venerdì 27 ottobre 2023

I 40 giorni di Trieste (Pt. 2)

Per quel “fatto compiuto,” scavalcando tutto e tutti, la Jugoslavia riuscì a mettersi in primo piano. Lo fece sotto gli occhi delle truppe alleate, sornione e inoperanti, che bivaccavano a Trieste. Ma Tito trasse la sua forza dalla politica ambigua e dall’intransigenza dell’Unione Sovietica che appoggiò, in questo momento, il suo pupillo. Era inimmaginabile pensare che l’URSS non si sarebbe impegnata, in un prossimo futuro, fino in fondo a favore dei titini.


AI MORTI LIBERTÀ AI VIVI L’ARRESTO

Il Tribunale del Popolo decretava:
1. ... il Tribunale del Popolo viene costituito per il giudizio dei reati fascisti...
4. ...giudica tutte le persone che, con le proprie azioni, abbiano attentato all’esistenza e alla libertà.
5. ... la persecuzione si applica, retroattivamente, all’inizio del movimento fascista.
6. I reati vengono puniti con le seguenti pene
a. pena di morte
b lavori forzati pesanti a vita o a tempo
c perdita dei diritti politici
7. I criminali di guerra verranno giudicati dai tribunali competenti

L’articolo 5 è quello che si prestava di più ad interpretazioni equivoche. Voleva dire tutto e niente. Un maestro che avesse esaltato l’Italia, un commerciante che avesse sostituito l’insegna slovena con una in lingua italiana, i carabinieri che avevano fatto il loro dovere, gli impiegati comunali. Tutti avrebbero potuto cadere sotto l’articolo 5.

Come ben sappiamo, fin dall’arrivo dei titini a Trieste e nella Venezia Giulia, si era attivata l’OZNA il cui imperativo era procedere ad una rapida e sistematica eliminazione della “reazione fascista”.

18 maggio. A Gorizia, ma era accaduto anche prima, dall’Ospedale del Seminario minore vennero prelevati 50 ammalati, se ne distrussero le cartelle cliniche, si disse loro che dovevano essere trasferiti all’Ospedale di Trieste. Sotto la minaccia dei mitra vennero fatti salire su camion e di loro non si seppe più nulla.

Secondo Tito, non era un piano predeterminato, lo avrebbe chiamato “Nient’altro che furore di popolo.”

Spesso si parla di deportati e deportazione. Cosa sono i campi di concentramento jugoslavi? Un esempio per tutti, quello di Basovizza, a 9 km da Trieste.

Quali tipi di punizione vi si applicava?

La FUCILAZIONE per tentata fuga o per “reati” ritenuti gravi dal tenente che gestiva il campo, a sua discrezione.

Il PALO: due pali messi in croce; si legava l’uomo per le braccia, i piedi non potevano toccare terra. L’infelice perdeva l’uso degli arti inferiori, per recuperarne l’uso serviva un mese. 

Il TRIANGOLO: tre assi di legno inchiodate a triangolo. Il prigioniero doveva stare in piedi, sull’attenti finché non sveniva.

La FOSSA: una buca profonda e larga appena per poter contenere un uomo, dove doveva rimanervi per mezza giornata.

Non occorre dire che le pene venivano comminate con estrema facilità e per il solo gusto di infierire sui prigionieri.

Il cibo era mezza gavetta di acqua tiepida e un po’ di farina o crusca.

Già il 2 maggio i prigionieri di Basovizza sentirono uscire da una foiba vicina lamenti e urla in italiano e tedesco.

Per altre lunghe e dettagliate testimonianze rimando a “Trieste, Venezia Giulia” da pag. 209.

Appena occupata Fiume gli slavi uccisero tutti i componenti del Governo dello Stato libero di Fiume, notoriamente antifascista. Ad alcune famiglie portarono da firmare false adesioni allo Stato libero: chi aveva firmato veniva ucciso o deportato.

Da il Memoriale di Protesta di Fiume: “i soldati di Tito... si rivelarono feroci nemici, oppressoriben più rapaci e più crudeli dei fascisti, ben più dei nazisti... penetrarono nelle loro case e li massacrarono con indescrivibile ferocia... il quasi settantenne dr. Mario Bisiach, volontario della I.guerra... immobilizzato da una paralisi... fu strangolato nel proprio letto...il patriota GiuseppeSincich... massacrato sulla pubblica via... il dr Nevio Stakull... fu orrendamente massacrato e ilcadavere gettato nel fiume Eneo...Giuseppe Baucer direttore dell’Ospedale...fu trucidato e... lespoglie... buttate a mare...”

E l’elenco prosegue, drammaticamente lungo.

L’otto gennaio 1946 Radio Trieste con la voce di Livio Zeno-Zencovich, della BBC, disse: “Nell’edificio che ospita il GMA v’è una stanza luminosa e ariosa; in questa stanza siede uncapitano britannico assieme a tre suoi assistenti, e lungo una delle pareti c’è un modernissimomobile d’ufficio in metallo. Questo mobile contiene migliaia di talloncini. Ogni talloncinorappresenta la richiesta di una famiglia priva di notizie di un suo congiunto scomparso dopo il 1.maggio 1945 e contiene il nome di un deportato.”

Quante schede? eccone la conta: TRIESTE 2210, GORIZIA 1560, POLA 998.

Totale 4.768 persone di cui si ignorava la sorte e queste erano le sparizioni notificate ufficialmente. E le altre, quelle taciute quante erano? Molti non avevano famiglia, carabinieri finanzieri avevano i parenti lontano, le loro famiglie, a centinaia, terrorizzate avevano lasciato Trieste, in tutti questi casi nessuno poteva o voleva denunciare la scomparsa dei propri cari. Il fatto più grave capitato durante i 42 giorni era che i poteri civili erano in mano jugoslava e quindi tutto ciò che avveniva in città mancava di documentazione.

Da un documento della Polizia Civile si sa che, dalle ricerche effettuate in città e alla sua periferia erano state trovate 401 salme, 171 militari 230 civili: in tutto identificati 51.

Dalle foibe e dalle fosse dell’altipiano vennero estratte 464 salme di cui pochissime identificate. Mai il Governo italiano, e nessun altro, ha potuto avere informazioni dagli jugoslavi sulla sorte dei dispersi.

Accaddero casi di vero sciacallaggio da parte di sloveni che, dietro lauta ricompensa, davano notizie fasulle alle famiglie che tentavano di conoscere la sorte dei loro congiunti. I ladri di speranze chiedevano soldi indumenti di lana gioielli, dando sempre, in cambio, falsità.

Trieste era una grande città e, senza mezzi d’informazione, la gente era all’oscuro di quanto stava accadendo, al contrario, a Gorizia, più piccola, si comprendeva subito il dramma che si viveva e si lanciava l’allarme. A Trieste i prelievi si pensava fossero dei fermi. Scrive Quarantotti Gambini che in città gli slavi cantavano una strana canzone russa: “Lo zar Nicola ha affisso un manifesto: Ai morti libertà ai vivi l’arresto”, chi la cantava non condannava l’azione dello zar, ma ne gioiva, cantandola, facendola sua. Da quella canzone, continua Quarantotti Gambini prorompeva l’istinto sadico, selvaggiamente primitivo dei popoli troppo giovani.

Tito rassicurava gli Alleati, dichiarava che tutto quello che avveniva a Trieste, avveniva per volontà popolare; ma, se questo era vero, era necessario spargere tanto sangue? Visto che, secondo lui, gli uccisi erano i colpevoli, perché tanta fretta di annientarli, perché non attendere che a condannarli fosse la Giustizia, quella vera?

Il Governo di Belgrado ebbe anche l’impudenza di presentare mozioni di protesta a quello italiano.Nella prima mozione lamentava il fatto che da Radio Bari partissero notizie allarmanti di “presunti sanguinosi incidenti”. Sosteneva che a Trieste regnava la calma assoluta, e che, là, non era mai corso sangue: “I cadaveri che Radio Bari affermava fossero stati trovati numerosi, erano soltanto il frutto della fantasia malata di vociferatori reazionari; sosteneva che noti fascisti circolassero indisturbati per la città”.

Oramai l’opinione pubblica internazionale iniziava a credere a quanto si raccontava in Italia.

Dagli Stati Uniti si lanciarono messaggi di avvertimento a Tito, sottolineando che le forze dioccupazione avevano necessità di avere impianti portuali, linee di comunicazione e di rifornimentiche conducono all’Europa Centrale e che tali porti fossero inclusi in zone amministrate dagli Alleati.

È particolarmente essenziale stabilire un controllo militare alleato su TALE PARTE DELL’ITALIA.”

Anche Francia, Portogallo, Svizzera si interessavano al fatto compiuto avvenuto a Trieste, soprattutto perché spaventati da una eventuale avanzata russa.

Si chiedeva a Tito di sgomberare Trieste e l’Istria, ma non si davano scadenze precise e il maresciallo rispondeva evasivamente. Le pressioni degli Alleati, soprattutto degli americani si facevano piùdecise e, allora, Tito si diceva disposto ad accettare che le sue truppe passassero agli ordini delmaresciallo Alexander. Se ciò fosse successo, le soldataglie titine avrebbero potuto rimanere in città.A Trieste si incontrarono il Maresciallo Alexander e il Capo di Stato Maggiore della VIII ArmataAmericana il gen. Clark.

Subito dopo l’incontro vennero rinforzate le truppe alleate di stanza nella Venezia Giulia e l’VIII Armata divenne operativa, ma le sparizioni continuarono. Il Tribunale del Popolo comunicava che le denunce dei crimini fascisti dovevano essere indirizzate all’Accusatore Pubblico. Esistevano i bandi di pubblica accusa “per fornire testimonianze a favore o contro gli imputati.” Chi si presentava come testimone a discarico, a sua volta veniva imprigionato.

Il Tribunale del Popolo fu attivo solo l’undici e dodici giugno, il precipitare degli eventi impedì ulteriori uccisioni.

Contemporaneamente ai giudizi sommari, quando ce n’erano, sorsero le Commissioni diEpurazione. In questo modo si eliminavano, si licenziavano persone e si sequestravano aziende ed enti. Così avvenne per il Piccolo S.A: “che aveva svolto attività fascista, collaborato con l’occupante tedesco.” Il 6 giugno se ne confiscò il patrimonio. La stessa sorte riguardò anche la Cassa di Risparmio, lo Stabilimento Tipografico Triestino, l’EIAR, l’Istituto Nazionale Luce e l’Agenzia Stefani. Tutto avvenne tra il 2 e il 9 giugno. Si chiusero tutti gli istituti di credito per perfezionare il trasferimento di lire alla Jugoslavia. Si censurava tutta la stampa: perfino le semplici circolari commerciali venivano sottoposte alla censura dell’Ufficio Stampa. Si autorizzò la stampa di un giornalino per bambini che non sarebbe mai uscito e un bollettino parrocchiale.

Fece sperare la pubblicazione del “Lavoratore”, che, durante la Prima guerra mondiale, aveva sostenuto l’italianità di Trieste e della Venezia Giulia, ma dal primo numero i triestini capirono che era solo una brutta copia del “Nostro Avvenire”.

Si costituì un nuovo sindacato “I sindacati unici” che aizzavano i propri aderenti alla violenza anche dopo il 12 giugno, per sabotare con scioperi l’amministrazione del GMA. Sarebbe stata l’unica arma con cui gli slavi avrebbero potuto continuare a combattere la loro battaglia antidemocratica.

Dopo l’allontanamento delle truppe jugoslave, Don Marzari, ex presidente del CLN giuliano, fondò un sindacato opposto che si chiamava Sindacati Giuliani.

Verso la fine di maggio si iniziò a sussurrare che Tito si sarebbe ritirato da Trieste Gorizia e Pola. Il 24 maggio si emise un decreto che invitava tutti i cittadini a rifare la carta di identità. Così gli slavi avrebbero potuto venire a conoscenza di chi era arrivato in regione dopo il 1918 ed espellerlo. Fortunatamente, le nuove carte di identità non furono mai state consegnate.

Il 26 maggio iniziò a funzionare, a Barcola, un ufficio lasciapassare per poter oltrepassare l’Isonzo.

Dalla mattina alla sera si formarono code lunghissime di persone in attesa. I richiedenti erano gente arrivata da lontane province, bloccata in città dagli eventi della guerra. Ma anche questo era un modo per diminuire il numero degli italiani di Trieste e per riuscire a scoprire, tra i richiedenti, qualche esponente dell’italianità triestina che cercava di allontanarsi.

Il 4 giugno si fondò l’UAIS “Unione antifascista italo-slovena” che venne presentata come “un movimento che possiede la forza morale per impedire tutti gli intrighi del nemico che cerca di rompere le nostre file... dobbiamo porre attenzione all’importante compito dell’educazione dei nostri quadri...” Solo dopo pochi giorni l’UAIS diventò il fulcro delle attività jugoslave a Trieste e nel Litorale.

Il 5 giugno cambiò ancora l’orario del coprifuoco. Si poteva circolare dalle 5 alle 24.

Il 9 giugno iniziò le pubblicazioni “Il Corriere di Trieste” quotidiano dell’odiato — dagli italiani — Territorio Libero di Trieste, che non era altro che la continuazione del “Nostro Avvenire” jugoslavo.

Il 12 giugno a Trieste si festeggiò entusiasticamente l’allontanamento delle truppe di Tito e il subentro di quelle alleate.Si tentò, ancora, di far credere che la popolazione giuliana, vittima innocente del terrore titino, fosse contraria all’occupazione alleata.

Tito comprese che lo avrebbero costretto ad abbandonare Trieste e volle lasciare alla città un suo giornale a lui favorevole e che continuasse la propaganda a suo favore. È, appunto, Il Corriere di Trieste.

Dopo il 12 giugno “Il Lavoratore” uscì con un articolo scandalosamente sconcertante nel quale si accusavano le “forze oscure dei grandi alleati occidentali” di aver sotterraneamente lavorato contro la lotta delle popolazioni del Litorale che avevano raggiunto “il loro apice nel corso della guerra e che avevano cozzato contro la peggiore reazione residua del fascismo italiano”.

Lo stesso giorno il “Nostro Avvenire” cessava la sua attività.

Tito comprese che, per il momento, non poteva sostenere l’annessione di Trieste alla Jugoslavia e si accontentava di favorire la costituzione del TLT, che, una volta nato, avrebbe lavorato pro Tito.

La scelta del nome della testata non era casuale.

Si era notato che gli Alleati, come lasciavano i territori occupati all’amministrazione italiana, facevano uscire un giornale che quasi sempre si chiamava “Corriere di”. Quindi Tito si accaparrò la testata che sarebbe uscita a Trieste per moltissimi anni, confondendo non solo i forestieri, ma anche i triestini poco informati e poco acculturati. La stessa confusione fu data dal nome TLT, che, molti, in buona fede, pensavano fosse una cosa buona e di ispirazione italiana.

Come il nuovo giornale, così, con estrema velocità, si costituirono associazioni uffici società commerciali filo slave.

Se ne comprese il perché l’11 giugno, quando si venne a conoscenza del testo dell’accordo firmato a Belgrado tra Tito ed Alexander, in cui si stabiliva che gli Alleati avrebbero mantenuto in vita tutte le associazioni e istituzioni create durante l’occupazione jugoslava, se il Comandante supremo alleato le avesse ritenute funzionali.

E qui si scopre la politica furba e pertinace di Tito che voleva mettere le mani avanti sulla decisioneper il futuro di Trieste: sarebbe stato italiano o slavo? Intanto preparava una base slava fittizia con la quale poter dimostrare che la città pullulava di attività commerciali associazioni istituzioni slave.Non solo, nell’intervista rilasciata al “Nostro Avvenire” nell’ultimo giorno d’uscita del quotidiano, il Presidente del Consiglio di Liberazione, Franc Bevk sostenne con forza che le popolazioni giuliecontinuavano a volere l’annessione alla Jugoslava, che “tutto il mondo ostacolava il loro operato (della Jugoslavia), che al momento dell’occupazione slava non esisteva un CLN italiano” (da loro immediatamente esautorato legittimando i Consigli di Liberazione).

Il Presidente Bevk volle tentare di nascondere all’opinione triestina italiana internazionale che l’occupazione slava era stata piratesca, dolorosissima e durissima.

Lo avevano capito fin da subito i triestini, i Fiumani, gli Istriani, i Dalmati, lo stavano capendo — ma lo sapevano anch’essi, fin dall’inizio, gli Alleati. Quello che ancora non comprendevano e mai avrebbero compreso le genti giuliane era il perché gli Alleati non avessero intentato un’azione di forza contro la Jugoslavia. Non lo potevano capire se si pensa a quanto detto già il 15 maggio 1945 dal sottosegretario di Stato americano Summer Welles “Non vi sarebbe nessuna apparente giustificazione nell’incorporazione alla Jugoslavia di una città che conta l’85% di Italiani”.

Come spesso accadeva, e accade ancora, gli americani predicavano bene e razzolano male, molto male!

Le truppe del IX Corpus abbandonarono i posti di blocco sull’Isonzo, si erano già ritirate di 70 chilometri. A Trieste, dappertutto, si sperava.

Nell’accordo dell’11 giugno, però, Tito si impegnava di ritirare tutte le sue forze al di là del confine previsto e di restituire tutti i cittadini italiani arrestati e deportati.

Il confine, che si sarebbe chiamato Linea Morgan, comprendeva Trieste, la linea ferroviaria e la via di comunicazione con l’Austria, Monfalcone, Caporetto, Gorizia, Pola e gli ancoraggi sulla costa occidentale dell’Istria.

Le truppe ancora dislocate su quei territori non dovevano superare le 2.000 unità di militari di tutti i gradi.

Il Comandante supremo alleato avrebbe amministrato anche Pola e TUTTE quelle altre zone sulla costa occidentale istriana

che si ritenesse opportune. Ci sarebbe stata una missione jugoslava presso il Comando dell’VIII Armata come osservatrice.

Il Maresciallo Tito avrebbe provveduto entro le ore 8 del 12 giugno 1945 al ritiro delle truppe regolari jugoslave, come anche a Pola e circondario.

Si sarebbe deciso in seguito dove dislocare il contingente jugoslavo.

L’articolo 7 stabiliva la restituzione delle persone arrestate o deportate, ad eccezione di quelle che nel 1939 avevano la cittadinanza jugoslava, e la restituzione dei beni confiscati o rimossi. Nonostante molti punti della Linea Morgan fossero molto vaghi, la popolazione confidava negli Alleati.

De Gasperi, il 10 giugno, disse chiaramente che l’accordo sanciva il “fatto compiuto” slavo. Gli americani gli risposero che era l’unica via che permetteva di non ricorrere alle armi. Churchill si inquietò per l’insistenza di De Gasperi.

L’insistenza di De Gasperi, col senno del poi, era giustificata, perché gli alleati non avrebbero occupato mai gli “ancoraggi” della costa occidentale istriana, fatto che avrebbe salvato le cittadine istriane, almeno quelle poste a Ovest.

Da parte italiana, per par condicio, si chiese che, tra le truppe occupanti la Venezia Giulia, fosseroincluse anche le truppe italiane, come, al di là della Linea Morgan, c’erano le slave, ma la risposta fu negativa.

Anche la richiesta italiana di includere elementi italiani nell’amministrazione municipale di Fiume, città martire, fu respinta.

Trieste era confusa: la propaganda slava disorientava, si creavano partiti di idee opposte, anche se uniti dalla comune idea di allontanare il più possibile le odiate truppe slave.

Il maggior disaccordo nacque tra il Governo italiano e la popolazione giuliana. La gente giuliana, umanamente, vide nell’accordo la liberazione da un regime di terrore durato troppo a lungo; il Governo italiano lo vide invece come una operazione diplomatica, probabilmente anche strategica di difficile e ingarbugliata soluzione.

I Titini tentarono anche una manifestazione contro l’accordo, ma neppure le persone che in precedenza avevano ubbidito per la paura di una rappresaglia risposero alla chiamata. Se i triestini lo avessero fatto, avrebbero condiviso le foibe, le fucilazioni, le deportazioni e non avrebbero accettato la libertà personale garantita dalle leggi italiane sotto il controllo alleato.

Il 12 giugno, alla mattina, una folla enorme si radunò in Piazza Unità per assistere alla cerimonia del passaggio dei poteri tra le truppe jugoslave e quelle anglo americane. Splendeva il sole, la piazza non riusciva a contenere la immensa folla. Fu la grande giornata dei triestini, anche se annebbiata dal dolore per la sorte dei fratelli giuliani. Anche se non lo meritavano, fecero festa agli Alleati che venivano a cacciare il triste periodo di incubi e dolore.

In porto stazionavano delle navi inglesi, arrivate durante la notte.

Gli scambi di parole tra Alleati e slavi furono brevi e secche, si ammainò la bandiera del terrore e si alzò una bandiera che significava libertà.

Le truppe jugoslave se ne andarono accompagnate da infinite maledizioni. Non se ne andarono a mani vuote. All’ultimo momento rubarono automezzi, riempiti di medicinali, quadri, opere d’arte, depredando ospedali, studi medici, musei.

I primi automezzi riuscirono a passare la linea di demarcazione, perchè non si sospettava quanto stava accadendo; ma qualcuno lanciò l’allarme e gli alleati bloccarono gli automezzi tentando di recuperare quanto possibile.

Sembrò che tutto il mondo si commovesse per questa giornata che Trieste stava vivendo. Subito dopo anche gli Alleati si rammaricarono di trovarsi invischiati nel gioco della politica titina.

Iniziava la terza fase della tragedia triestina. Gli jugoslavi se ne erano andati ma gli Alleati iniziarono una politica oscillante che fece passare i triestini dal pessimismo all’ottimismo e che li precipitavanuovamente nello scetticismo, che solo il grande amore della città verso la Patria, glielo avrebbe fatto superare.

Gli slavi se ne andarono e si lasciarono dietro il ricordo mai dimenticato degli incolpevoli assassinati, gettati vivi o morti nelle foibe, dei deportati fatti morire di stenti nei campi di concentramento: tutti italiani, colpevoli solo di essere nati in un mondo civile e di parlare la nostra lingua italiana.

Non sapremo mai il loro numero, ma sono migliaia. Sono martiri di un inestinguibile odio di razza nascosto da una bandiera politica. Non hanno mai avuto giustizia.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.