giovedì 26 ottobre 2023

La Dalmazia vista da un dalmata (Giuliano De Zorzi)




1.1 Orografia

Osserviamo una catena di montagne che nasce qui, al passo di Cadibona, si inarca a coronare questa pianura, la Padana, e prosegue lungo il mare fino a questa zona, alle Bocche di Cattaro, dove comincia il Montenegro. Tutto questo arco di montagne prende il nome di Alpi.

Le Alpi che scendono lungo il mare verso il Montenegro, si chiamano Alpi Dinariche. La sottile striscia di terra stretta fra le Dinariche e il mare è la Dalmazia. Questa larga penisola è l’Istria.

Fra Istria e Dalmazia c’è la città di Fiume con il suo golfo, il Quarnaro, Carnaro o Quarnero. Il nome è variamente scritto, non so quale dei tre sia più legit­timo: Dante scrive Carnaro e così D’Annunzio che usa, meno spesso, anche Quarnaro.



1.2 Etnologia

A questo punto non credo sia necessario scomodare archeologi, etnologi e sociologi famosi per enunciare un assunto di elementare semplicità: il mare unisce, lo spartiacque divide. Vale a dire che le genti che si affacciano sulle sponde opposte d’uno stesso braccio di mare, hanno fra loro contatti frequenti al punto da sviluppare un unico tipo di cultura, mentre genti separate da uno spartiacque si sviluppano in maniera del tutto autonoma. Gli scambi culturali attraverso uno spartiacque, oggi promossi spesso artificiosamente, erano un tempo del tutto trascurabili.


1.3 Preistoria

La frequentazione dei territori dalmati è largamente documentata sia per il paleolitico che per il neolitico. Però, siccome il materiale preistorico ordinato nelle vetrinette dei musei dalmati non è ancora stato studiato (che io sappia) in maniera organica, non mi sento di esprimere altro parere in argomento se non questo: che la veneticità del litorale è antichissima. Quando il D’Annunzio dice: “patria ai Veneti tutto l’Adriatico” enuncia una realtà storica che affonda le radici nei millenni. Si parla tanto di Illiri, ma sta di fatto che le più antiche, se pur rarissime, iscrizioni rinvenute sull’opposta sponda adriatica parlano venetico, lingua italica sorella della lingua di Roma.


1.4 Roma

Tutti conosciamo, o immagino che tutti conoscano, l’arena di Pola, molto simile all’arena di Verona. Tutte e due del I° sec. d.C., Verona un po’ più vecchia, è capace di 22.000 posti, Pola di 23.000 circa. Tutti sappiamo pure che i Romani non costruivano le arene in mezzo al deserto, ma, come gli stadi di oggi, così le arene di allora, facevano parte di un regolare tessuto urbano. Questo sta a significare che Pola non era una stazione per il cambio dei cavalli, ma una città romana vera e propria.

Altri ruderi romani importanti che immagino tutti conoscano, sono quelli di Spalato, città sorta nel palazzo di Diocleziano e che adatta il suo nome al latino palatium (Aspalathon > Spalatum > Spalato, oggi Split). Durante le invasioni barbariche la gente del contado si rifugerà nel Palazzo di Diocleziano come in una fortezza, e piano piano costruirà nel suo interno le case di abitazione. Oggi il centro storico di Spalato, compresa la Cattedrale, si trova inscritto nel perimetro murario del vecchio Palazzo Imperiale.

Ho voluto citare i due estremi di Pola e di Spalato intendendo così includere il tratto di costa nell’attività edilizia di Roma antica. Mi si potrebbe facilmente far osservare che all’epoca l’intero Mediterraneo era pieno di costruzioni romane e il fatto che queste si trovino anche in Dalmazia non sorprende nessuno. Verissimo, rispondo, ma a me basta dimostrare con evidenza che al tempo di Roma antica c’era identità culturale fra le due sponde dell’Adriatico mentre oltre lo spartiacque delle Dinariche non c’era nulla di simile.


1.5 Alto medioevo

L’alto medio evo, l’età delle invasioni barbariche, merita una parola in più perché penso sia poco conosciuto. Parlo per me, naturalmente, che, al tempo di scuola, su questo periodo non ho imparato niente. Lo si sorvolava e basta.

Per quanto ci riguarda, osserviamo che le città dell’entroterra, che non potevano essere difese o aiutate né da Costantinopoli né da Roma, furono spazzate come fu­scelli al vento.

Le città sulla costa, invece, trovarono in se stesse le forze per difendersi. Nona, Zara, Traù, Spalato, Budua e Ragusa rimasero inviolate. Forse quando i bar­bari trovavano l’osso troppo duro lasciavano perdere e andavano avanti.

Rimane il fatto che una volta passata la bufera, le genti della campagna dal­mata che si erano rifugiate sulle isole di fronte alla costa – isole irraggiungibili per le orde barbariche – ritornarono sulla loro terra, ritrovarono intatte le loro città, le loro tradizioni, la loro lingua, la loro fede ed anche il vecchio nome latino di Dalmazia. Il papa Giovanni IV zaratino, dunque Dalmata, spenderà somme considerevoli per riscattare i suoi concittadini Dalmati, o meglio “Romani” come lui li chia­mava, dalla cattività barbarica. Così non solo le ferite che la Dalmazia deve alle invasioni barbariche si vengono sanando, ma, addirittura consapevoli della propria forza e fieri della loro capacità, i Dalmati escono a testa alta da questa du­rissima prova.


1.6 I barbari

Una breve doverosa nota per identificare i “Barbari”. Nelle nostre terre si parlerà di Avari. Genti bellicose e spietate che non lavorano e quando hanno finito di spogliare un popolo vanno avanti lasciando dietro di sé terra bruciata.

Al loro passaggio nella zona di Kiev, a nord del Mar Nero, gli Avari incon­trano una popolazione pacifica e molto numerosa: gli Slavi. Inevitabilmente gli Avari fanno un solo boccone dei pacifici Slavi che verranno costretti a marciare, davanti ai loro padroni, fornendo quella che oggi si chiamerebbe “carne da can­none”. Questi schiavi costretti a combattere si chiameranno bifolchi; gli altri, aggregati alla mandria come schiavi...e basta, si chiameranno bislacchi. Le genti Slave arriveranno in questo modo nei Balcani, a quella terra che un giorno sarà la Jugoslavia: sotto la forma di bifolchi e bislacchi.

Forse le due più evidenti caratteristiche dello Slavo moderno sono da ricercarsi proprio nelle sue travagliate origini. Infatti, a momenti lo troviamo estrema­mente tranquillo, addirittura abulico e fatalista. In questi momenti forse ne riaffiora l’indole lontana, di quando era nelle sue terre di origine. A momenti in­vece esplode in atti di selvaggia ferocia, senza misura. Viene spontaneo allora immaginare in lui un rigurgito di dolore a ricordo dei tempi della crudelissima schiavitù che ha dovuto subire.


1.7 In attesa dei tempi nuovi

Per tornare alla Dalmazia, osserviamo che, una volta finite le invasioni barbariche, le nostre città entrano con impeto nella tormentata storia medievale del nostro continente. Contese dapprima fra Impero Carolingio e Impero Bizantino, poi fra Venezia e Ungheria, sono costrette anche a misurarsi con la pirateria slava e le incursioni turche.

Su queste genti ferrigne e combattive, adusate a difendere giorno dopo giorno con le armi in pugno le loro libertà, arriveranno infine i tempi nuovi.


1.8 I tempi nuovi

Con i tempi nuovi sorgeranno in Dalmazia le confraternite delle arti e mestieri. Confraternite nate intorno al 1300 che nel 1422 si ergeranno a trattare da pari a pari con la nobiltà. Dunque: non spargimento di sangue fra un popolo bestia e una nobiltà indegna, ma un popolo libero e fiero che tratta da uomo a uomo con una nobiltà illuminata per il bene comune.

E dilagherà l’Umanesimo. Le scuole dalmate accoglieranno i migliori maestri provenienti da tutta Italia e in breve da quelle scuole usciranno umanisti, storici, scrittori e poeti. Due soli esempi:

– L’epigrafia, già conosciuta come curiosità erudita, diventa scienza all’inizio del Quattrocento nel triangolo Ancona - Zara - Traù.

– Il grandioso palazzo di Urbino sede dei Montefeltro, che è stato definito “la prima dimora principesca rinascimentale”, è opera dell’architetto zaratino Luciano Laurana.

A questo punto l’identità culturale fra le due sponde del golfo Adriatico mi pare sia una affermazione che non ammette repliche. Al di là dello spartiacque delle Alpi Dinariche esisteva veramente “un altro mondo”.


1.9 Le mille e una notte

Un piccolo ‘stacco’ per dare spazio ad una simpatica curiosità. La famosa raccolta di novelle che ci viene offerta dal mondo islamico sotto il titolo Le mille e una notte, nomina, puramente di passaggio e senza nessun intento propagandistico, alcune città italiane. Le città italiane nominate nelle Mille e una notte sono sei: Roma, naturalmente, la sede degli ‘infedeli’ è ben nota alla gente di religione islamica, Genova, Pisa e Venezia sono Repubbliche marinare in continuo contatto con l’Oriente e chiaramente conosciute le ultime due sono Zara e Ragusa! Zara e Ragusa, citate di sfuggita come città italiane da una fonte insospettabile.


1.10 Ragusa

Ragusa si affaccia alla storia nel 634 e per la grande impronta da lei lasciata merita un cenno a parte. Si chiamerà “libera e sovrana Repubblica di Ragusa” fino al 1814.

Per mille e duecento anni a Ragusa si è parlato italiano. Nei suoi giorni migliori aveva in mare fino a settecento navi! Dico settecento. Nel 1416 abolì la schiavitù. Che cosa ne pensano i nostri amici Inglesi, che pretendono di insegnare la democrazia al mondo intero? Loro hanno abolito la schiavitù nel 1807, quattro secoli dopo, o mi sbaglio?


1.11 Venezia

Nel passare alla venezianità della Dalmazia mi pare di sfondare una porta aperta. Basta guardare quanti sono in Dalmazia i leoni di S. Marco e quanti i campanili veneti per rispondere con un sorriso disarmante. Ma a questo proposito desidero ricordare un particolare storico dal sapore di aneddoto. Nel 1797 a Venezia, durante l’ultimo gran consiglio, i pareri erano discordi: chi voleva resistere ad oltranza e chi voleva evitare un inutile spargimento di sangue. Il doge Lodovico Manin tentennava. Si dice che allora il procuratore anziano gli gridò, additando il berretto che rappresentava il potere dogale: “Tolé suso el corno e andé a Zara”. A significare che una eventuale estrema e disperata difesa della Serenissima sarebbe stata possibile solo dalle mura di Zara.


1.12 Campoformio 1797

Con il trattato di Campoformio, Venezia passa all’Austria. Segue il destino di Venezia ovviamente anche la Dalmazia considerata quasi come un optional della Repubblica. Nel 1866 Venezia ritorna libera, ma la Dalmazia rimane sotto il giogo austroungarico.

L’entusiasmo risorgimentale che aveva infiammato i cuori dei ragazzi italiani che si battevano nel Lombardo-Veneto, per esplodere in Dalmazia dovrà aspettare la fine della prima guerra mondiale e la caduta dell’Impero asburgico. Quando finalmente parte della Dalmazia potrà ricongiungersi alla madrepatria, parlare di delirio collettivo non è esagerato.

Il giorno in cui a Zara si issò il Tricolore sulla cima del campanile del Duomo, fu incaricato dell’alto onore un ragazzo della Società Ginnastica di Zara. Questo ragazzo, dopo alzata la bandiera, posò le mani avanti ai piedi e fece la verticale... in cima al campanile.

E quel ragazzo non cadde di sotto perché sostenuto dai cuori di tutti i suoi concittadini presenti.

Io che non potevo essere presente perché non ero ancora nato, mentre scrivo queste righe mi sento un groppo in gola e non so perché.

Vedo i drogati, vedo i morti del sabato sera e li confronto con quel ragazzo sulla cima del campanile...


1.13 Fascismo

Naturalmente, quando subito dopo arrivò il Fascismo, trovò in Dalmazia terreno fertile. È facile dire oggi: ma voi Dalmati eravate tutti fascisti! E ti credo! rispondo io, che altro saremmo potuti essere? Mussolini ci parlava di Bandiera, di Patria e di Onore e tanto ci bastava. Non credevamo di fare niente di male.

Soltanto dopo la guerra perduta, gente come Sandro Pertini, “il più amato (?) dagli Italiani”, ci ha informato che eravamo tutti cattivi. Ma prima della guerra credevamo di essere persone normali, anzi, meritevoli di lode per i nostri sforzi disinteressati tesi solo ad onorare la bandiera.


1.14 Epilogo

A guerra perduta, Parenzo, tanto per fare un esempio nomino quella cittadina istriana proprio di fronte a Chioggia, Parenzo, dicevo, depone le armi e cavallerescamente si consegna al vincitore. Ma il vincitore non si mostra degno di tanto onore, anzi, forse memore dei suoi disgraziati avi, i bifolchi e i bislacchi, si comporterà in una maniera tale che gli abitanti di Parenzo saranno costretti a lasciare la loro città e i loro averi. In quei giorni lascia Parenzo il 98% della popolazione.

In tutto i profughi da Istria, Fiume e Dalmazia saranno 350.000. Non certo 350.000 barbari migrati dalle steppe, ma popolo civilissimo depositario di una storia e di una cultura che gli intellettuali progressisti nostrani non possono neanche immaginare.

In quei giorni, prefetto della città di Zara..., anzi non si chiamava Prefetto ma Capo della Provincia, era un siciliano di nome Serrentino. Questo siciliano si pro­digò al limite delle possibilità umane per seppellire i morti. Zara infatti aveva subito 54 bombardamenti. Dico 54 bombardamenti su una città grande come un fazzoletto senza una contraerea adeguata perché non era obiettivo militare. Questo significa che gli ‘eroici’ aviatori anglosassoni avevano agio di giocare al tiro a segno contro le barche di civili che cercavano di lasciare la città durante gli attacchi aerei (Fonti: 301 bis Talpo/Brćić, 259; 322 Bambara, 151; 601 Carter/Mueler).

Serrentino, dicevo, soccorre i feriti, seppellisce i morti e organizza la evacuazione. Lui stesso lascia per ultimo la città in fiamme quando ormai gli fischiano le pallottole dietro le orecchie. Ma le brigate partigiane di Tito lo inseguono e lo raggiungono in territorio italiano dopo la fine della guerra, lo strappano da casa sua e lo trascinano oltre il confine. Sarà fucilato, naturalmente, era fascista, non poteva essere che fucilato.

Cade così Vincenzo Serrentino il 19 maggio del 1947. Due anni dopo la fine della guerra.


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