arresti (esposizione di tricolori, marce silenziose, invio di messaggi augurali a Torino), il che costituiva un pericolo enorme per l'Austria che non poteva permettersi di perderla col suo prezioso e bellissimo entroterra Isontino.
Nel 1866, a seguito della 3a guerra d'indipendenza, il Friuli occidentale e centrale, con il Veneto, erano tornati all'Italia, ma il Goriziano ne era rimasto tagliato fuori, il che da una parte incrementò i suoi rapporti con Trieste, anch'essa tagliata fuori dalla riunificazione, e nel contempo stabilì a Udine, distante solo 50 km da Gorizia e tornata all'Italia, una combattiva base d'azione formata da esuli goriziani, istriani e triestini riuniti insieme, rappresentati dal nobile goriziano Pietro de Carina Szent-Varos, il quale teneva a nome loro le tante corrispondenze con personaggi importanti del Regno d'Italia onde mantenere viva la questione del Friuli orientale e del confine alle Alpi Giulie: sua fu la lettera di ringraziamento, scritta nel giugno 1868, all'onorevole Benedetto Cairoli, eroe del Risorgimento, che in Parlamento aveva con passione dichiarato che gli italiani ancora sotto il giogo straniero dovevano essere considerati cittadini del Regno d'Italia. Questa lettera così incominciava: "Onorevole signore. Dopo i disastri di Lissa e Custoza, dovea in noi esser spenta ogni speranza di vederci uniti alle famiglie italiane. Pure, incrollabile fu la nostra fede..."
E' stata questa la forza di Gorizia: non insurrezioni, massacri, spargimenti di sangue, dirompenti proteste, ma il silenzio; un silenzio duro, sordo, tenace e raggiratore, pregno di un lavorìo sotterraneo di fede che ha fatto sì che la città che a un osservatore superficiale pareva un borgo tedesco rimpinguato di sloveni, si rivelò tutt'altra da quel che appariva. Del resto il patriota goriziano Francesco Scodnik (originario di Canale d'Isonzo, un paesino che oggi è in Slovenia), raccontando nelle sue Memorie come, a seguito di una forte crisi di coscienza, egli avesse gettato con altri goriziani la divisa austriaca alle ortiche partecipando con passione alle 5 giornate di Milano, aveva scritto tra l'altro: "In quell'anno (il 1847), io cominciai a leggere più seriamente la storia d'Italia, questa classica terra culla di civiltà, e confrontando l'antica sua grandezza alla susseguente inferiorità di quell'epoca, mi sentii stringere il cuore e imprecai contro i potenti che ne fecero sì misero strazio...".
A quel tempo, così come Trieste era in contatto con Venezia che non le lesinò rimproveri e recriminazioni, analogamente Gorizia, in contatto con Udine, subì da questa rimbrotti e critiche per non essersi spesa abbastanza per la causa nazionale. Infatti, essendo Venezia e Udine luoghi di forte impatto anti-austriaco e insurrezionale, crogiolo d'intenso patriottismo, Trieste e Gorizia di fronte ad esse soffrirono sempre un complesso d'inferiorità per la propaganda negativa che le altre due fecero a loro danno, insoddisfatte per come s'erano portate al cospetto della nazione in quel formidabile 1848, l'anno delle grandi insurrezioni, ove in molte città italiane erano stati cacciati gli austriaci e formati governi provvisori. Ma la differenza era palese: Venezia e Udine non vivevano sotto l'incubo della sostituzione etnica, mentre Trieste e Gorizia sì, esse erano accerchiate dallo slavismo favorito dall'Austria, e un'insurrezione sanguinosa sarebbe riuscita fatale per la sopravvivenza dell'Italianità: dunque, c'è forse da ringraziare siffatta prudenza.
Scriveva nel 1866 il patriota goriziano Carlo Favetti al suo concittadino, l'ingegnere Federico de Comelli Von Stuckenfeld, di Gradisca d'Isonzo, costretto all'esilio a Firenze per i suoi ideali irredentisti che fin da giovane non si era fatto scrupolo di esternare nella stessa università di Vienna: "Abbiamo fatto poco, e non meritiamo la fortuna di essere restituiti alla grande Patria, ma la colpa non è nostra, voi lo sapete al pari di me." In particolare nel 1848 la situazione di Gorizia era come quella di Verona se non peggio: se a Verona, diventata il quartier generale austriaco dopo l'inopinata avanzata di Carlo Alberto fin sotto le sue mura, c'erano dieci battaglioni per tenere a bada l'ordine pubblico, a Gorizia si era temporaneamente acquartierato con oltre 13.000 uomini il generale Laval Nugent Von Westmeath il quale dava alle fiamme i villaggi friulani ribelli e uccideva sul posto tutti quelli che si ribellavano e che gli fu dato incontrare sulla sua strada fino a Udine, costretta a capitolare dopo ore di cannonate grazie alle suppliche e alle lacrime del Vescovo.
Intercettata dalla polizia, l'amara lettera del Favetti, scritta nel mese di maggio del '66, ov'egli auspicava la riunione di tutto il Friuli all'Italia e il suo fermo proposito di sostenere ogni lotta in collegamento con Istriani e Veneti, gli costò la condanna a sei anni di carcere duro da scontarsi in una fortezza in Stiria, di cui ne scontò uno perchè intervenne una grazia che l'imperatore ogni tanto doveva concedere per mantenere in equilibrio i già precari rapporti con il Regno d'Italia. Il fratello minore di Carlo, Giovanni Nepomuceno, scritturale e pittore per diletto, agiva invece con molta minor prudenza di lui che era ammogliato e con numerosa prole da mantenere, tant'è che nel 1863 prese parte a una sfacciata manifestazione garibaldina al Teatro di Società (futuro Teatro Giuseppe Verdi) ove le grida "Viva Garibaldi! Viva l'Italia! Viva Re Vittorio Emanuele!" perforarono le orecchie dell'arciduchessa e degli altri illustri ospiti nell'ultima serata di Carnevale. Così, i responsabili furono tutti deportati in Ungheria, da cui Giovanni ne uscì malato, minato nel fisico, tanto che morì in casa della sorella Amalia, anch'ella di sentimenti italiani e sorvegliata dalla Polizia, morì povero com'era sempre stato, nell'aprile del 1868 a 45 anni: il suo funerale a Gorizia si trasformò in un plebiscito per l'Italia con migliaia di persone. Davanti al cimitero, ove la polizia aveva piazzato un gruppo di sloveni provocatori, scoppiò una rissa in cui questi ultimi, feriti dai coltelli degli italiani, fra i quali eran frammisti molti ebrei della buona borghesia cittadina, ebbero la peggio e batterono in ritirata giurando vendetta. La presenza degli ebrei a fianco degli italiani in una rissa finita a coltellate e ingiurie, suonava come un ulteriore campanello d'allarme per la Polizia: gli ebrei di Gorizia, infatti, come quelli di Trieste, non avevano nessuna valida ragione per buttarsi a corpo morto dalla parte degli italiani, eppure era così. Il più illustre di loro, il professor Graziadio Isaia Ascoli, in risposta alle terminologie austriache, nel 1863 aveva coniato il termine Venezia Giulia che tanta fortuna avrebbe avuto, insieme a quelli di Venezia Euganea e Venezia Tridentina, Tre Venezie e TriVeneto, neologismi entrati poi diffusamente nell'uso comune, che fecero infuriare gli austriaci. Oltre a ciò aveva dichiarato in friulano: "I soi nassut a Gurizza di gjenitors israelits, i sol fi dal Friul e mi glori di chest." (io sono nato a Gorizia da genitori israeliti, sono figlio del Friuli e mi glorio di questo.) Più chiaro di così. Del resto le stampe del seicento e settecento raffiguranti Gorizia, portavano la scritta "Gortz in Friul", Gorizia nel Friuli, il che valeva ovviamente per tutto il contado. La concordia e la tolleranza di cui il professor Ascoli parlava nel suo libro del 1848 intitolato "Gorizia italiana, tollerante, concorde" erano da intendersi nel quadro imprescindibile di una Gorizia friulana e italiana sulla quale non dovevano esserci dubbi: niente a che vedere con ciò che macinavano austriaci e sloveni, e con ciò che hanno impasticciato i nostri governanti dal secondo dopoguerra a oggi, scambiando la concordia e la tolleranza con la più stupida acquiescienza e soccombenza alle megalomanie slovene.
Visto che i Goriziani volevano essere italiani, l'Austria accelerò ciò che già stava facendo: la slavizzazione del territorio. Come risulta dai censimenti (dal 1880 al 1910 gli sloveni in Gorizia raddoppiarono di numero) gli sloveni aumentavano a vista d'occhio, favoriti in tutti i modi dal governo di Vienna che, oltre a incentivare le loro associazioni culturali, sportive, religiose, economiche, etc. che magicamente si moltiplicavano, blandiva e assecondava le loro pretese nazionaliste contro gli italiani, mirando a raggiungere la pressochè completa estromissione di questi ultimi. Proprio nel 1868, per vendicarsi dei suoi infidi sudditi e farli cadere nella rete della provocazione per poi facilmente arrestarli, fu organizzata a Sambasso, un paesino a 11 km dalla città, oggi in Slovenia, una grande adunata di sloveni che, inneggiando all'imperatore Francesco Giuseppe e all'Austria, di fatto programmavano la loro "avanzata" a scapito degli italiani. Erano questi gli slavi che i Goriziani detestavano e contro cui lottavano, sbeffeggiandoli nella canzoncina "Marameo", cantata nel Carnevale del 1899 e da lì divenuta molto popolare, in cui li si invitava a tornare a Salcano, nei sobborghi di Gorizia, perchè la città era tutta italiana e la slavizzazione stupida e grottesca sarebbe giunta a slavizzare perfino Dante e Petrarca, Romolo e Remo, l'Italia intera, l'Europa, la Cina, la luna e le stelle. Guarda caso, solo gli sloveni austriaci non si assimilavano in Friuli. A soli 30 km da Gorizia, infatti, le quattro valli del fiume Natisone erano abitate fin dai tempi della Serenissima da sloveni da gran tempo integrati, i quali avevano conservato la lingua in grazia dell'isolamento montano e in questa lingua esprimevano il loro amore per l'Italia e per il Risorgimento a cui presero attiva parte dall'inizio alla fine. Una loro famosa canzone patriottica così incominciava: "Predraga Italija preljubi moi dom, do zadnie moje ure, jest ljubu te bom" (Italia più che cara, amata mia casa, fino all'ultima ora io ti amerò.....).
La provocazione di Sambasso ricevette però non già la risposta che ci si aspettava, ma un'altra che colse la Polizia malamente di sorpresa, tanto che, per non essere accusata di non aver sorvegliato a dovere, alterò il rapporto, minimizzando l'accaduto che invece si appalesò in tutta la sua portata tanto da farne scaturire un "processone" contro un gran numero di goriziani. Poichè nel mese di ottobre le città friulane del Regno d'Italia celebravano l'anniversario del referendum d'annessione con una festa, banchetti, tombole, musiche, eccetera, i Goriziani avevano escogitato di mandare colà in quell'occasione una loro nutrita rappresentanza: non si trattava che di recarsi a Palmanova, la città più vicina al confine, distante da Gorizia solo una trentina di chilometri, proclamando in faccia a tutti l'italianità della città Isontina e del suo contado, pur sapendo cosa si rischiava: un ritorno tutt'altro che indolore. Come si può immaginare, la coraggiosa delegazione di Goriziani fu accolta a Palmanova dal giubilo generale, tra sventolii di Tricolori, discorsi delle autorità, abbracci, baci, giuramenti di riportar Gorizia nel Patrio alveo e quant'altro, destando l'ira degli austriaci che, più che dalla loro Polizia, lo vennero a sapere in dettaglio dal "Giornale di Udine".
La cosa ebbe un'eco clamorosa e fece adirare le autorità di Vienna alle quali premeva mostrare al mondo che Gorizia e il suo contado erano abitate da una gran maggioranza di sloveni fedeli all'Austria e gli italiani non avevano diritto di pretenderle: l'inganno in cui son caduti e continuano a cadere i penosi cicisbei filoslavi di oggi.
Dopo la comminazione delle condanne, il 20 febbraio 1869 l'agguerrito Comitato di Gorizia faceva clandestinamente affiggere da un suo coraggioso aderente, Melchiorre de Pregi (che poi verrà arrestato e internato nell'ergastolo di Gradisca da cui, con la complicità di qualcuno, riuscirà a evadere con altri detenuti politici riparando a Udine), il seguente proclama che così concludeva:
"Noi persisteremo uniti con energia e perseveranza nella nostra via non tralasciando di dimostrare l'odio di questa Popolazione contro il dispotismo straniero, nè ci spaventeranno gli stati d'assedio anche se in piazza verrà eretta l'emblema della giustizia austriaca: la Forca.
Goriziani!
Vestitevi a bruno, la lotta sarà accanita. Cominciano i giorni del dolore, nè questi avranno fine che quando la nostra Patria redenta sarà unita al resto d'Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele."
Il Comitato
La Grande Guerra non smentì codeste premesse, da me circoscritte per ragioni di spazio, bensì le rafforzò, mostrando chiaro il volto di Gorizia. Già due giorni prima della dichiarazione di guerra dell'Italia erano cominciati gli arresti in città, divenuta un borgo di circa 30.000 abitanti. Tutti i giorni veniva arrestato un gruppetto d'irredentisti o simpatizzanti, nè c'era da discutere: si veniva prelevati e basta, e la deportazione, la prigione o la condanna a morte erano assicurate. A quel tempo, tranne che per l'individuazione di pochi, la Polizia non era riuscita a venire a capo della nuova diffusa rete clandestina patriottica in contatto con Udine, cosicchè gli arresti fioccavano qui e là nervosamente e un po' a casaccio: un'imprudenza, una spiata, una frase sbagliata, il ritrovamento di una carta compromettente, un tricolore nascosto, un ritratto di Garibaldi, accendevano subito il campanello d'allarme e si veniva portati via. Con l'avvicinarsi del Regio Esercito italiano, giunto a Grado, Aquileia e Monfalcone, gli arresti e le perquisizioni andarono avanti per mesi, accanendosi su gente di tutte le età e le estrazioni sociali, sia uomini che donne, se non famiglie intere, come le famiglie Iuch e Del Piero, arrestate in blocco. Così fu arrestata la proprietaria terriera Teodolinda Schnalb e il negoziante Francesco Planiscig, il farmacista Ruggero Kruner e la caffettiera (leggi barista) Maria Illiasch, il macellaio Giovanni Ortali e l'avvocato Cesare Deperis, l'industriale Pietro Favetti e il fattorino municipale Carlo Vouch che, dal campo di concentramento di Wagna, fu riportato con altri concittadini a Gorizia per fare da ostaggio contro gli atti di sabotaggio che avvenivano contro linee telefoniche e telegrafiche, uniti a imprudenti segnalazioni al nostro Esercito dalla cima delle colline, che costarono la vita a più di un coraggioso giovane. Clelia Cassanego raccontò che i ragazzini di Gorizia correvano a raccogliere le granate tenendole come un talismano perchè provenivano dall'Italia. Ciò non vuol dire che gli austriaci non avessero i loro numerosi afferenti, s'intende, soprattutto nel clero, in gran parte sloveno, che fanatizzava nuclei sparsi di contadini ignoranti che, scappati sotto l'avanzare del nostro esercito, raccontavano scandalizzati che nostri soldati buttavano giù i ritratti di Francesco Giuseppe e ci pestavano i piedi sopra: ma i sostenitori dell'Austria furono sostanzialmente impotenti, inadeguati, non in grado di competere spiritualmente e intellettualmente con l'intensa forza degli irredentisti votati alla morte per l'Italia, allora come sempre. La borghesia, il ceto intellettuale, gli impiegati, i commercianti, gli artigiani, l'influente e colta comunità ebraica, gli studenti, erano praticamente tutti dalla parte dell'Italia, anche in paesi piccoli come Lucinico (a 5 km da Gorizia), dove, per aver disobbedito agli ordini di evacuazione, gli austriaci arrestarono il sindaco, il segretario comunale e il giudice Giorgio Zottig, che, assieme ad altri paesani, si erano nascosti negli scantinati aspettando gli italiani.
Decine di uomini che non erano riusciti a scappare in Italia, rimasero nascosti per mesi nei posti più impensati e non si riuscì a scovarli nonostante le ricerche, segno dell'esistenza di una fitta rete di complici.
Quando Sofronio Pocar (cognome che aveva italianizzato in Pocarini) venne arrestato, aveva 17 anni: egli invidiava fortemente coloro che erano riusciti a fuggire oltreconfine per arruolarsi nel Regio Esercito italiano a cominciare da suo fratello Edoardo, scappato con un amico, e da molti suoi compagni di scuola riusciti nell'impresa, i quali andavano ad aggiungersi ai molti Goriziani che già in Italia si trovavano, come il pittore Italico Brass che nel 1911 aveva chiesto la cittadinanza italiana e, al seguito della 3a armata, con entusiasmo e fede nella Vittoria ritrasse tanti momenti salienti della Grande Guerra. Trovatosi in carcere con un'altra ventina di concittadini, Sofronio cantava canzoni patriottiche inneggiando al nostro Esercito e tirando su di morale gli altri, al punto che, quando venne eretta la forca nel piazzale, continuò a mantenersi impassibile e sprezzante. La morte gli fu risparmiata per l'età, ma peregrinò da un campo di concentramento all'altro finchè fu arruolato a forza, mentre il fruttivendolo Emilio Cravos venne fucilato per un alterco avuto in una trattoria con due militari sloveni che l'avevano provocato dicendo: "Qui non si parla italiano.", al che il nostro aveva risposto orgogliosamente che lui era nato italiano, era cresciuto italiano e sarebbe morto italiano, opponendo al loro "Viva l'Austria!" il suo "Viva l'Italia! Merda Austria!". Ciò gli valse la morte, non prima che gli austriaci avessero tentato fino all'ultimo di fargli rivelare i nomi degli irredentisti di sua conoscenza promettendogli in cambio salva la vita, al che lui rispose: "No! E femo presto." Nel campo ove fu sepolto, il proprietario piantò un'aiola di fiori in modo che tutti potessero porgergli omaggio, cosa che la città fece in devoto pellegrinaggio subito dopo l'arrivo definitivo degli italiani.
Il 22 giugno 1915 l'intera banda civica di Gorizia venne sciolta per sospetto irredentismo, mentre l'ingegnere del Comune Del Neri e il segretario comunale Vecchi, con l'aiuto di altri complici, riuscivano a portare al sicuro nello scantinato della scuola dei Cappuccini trenta Tricolori nascosti anzitempo nell'ufficio dietro alle bollette da 6 centesimi, per tirarli fuori all'arrivo del Regio Esercito italiano. Il quale entrò una prima volta con la "presa di Gorizia" il 10 agosto 1916 in una città disastrata a causa dei bombardamenti dei nostri, e ov'erano rimasti solo 3500 abitanti; e poi, costretto a ritirarsi a seguito di Caporetto un anno dopo, vi rientrò definitivamente il 6 novembre 1918, in una città ove si trovavano già 10000 persone.
Il 4 novembre, però, dopo l'armistizio di Villa Giusti, il destino di Gorizia appariva ancora incerto e la gente aspettava con ansia l'arrivo delle truppe italiane: si formò un corteo sotto la pioggia con bandiere Tricolori al grido di "Viva l'Italia!". E finalmente la mattina del 6 novembre, ecco giungere le prime truppe: il goriziano Ernesto Abuja issò il Tricolore sul castello di Gorizia, mentre la città veniva tappezzata di proclami che invitavano i Goriziani a non vendicarsi di austriaci e sloveni, e a mostrare tolleranza. La Santa Gorizia pian piano si ripopolava, entravano i giornalisti, rientravano i prigionieri, i fuoriusciti, gli studenti potevano riunirsi liberamente e formavano un Comitato, i giornali prima proibiti avevano via libera, giungeva S.M. il Re Vittorio Emanuele III il 25 novembre, si celebravano Te Deum di ringraziamento, concerti di beneficenza con raccolta fondi, e la città veniva visitata dal sindaco di Roma Prospero Colonna e da quello di Milano Emilio Caldara che portarono indumenti, viveri e medicinali, giacchè gli austriaci in fuga dal 1 novembre, per giorni e per notti avevano trascinato seco carri interi di derrate alimentari, rapinando tutto quel che potevano, soprattutto capi di bestiame (maiali, bovini, ovini, pollami, cavalli), e sparando su chiunque osasse avvicinarsi.
Pochi giorni prima la moribonda Austria, come son certe triste creature che in punto di morte danno l'ultimo colpo di coda alle loro inesauste brame, aveva compiuto l'estremo tentativo di staccare il Friuli dall'Italia premendo sulle autonomie e su di una "libera" quanto insulsa federazione di popoli.
— M. Cipriano
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