Gabriella Chmet, è nata e cresciuta a Capodistria (1973), poi riparatasi a Trieste dove tuttora vive e lavora. Ha scritto vari libri tra cui L’abisso socialista, memorie di una ex Jugoslava - racconta una ragazzina degli anni ’80 in una frazione di Portole quando il regime del Maresciallo imponeva l’utopia di una società fintamente integrata.
“Il libro più difficile, quello maggiormente sofferto, il racconto della vita che definisce un’esistenza intera. No, non sto esagerando, ho la consapevolezza di aver toccato le corde più delicate, di aver messo il dito in una piaga mai del tutto rimarginata. Il racconto che attraversa la seconda metà del Novecento e si conclude ai giorni nostri, è la storia della Jugoslavia di Tito, della sua parabola di dio-padrone di una nazione costruita col ferro e col fuoco su una base puramente ideologica. Una storia che parla di soprusi, di persecuzioni, di violenze, di indottrinamento, di sottomissione alla dittatura e della minoranza italiana schiacciata tra paura e collaborazionismo. Gli occhi sono i miei, quelli di una bambina jugoslava impaurita negli anni Ottanta, e quelli disincantati di un’adulta che ha visto troppi sogni infranti, in un presente che ha smarrito ogni memoria del passato. La storia parte dalla caduta del Muro di Berlino e da quelle speranze nel futuro che avevamo noi giovani dell’Est, speranze puntualmente disilluse per chi ha creduto fermamente in un’utopia: la libertà al di sopra della vita stessa. Da qui a ritroso nel tempo, fino agli inizi della Jugoslavia comunista, tra confini ed emarginazione. Il mito marxista del socialismo reale che avrebbe dovuto condurre al comunismo compiuto, attraverso la collettivizzazione forzata, le confische e gli espropri, la demolizione delle tradizioni secolari, lo stravolgimento della cultura e l’imposizione di un nuovo ordine sociale. Il tutto quale sfondo di vicende personali e di violenze arbitrarie e umilianti.
L’idea di scrivere questo libro mi è venuta diverso tempo fa, però trovare le forze e l’energia per mettere tutto “nero su bianco” ha comportato uno sforzo mentale davvero notevole. Non è facile mettersi a nudo negli aspetti più spinosi della propria vita, raccontarsi come pedine all’interno di una storia che tutto divora e inghiotte, dire la verità in un paese come l’Italia, dove si parla di “fascismo” come fossimo nel 1945 e si “dimentica” di fare i conti col comunismo che ha permeato la cultura negli ultimi settant’anni.
La Jugoslavia ha fatto di me una persona infelice per molti anni, però mi ha anche lasciato memorie essenziali di persone, situazioni e spiritualità non viziate dal consumismo e dal vuoto assoluto dell’Occidente contemporaneo. Ho deciso così di raccontare una nazione in perenne via di sviluppo senza mai giungere ad un fine, un paese lacerato dalle iniquità della potente “borghesia comunista”, un mondo arretrato e rassegnato alla brutalità della polizia politica, il luogo del sommo culto della personalità di Tito; un unicum, questo, anche per i paesi comunisti.
Il Maresciallo padrone della Jugoslavia, il grado militare ad indicare il titolo monarchico dell’uomo forte in una nazione sempre divisa, mai pacificamente composita, che sotto la coltre ipocrita degli ideali comunisti di “fratellanza e unità” cova i peggiori propositi di vendetta. In questa realtà gli oppositori vengono incarcerati, gli “ortodossi” comunisti e i critici rinchiusi nell’orribile gulag di Goli Otok (Isola Calva), la religione osteggiata anche con metodi brutali, i bambini indottrinati fin dall’inizio della scolarizzazione e la società intera trasformata – mediante il terrore prima dell’OZNA e poi dell’UDBA – in un mondo di delatori. Eppure, l’uomo-dio piace a molti, viene celebrato nei mastodontici giubilei di maggio, venerato quale inventore della “terza via” dei paesi non allineati, amico dei governi occidentali e amato dallo star system hollywoodiano. Quando Tito muore, il 4 maggio del 1980, si lascia dietro una crisi economica fatale e una nazione allo sfascio. Tra le macerie di questa nazione io cresco, passo dall’infanzia all’adolescenza e imparo la brutalità della vita troppo presto. Mi illudo di trovare la felicità in una nazione idolatrata ma sconosciuta, l’Italia, dove il clima da perenne guerra civile culturale e politica sembra attraversare ogni strato della società. La disillusione è enorme, lo spaesamento pure, così mi riguardo indietro, studio la mia terra e la interpreto attraverso le sue molteplici culture, cerco di trovare un senso alla vita della gente di confine.
In questo libro ho scelto una narrazione a tratti cruda e brutale ma sempre pervasa da una sottile ironia, poiché trovo sia la modalità giusta per superare ogni abisso della vita. Ne viene fuori un affresco spietato e ironico di una nazione che non esiste più, di un pezzo di vita andato via e dell’oblio attuale della società occidentale, caratterizzata da profondi abissi di ignoranza storica e di superficialità esasperata.
Mi reputo una donna dell’Est, vado fiera della mia storia, sono pervasa da un profondo senso di fatalismo e plasmata da un’antica spiritualità; non credo a nessuna patria, non mi identifico in altro che non sia il passato glorioso del Settecento istriano. Quel mondo in cui colgo l’essenza di me stessa e delle radici che mi legano alla terra, quell’identificazione nella granitica e secolare cultura che ha amalgamato etnie e lingue in qualcosa di irripetibile. L’abisso socialista – come definì la Jugoslavia un commissario politico parlando con mio padre, più di quarant’anni fa – è oramai lontano, come lo sono gli strascichi di dolore e disagio di tanti anni della mia vita. Eppure, quando si nasce nell’Est, l’abisso profondo e tremendo lo si porta dentro e bisogna imparare a conviverci.”
Come vivevate dal di dentro un paese composito come la Jugoslavia?
<<Ti raccontavano la favola di popoli di religioni e lingue diverse che vivevano insieme in armonia grazie alla guida del maresciallo Tito. Non era così perché la gente ha continuato a mantenere le proprie tradizioni, l'identificazione non è mai scattata. Mi è capitato di conoscere serbi, croati, sloveni, bosniaci e la sensazione era che si faceva finta. C'era il mito fondativo di Tito, per cui intellettuali e poeti non scrivevano altro, rappresentavano una realtà che non esisteva. L'autogestione e il ruolo della Jugoslavia nei paesi non allineati erano due mantra. I giornali parlavano per mesi dei summit dei non allineati>>.
I suoi genitori erano iscritti al registro degli italiani. Si sentivano ed erano isolati.
«Soprattutto perché non avevano aderito alle comunità degli italiani. Questi organismi si erano dovuti adeguare alla narrazione titoista. Così come i giornalisti, penso a 'La voce del popolo' o a Radio Tv Capodistria, che collaboravano col regime. Inoltre, pur essendo degli antifascisti - un prozio ha rischiato la vita durante il fascismo perché aveva fondato clandestinamente il partito repubblicano - nessuno della mia famiglia aveva collaborato con i partigiani. Questo era, per così dire, il peccato originale».
Gli anni della scuola sono stati un calvario, botte dai maestri, umiliazioni in quanto italiana.
«Se fossi cresciuta a Buie o a Umago avrei avuto accesso alle scuole italiane, dove gli insegnanti non erano violenti. Ma essendo cresciuta in un luogo isolato come Stridone ho dovuto fare la scuola dell'obbligo in lingua croata, con insegnanti che venivano da posti molto lontani, con una cultura completamente differente. Ho ancora gli incubi di quel periodo». -
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